LA CERTEZZA DELLA NOTIZIA?

La certezza della notizia?

23/08/2011 ore 19.00_x000D_ Partecipano: Virman Cusenza, Direttore de Il Mattino; Antonio Preziosi, Direttore di Radio Uno e del GR Rai. Introduce Alberto Savorana, Portavoce di Comunione e Liberazione.

Partecipano: Virman Cusenza, Direttore de Il Mattino; Antonio Preziosi, Direttore di Radio Uno e del GR Rai. Introduce Alberto Savorana, Portavoce di Comunione e Liberazione.

 

ALBERTO SAVORANA:
Buonasera e benvenuti a questo incontro del Meeting di Rimini. Evidentemente, il Meeting sulla certezza non poteva non invitare a un paragone figure del mondo dell’informazione, perché la certezza tiene in modo inevitabile, come tutti possiamo immaginare, col tema dell’informazione, della notizia, del far conoscere che cosa accade: fatti, persone opinioni. E siccome il meeting si sta paragonando già da questi primi giorni col tema della certezza, sta emergendo in modo clamoroso, imprevisto anche rispetto alle nostre stesse aspettative, quanto il tema della certezza sia decisivo oggi nella nostra società. Ce lo ha documentato nella giornata inaugurale il Presidente Napolitano, che ha rivolto proprio da qui un appello a tutta la nazione, a tutti coloro che hanno responsabilità nel nostro Paese, a riguardo di una possibilità d’uscita dalla confusione e quindi dall’incertezza, facendo un appello – ma poi mi piacerebbe sentire una reazione dai nostri ospiti – a tornare a parlare il linguaggio della verità.
Ieri abbiamo avuto ospiti alcuni tra i protagonisti della rivoluzione di gennaio a Il Cairo: cattolici, ortodossi e musulmani che insieme ci hanno testimoniato, in modo assolutamente sorprendente, loro che avrebbero potuto avere mille ragioni per essere lontani, distanti, fondati su certezze opposte, nemiche, il cammino di questi mesi che ha fatto scoprire loro la possibilità di una certezza comune come speranza per il futuro. E ci hanno dimostrato, indicato, segnalato come la certezza, in qualunque condizione l’uomo si trovi, è necessaria per vivere. Senza certezza, l’uomo non può muovere un passo, così come il bambino, senza la certezza della mano della madre, non saprebbe inoltrarsi nella stanza buia. E il tema della certezza – il mondo dell’informazione ogni giorno ha a che fare con questo – è tanto più urgente quanto più il mondo è in rapidissimo cambiamento.
Quanto più crollano sicurezze, stati di vita, situazioni, nazioni intere, tanto più emerge prepotente la domanda: ma c’è qualcosa di certo? Possiamo contare ancora su qualcosa di certo per vivere, per faticare, per fare sacrifici? Ecco è proprio in questo contesto che abbiamo pensato di invitare alcuni direttori di giornali, di radio, chiedendo loro un contributo, una riflessione a partire dalla loro esperienza sul grande tema della certezza. Rispetto al programma che avete visto nel catalogo Meeting, vedete che manca una persona, Roberto Napoletano, direttore del Sole24ore, che due giorni fa è stato vittima di un incidente che gli ha procurato alcune fratture agli arti. Siccome è accaduto 48 ore fa, sperava di essere con noi ma fisicamente non ce l’ha fatta. Si scusa e si impegna a tornare il prossimo anno.
E allora, il dialogo oggi sarà con due dei direttori che abbiamo invitato: Antonio Preziosi alla mia sinistra, direttore del Giornale Radio Uno e di Radio Uno Rai, e alla mia destra Virman Cusenza, direttore de Il mattino di Napoli. Tutti noi, chi più chi meno, chi per curiosità, chi per lavoro, ogni mattina leggiamo qualche giornale, ascoltiamo qualche Giornale Radio. La domanda che potremmo farci, è, dopo la lettura e l’ascolto: posso dire di iniziare la giornata, di inoltrarmi nel lavoro e nella vita ordinaria, con qualche certezza in più rispetto alle domande, agli interrogativi con cui mi sono alzato dal letto? Allora, chiederei a Preziosi e Cusenza, per iniziare il nostro dialogo, che cosa evochi in loro il tema del Meeting, il tema della certezza, per esempio conducendo, guidando, costruendo ogni giorno tante e tante edizioni di un Giornale Radio.

ANTONIO PREZIOSI:
Grazie, Alberto, grazie innanzitutto agli organizzatori del Meeting per avermi invitato.
E’ una domanda forte e stimolante, quella che ci porge Alberto Savorana. Lui ci chiede se dopo la lettura dei giornali, se dopo l’ascolto dei giornali radio del mattino, abbiamo la possibilità di avere delle certezze in più rispetto al momento in cui ci siamo addormentati. Bene, è una domanda molto impegnativa, alla quale posso dare una risposta: la certezza che possiamo dare ai nostri ascoltatori è che le notizie che loro hanno ascoltato all’interno dei nostri giornali radio sono notizie certificate, verificate, credibili, valutate da una grande redazione e da una grande struttura quale quella del Giornale Radio Rai e di Radio Uno. E’ un tema stimolante, quello della certezza delle notizie, perché Radio Uno ha una sua grande missione e un suo grande motto: la notizia non può attendere. Che cosa significa per Radio Uno che la notizia non può attendere? Radio Uno è un canale acceso 24 ore su 24, che ha una sua articolazione di palinsesto, un suo modello organizzativo che prevede che il canale sia completamente in diretta. Quando le notizie non le danno le 54 edizioni del Giornale Radio, spalmate sui tre canali Radio Uno, Radio Due, Radio Tre, Radio Uno ha la possibilità, di fronte alla breaking news, di fronte all’ultima ora, di fronte all’aggiornamento, di modificare in corsa il suo palinsesto e di dare ai radioascoltatori conto e contezza di ciò che sta accadendo nel mondo.
Lo abbiamo fatto in questi giorni, lo stiamo facendo in queste ore, ad esempio lo stiamo facendo sugli avvenimenti libici. L’altra sera, subito dopo la prima notizia che la situazione in Libia stava evolvendo in un certo modo, abbiamo aperto un filo diretto a cui ha partecipato anche il Ministro degli Esteri Frattini, e in tempo reale abbiamo dato ai nostri radioascoltatori aggiornamenti e commenti su ciò che stava succedendo. Lo abbiamo fatto con voi, con la nostra diretta, con l’intervento iniziale del Capo di Stato Napolitano, lo abbiamo fatto con la Giornata Mondiale della Gioventù, da Madrid, con la diretta del mattino, con l’intervento del Papa. Questo è il modello di Radio Uno, modello in cui appunto la notizia non può attendere. Che cosa vuol dire che la notizia non può attendere? Che dobbiamo arrivare per forza primi? Che il fatto che la notizia debba arrivare prima degli altri deve portare a detrimento della sua certezza, della sua verificabilità, del suo essere una notizia certa, sicura e molto ben valutata? Assolutamente no, quello che noi ci imponiamo come prima radio italiana e come primo Giornale Radio italiano, è che tutto ciò che va in onda abbia, per così dire, una sua oggettività, una sua verificabilità. Ciò che si muove nella mente e nel cuore di ciascuno di noi è che non dobbiamo andare a discapito della precisione, della certezza dell’informazione, per il gusto di arrivare primi: dobbiamo assolutamente cercare di fare della notizia ciò che oggettivamente la notizia stessa propone.
Ho ancora in mente una bellissima lezione fattami qualche anno fa quando ero ancora giovane studente della scuola del master di Perugia da un grande direttore del TG1 alla cui memoria mi inchino, Emilio Rossi. Il quale Emilio Rossi ci raccontava che, di fronte alle notizie di uccisioni, di attentati, di disgrazie, la sua prima premura era quella di chiedere ai propri colleghi, ai propri giornalisti, se le famiglie fossero state avvertite. E allora, la certezza della notizia, da un lato, ma anche il rispetto dell’uomo, il rispetto dell’individuo, dall’altro, il rispetto della verità. Questo dobbiamo perseguire con tenacia, il fatto di essere sul mercato dell’informazione non deve portarci ad essere superficiali, a cadere in quelli che sono oggi i peccati del giornalista: la fretta, la superficialità, l’improvvisazione. Consapevoli del fatto che noi, attraverso un intervento, possiamo cambiare forse per sempre le vite degli altri, siamo animati da un tasso di responsabilità e di eticità ancora maggiore.
La notizia non può attendere, quindi, a Radio Uno, ma la notizia può attendere se non è verificata, se non è certa e soprattutto se non è una notizia che dà all’ascoltatore la certezza, una volta svegliatosi al mattino, dopo la sigla del Giornale Radio, che quella notizia che ha sentito nel nostro giornale è una notizia di cui può stare tranquillo, di cui può stare sereno.

