INVITO ALLA LETTURA

Giuseppe Gemmani. Una fede invincibile, una creatività operosa.
Presentazione del libro di Valerio Lessi, Giornalista e Scrittore (Ed. S. Paolo). Partecipano: l’Autore; Giovanni Gemmani, Presidente SCM Group; Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione per la Sussidiarietà.

 

MODERATORE:
Buona sera a tutti! Mi dicono che possiamo cominciare e ringrazio tutti i presenti per essere qui con noi questa sera. Qui sul palco a parlare di questo libro sono con me Giovanni Gemmani, figlio di Giuseppe, in questo momento presidente del SCM Group, l’azienda fondata dal padre, e Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, che non ha bisogno comunque di presentazioni. Poiché ha degli impegni e ci deve lasciare, Vittadini comincia ad esporre le riflessioni che gli ha suscitato la lettura di questo libro.

GIORGIO VITTADINI:
Io mi scuso perché poi, per i vari impegni del Meeting, dovrò allontanarmi, ma sono molto contento di poter presentare questo libro e di esser qui, perché diciamo che prima di questo libro c’è la conoscenza della famiglia Gemmani, cominciata dai figli, e con qualche possibilità di conoscenza diretta di Giuseppe, per esempio qui al Meeting e in altri incontri a Rimini, che tra l’altro sono documentati dalle foto del libro. Vediamo qua tra le varie foto don Giancarlo da giovane, Formigoni da giovane, il mio professore in università Marco Martini. Sono profondamente d’accordo con le prime parole della prefazione, le parole in cui il Vescovo dice: “il cuore del Vescovo arde mentre legge queste pagine che descrivono la pagina di Giuseppe Gemmani, la persona di Giuseppe Gemmani, maturata in una famiglia unita nel grembo della comunità cristiana. E’ il quadro suggestivo che risalta dalla vita di un cristiano doc. e che mi fa piacere presentare ai nostri cari giovani riminesi” e io aggiungerei non solo riminesi, perché la storia di quest’uomo, di quest’azienda che per fortuna continua, è la storia di ciò che è più importante nella storia dell’Italia, delle radici a cui io mi sento di appartenere, perché, come cercherò di descrivere in queste poche parole, è la storia di chi è protagonista, dell’Italia protagonista.
Dicevo prima a dei giovani polacchi, che sono qua al Meeting, che per descrivere l’Italia, per descrivere ciò che di buono c’è in Italia, ciò che resiste alla crisi, non possiamo che parlare di persone che hanno vissuto a servizio della famiglia, a servizio dell’azienda, della comunità civile ed ecclesiale. A differenza di altri paesi, la forza del nostro paese è di essere un paese non solo a economia diffusa, ma a sviluppo diffuso, fatto di persone; non una multinazionale, non una grande realtà cittadina, ma tante persone che sono state protagoniste e che fanno dell’Italia un posto dove ci sono 100 campanili, dove ci sono tante aziende capaci di rinnovarsi, dove ci sono persone, famiglie che hanno generato e generano sviluppo. Allora, innanzitutto la vita di Giuseppe ci dice qual è la nostra risorsa. È una risorsa che non sta in un punto, ma una risorsa in tanti punti che si rinnovano, in cui il cuore di questi punti, ancora prima della famiglia, è, per dire qualcosa che abbiamo detto di questo Meeting, qualcuno che prende sul serio il proprio desiderio, capace di vedere nella realtà qualcosa che risponde a questo desiderio. Questo è un po’ il primo filo rosso del libro.
A pagina 52, quando un amico dice di lui: “Abbiamo imparato a prendere la vita sul serio!” e quando lui giudica, a pagina 57, il fatto che tanti cristiani sono diventati tiepidi, dice: “Si sono dimenticati di essere uomini!”. Questo è proprio il punto di partenza del Meeting, della nostra vita: l’essere uomini. E all’essere uomini il cristianesimo non si oppone, come si pensa oggi. Ricordo, a chi era presente, l’omelia del nostro Vescovo, domenica, quando parlava di un cristianesimo non ridotto a un insegnamento etico, ma consistente in una educazione cristiana che risponde a questo desiderio. Io oserei dire, leggendo il libro, la prima parte del libro, che la vicinanza con don Oreste Benzi, che appare con don Giancarlo in una foto del libro, e del Beato Marvelli, sono i punti di partenza. Ci si introduce al cristianesimo perché si vive l’umano, ma qualcuno deve testimoniarcelo, non si arriva da soli. Questa la cosa interessante: non basta una educazione che si rifaccia ai valori del passato, a quello che ci è stato dato, come certe volte capita, specie adesso che siamo in un momento di crisi. Invece lui dice che la tradizione che ha avuto non basta, perché la tradizione che ci ha preparato moralmente non ha messo in noi idee sociali e politiche che non fossero norme morali. Giuseppe dice: non basta la morale, ci vuole qualcosa che viva oggi. E lui parla di questo vivere oggi in modo non ambiguo, non semplicemente di una dimensione comunitaria, anche noi certe volte parliamo della dimensione comunitaria, ma se fosse tutto lì, non basterebbe. Lui parla della dimensione sacramentale della vita cristiana. La vita cristiana risponde a questo desiderio dell’umano perché la sua radice, anche la radice della