VIRMAN CUSENZA:
Innanzitutto vi saluto e ringrazio gli organizzatori del Meeting per avermi invitato. E’ un invito che mi fa particolarmente piacere perché ho sempre apprezzato il pathos che questa manifestazione trasmette a tutti coloro che anche non hanno avuto occasione di passarci in carne ed ossa. Oggi che effettivamente sono venuto qui, lo avverto, lo si avverte persino camminando o passeggiando per i corridoi. Faccio questa premessa perché proprio da un dato molto umano, personale, vorrei partire, perché a questa conclusione sono arrivato, per raccontare il tema della certezza, che è il tema interessantissimo del Meeting di quest’anno. Mi ero preparato una scaletta delle cose da dire, dopo di che l’ho appallottolata e gettata nel cestino, non perché alcune riflessioni non fossero pertinenti o utili ma perché ho pensato che forse fosse più efficace raccontarvi, sulla carne di chi la vive, l’informazione quotidiana che purtroppo di certezze non vive. E’ su questo che vorrei richiamare la vostra attenzione: la certezza, la verificabilità della notizia – come ha detto giustamente Preziosi prima – è essenziale ed è anche il nostro fare, la nostra bussola quotidiana. Purtroppo, però, spesso, anche per il tipo di notizia con cui si ha a che fare, la certezza nel senso della blindatura della notizia, la sua totale verificabilità al mille per mille non è possibile. E questo comporta un margine di rischio per la nostra professione, perché le notizie masticate, impacchettate, offerte, affastellate negli scaffali dell’informazione, non sono le migliori, diciamo la verità.
Per la notizia, specie se scomoda, spesso bisogna fare il lavoro di verifica e di approfondimento che comporta un rischio. Questo rischio è poi attutito dalla credibilità del giornalista, dalla sua capacità di approfondimento, dalla possibilità di introspettarne tutte le varie sfaccettature. E allora, partiamo dalla certezza, e neanche nominiamo la parola verità, che invece sinceramente mi spaventa, da giornalista, perché quella a cui tendiamo è una tensione etica, morale, spirituale, intellettuale, ma certamente non la prova di questa professione. E chi dice il contrario, a mio giudizio, non è in buona fede, perché un giornalista che propina verità non è un giornalista, è un giornalista che vorrebbe tanto assurgere a ruoli che non ha, di cui vorrebbe appropriarsi ma che in realtà la professione non gli mette in mano. Molto più umilmente, il giornalista è un raccontatore di fatti, di notizie che vanno verificate.
E allora, come si fa a verificare queste notizie, a raccontarle nel modo più corretto possibile, rispettando innanzitutto i principi, i cardini che prima Preziosi richiamava, questa lezione di giornalismo che veniva data sulla verifica se siano stati informati i parenti, cioè, la persona innanzitutto? Si fa coltivando quello che io chiamo il dubbio: più che avere la certezza, il giornalista è l’uomo del dubbio, almeno tale mi ritengo. Il dubbio, a mio giudizio, è la capacità di porre domande sulle cinque W che ci hanno insegnato alle scuole di giornalismo, i cinque perché: dove, come, quando, e chi, soprattutto. E’ un metodo per filtrare una griglia di osservazione della realtà e soprattutto per cercare di rispondere a queste esigenze di verifica. Allora, più dubbi si hanno, a mio giudizio, migliore giornalismo si fa. Normalmente, avere il dubbio non significa poi non scegliere perché, alla fine di una giornata faticosa, complicata, come sa chiunque faccia questo mestiere, il dubbio lo si lascia a casa o quantomeno lo si lascia alla propria interiorità: c’è un approdo giornalistico che è appunto la confezione del prodotto, che contiene il dubbio stesso ma che naturalmente lo supera nel momento in cui si sceglie di tagliare la notizia, di titolarla, di impaginarla. Allora, io dico sempre ai giornalisti con cui lavoro che il dubbio è sovrano, il dubbio è e deve essere la nostra guida, nel senso che ci deve costringere a farci queste domande e a tentare una risposta. Guai quando non lo facciamo, io vedo fare i peggiori errori, nella nostra professione, esattamente quando questo dubbio non c’è stato, quando quella verifica non è stata fatta, quando probabilmente non si è scelto da tutte le angolazioni possibili, anche di una foto, perché magari quella foto, nelle sue varie serie di scatti, ci poteva dare una un angolo di osservazione in più e quindi offrici un pezzettino di realtà in più, sempre poi sottoponendola al lettore che è sovrano nella sua scelta.
Anche qui, io penso che i lettori vadano serviti: e in questa parola, servire, c’è tutta l’umiltà di chi, in qualche modo, prosaicamente, svolge un ministero, che poi significa lavoro di servitù da parte del giornalista che lo offre ai lettori e, quanto più è credibile, tanto più è efficace, ovviamente, e ha più lettori. Un’altra cosa: essendo stato in una scuola prevalentemente letteraria, la mia ambizione non è quella delle folle oceaniche di lettori, perché so che, tra l’altro, con la carta stampata oggi è un miraggio. Se vogliamo, preferisco il metodo manzoniano che è quello dei famosi otto lettori: quelli buoni, quelli che ci credono, quelli che hanno scelto veramente di leggere l’autore in questione. In questo senso, occorre fidelizzare, convincere ma, al tempo stesso, rispettare e lasciare che sia il lettore a farsi l’ultima opinione, non inculcare la sua libertà, non restringere il suo spazio di opinione, dicendogli: ti scodello la pappina che la mattina devi assimilare. O ti intriga o ti solletica.
Il filosofo Hegel definiva il quotidiano la preghiera dell’uomo laico: in questo senso, è un accompagnamento importante, che non può essere naturalmente sostitutivo di altri valori ma può essere un percorso, una strada che ci può consentire, giorno per giorno, di coltivare nuovi dubbi su certezze che avevamo, oppure di rafforzare dei convincimenti, delle convinzioni su dei dubbi che avevamo. Una doppia funzione, mai etica, in un certo senso. Ho trovato bellissima, sfogliando l’ultimo volume di don Luigi Giussani, Ciò che abbiamo di più caro – grazie agli amici che me lo hanno regalato – la frase che Giussani richiama commentando Mounier, quando dice: “Che la verità nasca dalla carne significa che la verità deve determinare un cambiamento nel rapporto” con gli altri. Che cosa intendeva dire Giussani? Effettivamente lui la chiama verità, una verità spirituale che certamente è superiore alla notiziabilità, chiamiamola così, giornalistica. Intendeva che questo tipo di messaggio deve determinare un cambiamento in chi lo recepisce, quindi che il medium è il messaggio. In questo senso andiamo ben oltre: il giornale, la notizia diventano l’occasione per un cambiamento, per un’apertura di sguardo, di osservazione, per un superamento anche intellettuale oppure etico. Ecco, è un piccolo contributo che, a tutti i livelli, dall’ultimo giornale di provincia al più importante giornale internazionale, secondo me possiamo dare. Io mi fermerei qui, poi ci torniamo.

ALBERTO SAVORANA:
Hai parlato di una tensione alla verità che comunque deve animare il lavoro giornalistico, ben sapendo che le certezze che comunicate sono sempre approssimative. Il presidente Napolitano, nel suo intervento al Meeting, ha invitato tutti a parlare il linguaggio della verità, dicendo che il linguaggio della verità non induce al pessimismo, allo scoraggiamento ma ad essere più attenti, critici, propositivi e costruttivi. Per te al GR, a Radio Uno, cosa significa parlare il linguaggio della verità?

ANTONIO PREZIOSI:
Sottoscrivo in pieno le parole del presidente Napolitano: se mi consenti una battuta, direi che la verità è molto più facile, molto più comoda, molto più rasserenante della bugia. Ma quanto è faticoso dire le bugie oggi? E quanto può essere ancora più faticoso dire le bugie per un giornalista, che per mestiere deve raccontare la verità? Quindi, non partire da tesi precostituite, non partire da preconcetti, non partire con l’idea di dimostrare qualcosa che magari non è dimostrabile. La verità – cito un’enciclica di Benedetto XVI – “ha il suo splendore”, lo splendore della verità, appunto. E’ molto più lieve, più facile da raccontare rispetto alla menzogna: quante volte bisogna arrampicarsi sul muro per raccontare una balla ai propri lettori, ai propri ascoltatori, ai propri telespettatori? Così non va, io trovo molto più tranquillo, molto più rasserenante, l’esercizio del racconto della verità, che poi è quello che ci deve appartenere. Virman ha detto una cosa molto bella, ha detto che i giornalisti sono dei raccontatori di verità. Ma prima di essere raccontatori di verità, sono cercatori di verità, quindi occorre che abbiano un metodo di ricerca onesto, professionale, certificato dalla loro stessa professionalità, che è quello della buona fede, quello di voler dimostrare veramente non una tesi preconcetta ma un esercizio concreto e reale di verità. Mi hai chiesto come facciamo a raccontare la verità al Giornale Radio, noi abbiamo una ricetta molto semplice che è costituita da tre ingredienti: chiarezza, completezza e immediatezza.
La chiarezza: noi ci rivogliamo a un pubblico indistinto di ascoltatori. Gli ultimi dati di Audiradio, prima che le rilevazioni fossero sospese, ci avevano detto che Radio Uno contatta quasi 8 milioni di persone al giorno: quindi, 8 milioni di italiani al giorno ascoltano la prima radio italiana. Per questa ragione bisogna essere chiari, parlare un linguaggio facile, intelligibile a tutti. Nel 1959, un grande direttore di Radio Tre, Enzo Forcella, scrisse un saggio che si intitolava Mille e cinquecento lettori, che praticamente metteva l’indice contro il malcostume dell’informazione politica. Diceva che in Italia si faceva informazione politica con un linguaggio da iniziati, destinato a millecinquecento persone: 630 deputati, 315 senatori, una manciata di consiglieri comunali, regionali, provinciali, qualche confindustriale, qualche cardinale, ci metteva dentro Forcella, un pubblico estremamente ristretto. A distanza di oltre 50 anni da quel saggio, oggi ci imbattiamo nello stesso problema, quello di fare un’informazione chiara che non abbia un linguaggio per iniziati, un’informazione che debba essere invece veramente rivolta a tutti, con la stessa onestà e con la stessa chiarezza che è quella di voler far capire quello che diciamo, piuttosto che fare in modo che, attraverso di noi, il soggetto A veicoli un messaggio dedicato al soggetto B.
Secondo ingrediente, la completezza. Io parto da un presupposto molto chiaro e molto semplice, le notizie si danno e non si nascondono, se le nascondiamo noi, le darà qualcun altro. Quindi, i nostri giornali devono essere necessariamente completi, senza che nessuno di noi si preoccupi di dispiacere a questo o a quello, di far piacere a questo o a quell’altro. Terzo ingrediente, l’immediatezza: la notizia non può attendere, non va tenuta in frigorifero, in attesa di capire l’effetto che fa. Quando è certa, quando è sicura, va data, e la radio in questo è uno strumento meraviglioso, perché con un telefono cellulare, in qualunque parte del mondo tu sia, ti dà la possibilità di poter comunicare quello che sta accadendo.
Questi sono i tre ingredienti della ricetta: secondo me sono validi, vincenti. Lo testimonia la grande vitalità che oggi ha la radio. Io mi sono veramente emozionato quando, qualche settimana fa, ho letto il rapporto del CENSIS che ci diceva che tra gli strumenti tecnologicamente più antichi, la radio manifestava una grandissima vitalità, una grandissima vivacità. Per quale ragione? Perché il nostro lavoro ha tolto la polvere alla radio, siamo riusciti a togliere dalla radio, quella con i manopoloni dei nostri nonni, quanto c’era di stantio e abbiamo fatto in modo che la radio, con la sua elasticità, con la sua duttilità, con la sua capacità di arrivare prima sulle notizie, potesse cavalcare veramente la tecnologia. Oggi la radio non la si ascolta soltanto dalla vecchia, cara radiolina, la si ascolta dal web, la si ascolta dai telefoni cellulari, la si ascolta dal satellite, è lo strumento che più di tutti ha una capacità, una forza di penetrazione nuova. Per questo dobbiamo essere ancora più attenti, ancora più responsabili, per non ingannare i nostri radioascoltatori ed essere all’altezza delle aspettative.

VIRMAN CUSENZA:
Io vorrei tornare al concetto di prima, che la verità nasca dalla carne, anche perché questo consente di riportare sulla personalità, sul quotidiano, sul vissuto di ogni giornalista, di qualunque genere si tratti, dalla carta stampata alla televisione alla radio, e di capire quanto poi questa esperienza professionale sia tradotta in un corpo che si sposta, che incontra, che discute, che insomma interagisce con l’ambiente circostante. Anche perché questa professione – non è una novità quella che sto per dire – vive anche un momento complicato, per la semplice ragione che spesso si trova a fare un lavoro mediato da altri mezzi di comunicazione. Che cosa intendo? Prima, quando il monopolio delle informazioni era chiaramente soltanto della carta stampata, i giornali erano fonti e produttori di notizie che verificavano, dall’inizio alla fine, in prima persona. Non c’erano altri mezzi: poi, sono arrivati, ma pian pianino, le agenzie, la radio, la televisione, ecc. In sostanza, chi faceva carta stampata alla fine verificava al proprio interno, aveva una sorta di monopolio della verifica, quindi, dell’attendibilità della notizia stessa.
Oggi è molto diverso, il rischio della carta stampata è di fare quella che io definisco informazione di secondo grado. Intendo che spesso le notizie arrivano dalle agenzie, dai siti, che addirittura già tagliano, nel senso che danno una piega precisa alle notizie e i giornali si trovano ad apprenderle, certe volte, in diretta con i cittadini. Ovviamente, poi i giornali fanno lavoro di approfondimento, di ricostruzione, di verifica, spesso anche di gerarchia dell’importanza delle notizie stesse. Questo comporta il fatto che il giornalista della carta stampata, cioè il giornalista che per definizione dovrebbe approfondire sempre di più ogni notizia, non dovrebbe essere dipendente da altre fonti di informazioni, emularle né, soprattutto, copiarle. Invece, per un certo periodo, almeno, c’è stata una tendenza, anche abbastanza preoccupante nella nostra professione, a riprodurre lo schema delle notizie, addirittura la gerarchia, in certi casi l’approfondimento della notizia stessa che ci arrivava da altre fonti di informazione. E questo ovviamente ha generato una crisi del settore, in particolare della carta stampata quotidiana, che è quella che i giornali oggi stanno vivendo con un calo della diffusione. E un’espansione, invece, di altri mezzi: i siti web, la versione elettronica del giornale sull’iPad, ecc.
Tutto questo per dire, a proposito della verità che nasce dalla carne, che senza un approccio diretto con la notizia, senza uno scontro, un incontro-scontro con i fatti, probabilmente la nostra professione si andrebbe impoverendo sempre di più, trasformandosi in quel lavoro da laboratorio che io chiamavo informazione di secondo grado: e invece è un’emulazione, una riproduzione della notizia filtrata da altre fonti, poi sulla carta stampata. Quindi, perché è importante ritornare con i piedi per terra a raccontare in presa diretta le cose, con l’umiltà dei cronisti? Esattamente per questo, che innanzitutto si garantisce al lettore un servizio molto più onesto, cioè un servizio che è il frutto dell’esperienza diretta del giornalista. Diciamoci la verità, oggi è sempre più raro che accada questo, perché la velocità delle informazioni è tale che è impossibile, in certi casi, far coprire a tutti i giornalisti in presa diretta un servizio. Che cosa comporta questo? Che il valore aggiunto del cronista in certi casi non ci può essere perché l’informazione è mediata. Lo sa benissimo Preziosi che, come tutti i giornali, o Radio o Tele che siano, alla fine deve fare i conti con delle scelte. Quindi i giornali, i telegiornali, i radiogiornali, in certi casi possono mandare l’inviato sul campo raccontando i fatti in prima persona, in altri casi invece assumono le informazioni da altre fonti di informazione.
Per esempio, per quanto riguarda gli Esteri, non so se vi è chiaro che la presenza di inviati sul teatro di guerra libico è ridottissima. Noi abbiamo un’informazione che in buona parte arriva dalle agenzie di stampa, che comunque sono colleghi sul campo, da mezzi di comunicazione spesso anche in lingua straniera che vengono tradotti, siti di informazione: però, il famoso inviato di informazione alla Montanelli, o più recentemente, per capirci, alla Ettore Mo, sta sparendo. È un dato della nostra professione con cui, purtroppo, bisogna fare i conti. Non significa che non ci siano più cronisti a raccontare le cose ma il rischio da evitare, la deriva da evitare, è di avere un élite, un gruppo molto ristretto che fa informazione di primo grado. Quindi, a proposito dei dubbi che vi dicevo, anche qui il dubbio può crescere nel momento in cui c’è un impatto diretto con l’avvenimento, con il fatto, la notizia, con l’intervista, con i propri occhi, soprattutto. Altrimenti si prende a scatola chiusa. Una volta c’era un famoso slogan pubblicitario che diceva: “A scatola chiusa compro solo Arrigoni”. Ecco, in questo caso ci sono molte informazioni “Arrigoni” che purtroppo siamo costretti a prendere e soprattutto a fornire ai nostri fruitori, che sono i lettori o gli ascoltatori o i telespettatori: questa è la cosa da evitare accuratamente.
Come? Il mercato seleziona, è evidente che oggi ciascuno di noi vuole una gradualità diversa di questa verità giornalistica. C’è chi vuole una notizia molto approfondita e parte addirittura dall’approfondimento, c’è chi si accontenta del cosiddetto flash, cioè della sua scarnificazione massima, della sua essenzialità, cioè del fatto nudo e crudo, e c’è chi invece lo vuole appunto declinato e argomentato in varie sfaccettature. Sono ovviamente tutte offerte di quella che abbiamo chiamato verità giornalistica: ma secondo me mantengono la propria forza, il motivo di esistere, la gioia di esistere soltanto se sono frutto della carne diretta del giornalista.

ALBERTO SAVORANA:
Tu hai parlato di chiarezza, completezza, immediatezza nell’informare, Cusenza ha fatto riferimento all’incontro-scontro con i fatti: entrambi ci fate capire che nel vostro mestiere, e in particolare in una Direzione, c’è una virtù che va praticata, la virtù dell’attenzione alla realtà, che sembra una cosa molto semplice E quasi scontata, eppure oggi appare una delle virtù più difficili, più rare da trovare. Il grande scienziato Alexis Carrell scrisse che “molta osservazione e poco ragionamento portano alla verità, molto ragionamento e poca osservazione conducono all’errore”. Mi piacerebbe che ci raccontaste un qualche episodio della vostra attività professionale, della vostra responsabilità di conduzione, in cui l’osservazione, la registrazione di qualche dato della realtà vi ha costretti, vi ha condotti a cambiare, a correggere opinioni, giudizi su fatti e persone e quindi, di conseguenza, a informare su fatti, persone e circostanze in modo diverso da come la scaletta o il timone del giornale avesse ipotizzato o previsto.

ANTONIO PREZIOSI:
Beh, questa è una cosa che accade praticamente tutti i giorni: ci confrontiamo tutti i giorni con la necessità di verificare se l’ordine del giorno, chiamiamolo così, è quello giusto o ci stanno propinando qualcosa di sbagliato. Ho molto apprezzato questa parte dell’intervento di Cusenza, perché ha aperto un vaso di Pandora dedicato a queste tematiche che tu ci metti in evidenza, ma che porta a parlare di tematiche importanti come la crisi della figura dell’inviato speciale. Oggi, i giornali, per questioni di tipo economico, di sicurezza, eccetera, tendono a risparmiare sull’invio di persone sul posto dove i fatti avvengono. Se c’è una cosa di cui sono certo, in venti anni di carriera giornalistica, è che le cose si vedono e si raccontano bene soltanto se si è testimoni. Ci si può e ci si deve fidare delle fonti intermedie, le agenzie di informazione svolgono un lavoro meritorio e di grandissimo valore: ma i tuoi occhi sono sicuramente quelli che ti danno maggiore responsabilità. Quando mi capita, nel tempo libero, di parlare ai miei studenti dell’università, ricordo sempre l’episodio che avvenne il 25 dicembre del 1989, a Timisoara, in Romania quando, nel bel mezzo della rivoluzione, della caduta del Patto di Varsavia, si ricordò con dovizia di particolari una strage che era stata consumata, con 15.000 morti, nella città rumena di Timisoara. Forse non tutti sanno ancora oggi, a oltre vent’anni di distanza, che quella strage non c’è mai stata; e che a scoprire che non c’era stata ma che c’era stata invece una grande manipolazione dell’informazione, furono due freelance italiani che, a loro spese e a loro rischio e pericolo, si erano recati sul posto a guardare con i loro occhi ciò che la propaganda della rivoluzione anti Ceausescu aveva in quel momento ordito. La figura quindi dell’inviato speciale: ieri sera ho passato gran parte della mia serata, sottraendola alle vacanze con i miei bambini, a organizzare la trasferta dei miei inviati in Libia, perché è necessario avere persone che vadano sul posto e che raccontino con la loro esperienza, con i loro occhi, quello che sta avvenendo là. E devo dire che mi ha commosso mia figlia Agnese che, quando mi sono rivolto a Carmela Giglio, la mia inviata che oggi è partita per la Libia, ha detto: “Mamma mia, sembrava che stessi parlando con noi”. Io avevo detto alla mia giornalista: “Per favore, fai attenzione, abbi cura di te, non rischiare, cerca di essere attenta”, perché capisco la passione che muove questa professione, che è proprio essere testimoni. Spesso ce lo dimentichiamo, che non siamo protagonisti ma testimoni dei fatti, che non siamo coloro i quali si mettono al centro del mondo ma quelli che guardano al mondo da un angolo, e lo raccontano con onestà.
Ma per raccontare il mondo da un angolo e con onestà, bisogna esserci, per questa ragione preferisco sempre che ci sia tanta gente, tanti inviati, tante persone, che vadano nei posti a raccontare i fatti non soltanto di guerra o di politica estera ma anche della politica, ad esempio. Tante volte mi è capitato di leggere titoli di giornali con virgolettati di politici, di eminenti istituzioni, che non erano quelli che poi avevamo sentito dal vivo con le nostre orecchie o che erano semplicemente una lettura o una rilettura di parte di quegli interventi. Mi fido dei miei inviati, mi fido di me stesso, mi fido di ciò che vedo e che con onestà racconto ai miei lettori, ai miei ascoltatori.

VIRMAN CUSENZA:
Volevo fare una premessa: a Napoli c’è una fucina infinita di occasioni per correggere quello che stiamo facendo…

ANTONIO PREZIOSI:
Come la storia del fantasma al museo archeologico? Non so se l’avete letto, pare che ci siano i fantasmi lì, il direttore de Il Mattino ci dirà se è vero…

VIRMAN CUSENZA:
Adesso ne parliamo, è solo l’ultimo caso. E’ una città in certi casi generosissima ma certamente anche pressappochista: quando arriva, la notizia arriva sempre un po’ sgangherata, a volte non precisamente rispondente a come poi alla fine verrà accertata, magari enfatizzata o invece sminuita. Quindi, il lavoro che si fa esattamente è cercare di darle la collocazione giusta, magari partendo da una fiammata iniziale che dia entusiasmo per arrivare ad una dimensione finale che ce la fa, non dico derubricare, ma certamente mettere in una collocazione molto più modesta e meno enfatica. Per raccontare una esperienza personale, avendo deciso che la formula del Mattino è la formula cosiddetta global, cioè globale per quanto riguarda l’informazione nazionale e internazionale, con l’evidenza dei titoli di giornata più importanti, ma ovviamente molto attenta al territorio, che è il nostro sale e la nostra ricchezza, da lì partiamo per raccontare le storie e le verità napoletane, le campane del Sud. La vocazione del Mattino è quella di essere il giornale del Mezzogiorno. Spesso succede, in particolare con le notizie giudiziarie – perché in questi giorni, mesi, anni, negli ultimi due anni in particolare, le inchieste sono tornate in auge con i famosi verbali, le indiscrezioni, ecc. – che i verbali vengano preceduti da informazioni magari succinte e anche un po’ tagliate drasticamente, che danno titoli magari eclatanti o particolarmente attraenti.
Poi, ovviamente, andando a guardare bene le carte, leggendo con attenzione e con rispetto della persona – sempre per tornare al principio di cui sopra – ti accorgi che invece che quel titolo strillato non poteva essere fatto, che magari la tangente non se l’era proprio intascata, che l’amante di un certo sospettato in realtà poi non poteva essere rivelata perché era minorenne, insomma, una serie di aspetti che ti costringono giustamente a ridimensionare la notizia stessa. Succede però anche il contrario, che a volte l’assuefazione a certi filoni di notizia ci porti di primo acchito, come prima reazione, a dire: “Ah sì, è la solita storia”. Anche noi giornalisti, anzi, forse soprattutto noi giornalisti, abbiamo il problema di non stupirci, di non indignarci, di non balzare sulla sedia davanti a una notizia perché viene ritenuta seriale, noiosa, perché appartiene a un filone già arato nei giorni, nella settimana, addirittura nei mesi precedenti. In questo caso, la difficoltà è riuscire a guardare la notizia in tralice, mettersi appunto nella giusta angolazione e vedere che c’era invece quel risvolto che può diventare una chiave importante e fare assumere alla notizia stessa una evidenza che altrimenti non avrebbe.
Succede spesso nei giornali che una notizia non compresa bene alle undici del mattino sia capita meglio alle tre e mezza, o addirittura in limine mortis, come dicevano i latini, all’ultimo momento, a mezz’ora dalla chiusura della prima pagina, perché ci si è resi conto che effettivamente si stava commettendo una forzatura e quindi si cambia la prima pagina, cambia il pezzo, cambia la collocazione, c’è il rischio di chiudere tardi. Oppure, invece, no, mettiamola con più evidenza, con maggior forza, e soprattutto blindiamola meglio, cioè evitiamo che ci siano spifferi anche agli altri giornali e che quindi, automaticamente, si possa vederla il giorno dopo in risalto in edicola.
Preziosi citava prima – bontà sua – l’ultima storia che abbiamo raccontato sul Mattino, questa dei fantasmi al Museo Nazionale: fantasmi è la parola che è stata usata a beneficio della comprensione immediata, ma non so se poi tali si possano chiamare. In poche parole, mentre facevamo una delle nostre inchieste sui beni culturali di Napoli, un cronista, Paolo Barbuto – mi piace ricordarlo perché è veramente quello che io considero l’Indiana Jones della cronaca cittadina, e a Napoli ci sono molte occasioni – ha scoperto che effettivamente, in una sala in fase di ristrutturazione al Museo Nazionale Archeologico – che accoglie molti tesori, in particolare di Pompei, greco-romani, di ogni genere -, gli operai si erano lamentati perché c’erano continui crolli, spostamenti di oggetti di cui non si capiva bene la natura. E’ intervenuto il Ministero, ha mandato un funzionario, un architetto che, sul posto, ha verificato effettivamente la stranezza di questi avvenimenti di cui non si riusciva a capire la ragione. Sono state fatte molte fotografie, alcune di queste contemplavano anche il viso, i tratti degli operai che lavoravano lì e da una di queste emergeva la sagoma di una bambina. Detto sinceramente, ricordava, sin dall’inizio, un fantasmino come quello dei film che conoscete. Ma la cosa più divertente è che questo tecnico, a quel punto, ha chiamato il Ministero perché venissero inviati i ghostbuster, cioè gli acchiappafantasmi.
E’ questo che mi ha fatto balzare sulla sedia. Ho detto: a questo punto la notizia è da prima pagina, è talmente curiosa che mi sono battuto strenuamente per metterla lòì, di taglio nonostante quel giorno ci fosse l’attacco dei ribelli a Tripoli, quindi un notizione di giornata. Ho detto: in nome del global, questa notizia la difenderò con i denti, tutto il resto può crollare. E quindi l’abbiamo messa, con la goliardia di raccontare una storia molto strana, per certi versi incredibile, testimoniata dai protagonisti che abbiamo sentito uno per uno, e con lo scetticismo del caso per quanto riguardava questa fotografia. L’abbiamo sottoposta anche ad un esperto, come era giusto, e lui ha detto che in teoria poteva essere vera però anche falsa, come molte cose napoletane, potremmo dire anche italiane.
Oggi vedo che infuria la polemica, non sulla manovra, non sui tagli di Tremonti bensì sul fatto se questa possa essere un applicazione dell’iPad trasferita sulla foto: il dibattito planetario avviene attorno al fantasmino della bambina. Per dire, insomma, come le notizie vengono.

ANTONIO PREZIOSI:
Mi hai fatto ricordare che non ho mandato un inviato a Napoli per la storia del fantasma. Paolo Cremonesi, domani mi porti una intervista al fantasma, assolutamente, se no non rientri o rientri a tue spese!

ALBERTO SAVORANA:
Pare poi che i ghostbuster non siano andati perché li ha tagliati Tremonti con la manovra…Quanto il senso dell’interlocutore – i tuoi ascoltatori, i tuoi lettori – è presente nel momento in cui pensate le notizie e decidete di porgerle in un modo piuttosto che in un altro? Perché, evidentemente, lo stesso fatto può essere propinato in un modo che aiuti una chiarezza, una completezza, una conoscenza o in un modo che aumenti la confusione, la rissosità, la paura delle persone. Quanto l’interlocutore, aldilà del problema dell’ascolto o dell’acquisto del quotidiano, è presente nella fattura ordinaria, ora per ora, giorno per giorno, dei vostri giornali?

ANTONIO PREZIOSI:
La risposta è già nella domanda, ti ricordo che noi facciamo servizio pubblico e che per noi l’editore di riferimento è l’ascoltatore. Quindi, tutto quello che facciamo è orientato a dare la possibilità all’ascoltatore di farsi una propria autonoma, indipendente e completa idea. Noi non dobbiamo orientare, non dobbiamo fare capire a nessuno per chi votiamo o per chi non votiamo: nello spirito del servizio pubblico, cerchiamo semplicemente di informare. Stavo ragionando, sentendo Cusenza prima, anche su un altro aspetto interessante. Lui parlava del rapporto tra carta stampata e nuovi media, la velocità delle notizie, ecc. Una domanda che mi sento rivolgere spesso è se i nuovi media siano destinati a sostituire i vecchi. Credo che Virman, direttore di carta stampata, se la senta ripetere più di me, se cioè verrà decretata, ad esempio, la morte della carta stampata rispetto a nuovi strumenti tecnologici come Internet, come il web, i giornali online, ecc. Io credo che non bisogna essere dei fini e raffinati massmediologi per constatare che nella storia della comunicazione, nella storia della informazione, nessun strumento di comunicazione nuovo ha mai ucciso quello precedente.
Mi ricordo una canzone degli anni ’80 che suonava più o meno: “Video killed the Radio Star”, il video ha ucciso la star della radio. I fatti di questi giorni ci dimostrano che non è così. Oggi viene vaticinata una fine imminente del giornale di carta stampata, e anche in questo io sono assolutamente convinto del contrario, che la carta stampata manterrà, se saprà ritrovare un ruolo nei prossimi anni, nei prossimi decenni, quella dose di imprevedibilità e di forza che ci spinge al mattino a comprare il giornale in edicola. Quindi, non ci sarà una soppressione del nuovo rispetto al vecchio. Con una riflessione in più, che non sempre ciò che noi troviamo sul web o su Internet ci dà proprio quella certezza di cui abbiamo parlato fin dall’inizio del nostro incontro. Io non sempre sono certo – se il sito a cui mi rivolgo non è a sua volta certificato, se non si tratta del Corriere.it, de ilMattino.it o del mio sito gr.rai.it, che ciò che trovo da leggere sia effettivamente una cosa di cui debba essere certo. Per cui, l’elemento della professionalità, l’elemento della valutazione giornalistica dei fatti, l’esigenza di fare ricorso comunque a testate certificate, di grande affidabilità e di grande credibilità, rimarrà negli anni.
Di questo ne sono assolutamente sicuro, il nuovo media non cancella il vecchio. Semmai, prima dobbiamo inventarci un patto tra vecchi media e nuovi media, per collaborare tutti insieme a fare in modo che non ci sia un contrabbando di verità ma che ci sia invece un qualcosa che ci dia, per così dire, la certezza che ciò che troviamo nei vari strumenti di comunicazione sia assolutamente plausibile. Essere molto informati non significa essere meglio informati, perché richiede uno sforzo – da parte del lettore, dell’ascoltatore, del telespettatore, del radioascoltatore – di avvedutezza, di consapevolezza, di discernimento, per capire che non tutto ciò che viene propinato è Vangelo, certezza. Cito Dan Bradley, mitico editor del Washington Post, il quale diceva che la verità è un processo e bisogna arrivarci tutti insieme, lettori e giornalisti. In questo caso, giornalisti della carta stampata, della radio, della televisione, del web, con il contributo essenziale di ciascuno di noi, di ciascuno di voi. Torniamo alla centralità dell’uomo, torniamo alla centralità dell’essere umano. Quando Emilio Rossi diceva: “La famiglia, l’avete avvertita?”, ci poneva di fronte a questo grande problema, il fatto che cioè nessuno debba sentirsi danneggiato se non dalla certezza dell’informazione, nessuno debba essere posto, come essere umano, in secondo luogo rispetto a quella che è la nostra attività professionale.

VIRMAN CUSENZA:
Mi volevo riagganciare a questa seconda parte del discorso di Preziosi che riguarda la trasformazione e quindi il destino dei quotidiani di carta stampata. Effettivamente, questa domanda: che fine faremo?, la facciamo tutti i giorni, senza sapere esattamente quale sarà la risposta finale, altrimenti sarei presuntuoso o farei un altro mestiere, quello di vate. Penso che non sarà una brutta fine, ritengo che si vada incontro ad una trasformazione di questo mestiere, in particolare per chi lo fa su carta stampata, esattamente come si è passati dai cavalli al motore a scoppio: i cavalli sono stati trasferiti nei motori a scoppio, si chiamano cavalli pure quelli, naturalmente sono meccanici, però alla fine l’uomo una soluzione l’ha trovata. Quindi, siccome c’è una insopprimibile esigenza di informazione, soprattutto di informazione approfondita, oltre a quella flash di cui parlavamo prima – sono assolutamente ottimista. Dove non sono ottimista, è invece sul passaggio niente affatto indolore che ci attende. Che cosa intendo dire? Il passaggio dalla carta stampata, così come la conosciamo oggi, ai giornali quotidiani del futuro, sarà assolutamente sanguinoso. Sanguinoso lo è già, dal punto di vista dei tagli, delle ristrutturazioni, della trasformazione del sistema industriale che riguarda un quotidiano.
Ma voi dovete pensare a cosa significa la parola transizione in un processo industriale. E’ un processo molto complicato, soprattutto perché comporta costi spaventosi. Vi faccio solo un esempio. Ormai, da più di un anno, c’è la versione cosiddetta iPad, cioè elettronica, dei quotidiani. Sta avendo anche un discreto successo, per esempio sul Mattino l’abbiamo messa nel mese di dicembre, poi a pagamento dal mese di luglio, e sta avendo un discreto successo. Ormai la gente compra il giornale in versione elettronica ancora più che nella versione di carta stampata, non tanto nei numeri ma a seconda della fruibilità che vuole avere. Non deve scendere di casa alle 6 del mattino, lo può leggere comodamente – per chi ha questi mezzi, naturalmente – solo sull’iPad. E’ chiaro che quello sarà l’approdo. Però, nel frattempo, che cosa succederà? Che i giornali oggi stampano 200mila copie di carta, benissimo. Nel frattempo, ci sarà un tot che va nella versione elettronica, appunto sull’iPad. Mano a mano che passa il tempo, questo tot aumenterà sempre di più: 200mila copie stampate su carta diventeranno 160, e 40: insomma, questo travaso sarà progressivo.
Ma nel frattempo, per stampare il giornale con l’inchiostro, naturalmente si sosterranno dei costi elevatissimi, perché prima il costo a copia era x, domani sarà x+y, perché ovviamente si produrranno allo stesso prezzo meno copie. Il problema è intercettare questo cambiamento, preparare nei costi, nello sforzo industriale, questo tipo di trasformazione e arrivare all’approdo finale che sarà quello di un giornale più elitario di carta stampata e uno più popolare elettronico, senza pensare che il giornale sarà lo stesso. Io mi rendo conto che vi sto costringendo ad una galoppata nel futuro, abbastanza complicata per chi non è del mestiere: provo a spiegarmi meglio.
Oggi abbiamo la versione che voi leggete la mattina in edicola, e anche quella elettronica, che è il frutto di una elaborazione, di un aggiornamento. La prima notizia è x, la seconda è y, la terza è z. I giornali del futuro non saranno così, saranno più simili a un sito approfondito. Che cosa significa? Che tutti gli sforzi che oggi si fanno per aggiornare la fogliazione, la gerarchia delle notizie, la completezza, verranno fatte in tempo reale e il lettore potrà accedere elettronicamente a queste trasformazioni e a questi aggiornamenti. Avrà alle 5 del pomeriggio il giornale che fino a quel momento la redazione è in grado di offrire, con tutti gli aggiornamenti del caso. Quindi, un giornale che è un work in progress, esattamente come lo è un sito, con la differenza che però, rispetto al sito, ha lettori esclusivi, che cioè hanno pagato per avere questo servizio. Per di più, lo sforzo sarà di fornire solo notizie che hanno avuto un approfondimento e non notizie on the surface, come dicono gli americani, di superficie, le instant news, quelle appena sfornate dalle agenzie o dai siti.
Tutto questo, come capite, è complicato: sarà lento, sarà sanguinoso, nel senso che costerà anche posti di lavoro, parliamoci chiaro. Perché è esattamente quello che è successo nelle tipografie dei giornali, che si sono spopolate perché i giornalisti hanno preso il posto dei tipografi, facendo al computer dei lavori che prima facevano i tipografi. Allo stesso modo, evidentemente, sul computer si produrrà un giornale e le rotative saranno sempre più ridotte a stampare poche copie residue. Ripeto, tutto questo non ci deve spaventare. Morirà, questo mestiere? Secondo me, no, da questo punto di vista non posso che essere ottimista. Cambierà? Benissimo, vorrà dire che ci sarà un numero più ristretto di giornalisti, oppure più freelance, più volontari, anche in questo mestiere, il che non guasterebbe, quanto meno per il pathos, la carica etica che ci si deve mettere. Perché un altro aspetto – e concludo perché non voglio monopolizzare il dibattito – che secondo me è importante, è che la carica etica, la carica di passione che in certi casi porta alla politicizzazione (per carità, è legittima pure quella), si è un po’ affievolita. Secondo me deriva dalla distanza fisica tra l’oggetto e chi lo racconta: più lontano è l’oggetto, rispetto appunto a chi lo racconta, più si affievolisce l’impegno, la vocazione, l’eticità del giornalista. Quindi, spero che riusciremo a tenere sempre più stretto l’oggetto del nostro racconto. Vi ringrazio.

ALBERTO SAVORANA:
Prima di chiudere vorrei porvi una breve domanda e ricevere altrettanti brevi risposte. Vorrei proporvi una descrizione molto semplice e sommaria che anni fa don Giussani diede del vostro mestiere, lui che è stato il grande comunicatore di un’esperienza che ha contagiato tanti di noi, anche all’origine del Meeting. Disse del vostro mestiere: “Lo scopo specifico, la missione, per un giornalista, deve essere quella di aprire, tra parola e parola, o dentro le sillabe della stessa parola, il più possibile uno spazio, come quando si aprono le finestre, per un’aria vera, per un senso vero, creare lo spazio che renda più riconoscibile e accettabile il senso vero. Il giornalista crea spazi per una registrazione più vera del presente”. Vi vorrei chiedere brevemente che cosa suscita in voi come reazione questo brano.

ANTONIO PREZIOSI:
Non si possono non condividere queste parole di don Giussani. Aiutare a registrare il presente – mi sembra quasi un’espressione radiofonica – per fare in modo che chi ascolta la radio possa avere l’autonomia, la capacità di farsi una propria idea. E’ un po’ quello che ho detto qualche minuto fa: noi non dobbiamo orientare, come servizio pubblico, o dire alla gente cosa deve fare, dobbiamo aiutare la gente ad essere libera, a maturare da sola un proprio convincimento e una propria opinione. Credo che queste parole di don Giussani vadano esattamente in questa direzione: la verità è uno strumento attraverso il quale l’uomo raggiunge la libertà. E il giornalista – cito Cusenza -, in quanto ricercatore di verità e poi raccontatore di verità, è persona che deve aiutare chi legge, chi ascolta, chi guarda ad essere più libero.

VIRMAN CUSENZA:
La frase mi sembra bellissima – devo confessare che non la conoscevo – per la semplice ragione che evoca esattamente quei punti di domanda e quei dubbi di cui parlavo prima. Questo ci chiede Giussani, in sostanza: di aprire, sì, con belle parole, per insinuare dei dubbi o per farci delle domande. E tra una parola e l’altra, cioè tra un concetto e l’altro, tra un fatto e l’altro, di riflettere se quello che stiamo dicendo è esattamente quello che abbiamo inteso dire o abbiamo recepito, oppure no. Quindi, un invito che non è relativistico, un invito a un’attenzione interiore, a un’apertura dell’anima, oltre che delle orecchie, ai fatti che si raccontano, che si osservano, di cui si vuole dare anche un’interpretazione. Perché poi, così come non esiste l’oggettività del giornalista, perché parliamo davvero di una chimera, allo stesso modo però esiste una interpretazione del giornalista, certa ed evidente, perché ciascuno di noi racconta le cose per come le vede, siamo diversissimi e questo è il bene, la ricchezza del nostro mestiere, che ogni tanto qualcuno ha perso per strada, che è bene che ci teniamo stretto. Giussani ci richiama a questa carica interiore che significa non andare mai a dormire con la sicurezza di avere detto o fatto tutte le cose giuste. Io spero ogni giorno di potermi alzare dicendo: forse, quello, lo potevo fare meglio. E’ sicuro che la notizia la potevo dare meglio, che potevo essere più preciso, più completo, potevo spiegarla meglio ai nostri lettori, che forse non ho capito bene la relazione che aveva con quell’altra notizia, che insieme mi avrebbero permesso di aprire una finestra ai lettori. Davvero, un invito al dubbio, un dubbio anche religioso, per chi crede, un faro di cui tenere ben conto.

ALBERTO SAVORANA:
Io vi ringrazio per la sincerità della vostra testimonianza. Quello che sento di augurare a voi, è di essere sempre più, per noi lettori e radioascoltatori, testimoni credibili, così che attraverso di voi possiamo fare il nostro cammino, il nostro percorso verso la conoscenza, perché – come dice il titolo del Meeting – l’esistenza, la vita quotidiana, possa diventare sempre di più un’immensa certezza. Perché senza certezza saremmo preda della paura: e voi, a questo riguardo, avete una responsabilità enorme. Potete aiutarci a uscire dalla paura, con la credibilità della vostra testimonianza, perché di testimonianza si tratta, oppure, potete cedere come tutti, a questo o a quell’interesse, che è sempre qualcosa di meno della tensione alla verità, perché noi amiamo conoscere e conoscere per essere liberi. Grazie del vostro contributo e buona serata a tutti.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

23 Agosto 2011

Ora

19:00

Edizione

2011

Luogo

Sala C1
Categoria
Incontri