compagnia che vediamo qua, è una radice sacramentale, è una presenza che va recuperata. Dice che occorrerà rivalutare la dottrina del Corpo Mistico di Cristo e tutta la spiritualità dei primi secoli che spingeva i primi cristiani a una vita associata. Questo è un imprenditore, è un imprenditore che parla del Corpo Mistico. E’ normale che un teologo parli del Corpo Mistico, ma se un imprenditore parla di questo ci dice che la forza del protagonismo è una forza in cui, se la prima spinta è la domanda umana, è una presenza nella realtà che risponde a questa domanda umana, che è qualcosa di più del segno che è la comunità cristiana, è il significato di questo segno. E questo secondo me è molto importante, perché di solito si divide sempre, anche nella vita della Chiesa, sbagliando, fra i contemplativi e gli operativi. Invece io, per quel poco che ho letto e che ho visto, ho scoperto che molti dei grandi santi sociali, da don Bosco a Madre Cabrini, a San Vincenzo de’ Paoli, a San Camillo, sono stati dei grandi mistici, delle persone che sostenevano la loro forza operativa in una vita di fede personale. Troppe cose, troppe difficoltà, ci deve essere un momento di silenzio, un momento di profondità, un momento di solitudine. Guardate che anche don Giussani diceva queste cose, quando parlava in Tracce dell’esperienza cristiana di quella solitudine della persona che è di fronte al Mistero. Se non c’è questo, la famiglia, l’azienda, la realtà sociale non regge, e neanche il Meeting regge. Questa quindi è la prima dimensione che voglio sottolineare di questo libro, questa necessità di un Tu, di un Tu per Tu con il Mistero, quella dimensione in cui l’uomo acquista la sua verticalità e quindi per questo può affrontare l’orizzontalità, può essere in grado di occuparsi di imprese, di bilanci, di lavoro, di vita politica, di vita economica. Questo mi ha colpito, perché questo è il segno che qualcuno rimane, perché sennò in tanti ci si butta nell’impegno sociale o nell’impegno imprenditoriale, ma poi ci si perde. La seconda cosa che voglio sottolineare, dopo questo nesso tra il profondo dell’umano di questo uomo e la vita cristiana, è che quell’idea che c’è nel libro di Giussani che viene presentato al Meeting quest’anno, c’era in lui tanti anni prima, nel ’48. Giuseppe infatti dice: “Credete forse che basti avere in mano le leve della politica, credete che la cosa sia risolta, che il male sia eliminato? Il 18 aprile – dice – non serve a nulla, il male sta più a fondo. Il nostro compito è di ristabilire Regno di Cristo in quel deserto che è il nostro ambiente, dove ogni atto è un atto di coraggio. Senza di Lui non faremo nulla”.
Capite che, dopo una vittoria elettorale, in quanti si può essere presi dall’idea che tutto è a posto: dominiamo, abbiamo in mano lo stato, abbiamo in mano l’economia, quindi il regno cristiano è venuto; invece un uomo lungimirante sa che le cose non stanno così. Un uomo lungimirante come Giussani, che solo 6 anni dopo, al Berchet, nel ’54, quando sembra che la fede sia trionfante, dice: c’è una crisi. Questi uomini, in punti diversi, Giussani da una parte, lui dall’altra essendo imprenditore, capiscono che il problema non è semplicemente quello che si vede, perché la crisi, paradossalmente, scoppia quando tutto va bene, è lì che si vede.
Pensate a una cosa che ci disse l’allora solo Vescovo, oggi Cardinal Martin, Primate di Dublino, di un’Irlanda che quando ha raggiunto il progresso ha smesso di andare in chiesa. Ci parlava dell’Irlanda in quel modo, sentendo i segni di una crisi. Perché bisogna essere senza patria, bisogna non appoggiarsi neanche al successo che può avere un impresa o una famiglia che ha sette figli o una moglie a cui si vuol bene o a una società che funziona. Bisogna capire che in quel momento c’è da stare fedele a quello che dicevo prima, a qualcosa di più profondo. Protagonista non è quello che ha il potere, questo va e viene, protagonista non è quello che ha successo, protagonista è quello che anche in quel momento richiama tutti, proprio magari in forza della sua capacità di fare, a qualcosa di più profondo. Infatti, il tema che viene fuori, il terzo tema che viene fuori, è l’essere un grande imprenditore, perché è il grande imprenditore, è l’imprenditore che costruisce dal nulla un impresa, che risponde al bisogno della gente. Si capisce che questa creatività nasce da qui. Perché lo dico adesso? Perché sembra che oggi per avere soldi, per fare successo, per far l’impresa, il problema sia essenzialmente un problema tecnico, di professionalità, si riduce l’educazione a capacità, a tecnicismo, invece lui no. Lui decide di stare a Rimini, decide di stare a Rimini e si impegna nell’impresa meccanica del padre e capisce che lì dentro, per vivere questa capacità, serve, cito sempre dal libro, “serve un contatto umano con i lavoratori”, per dare un contributo alla crescita della città, per creare nuovi posti di lavoro e stabilire nuove relazioni tra i datori di lavoro e i dipendenti. Perché dico questo? Perché o si ha questa dimensione grande o non nasce il successo imprenditoriale. Noi continuiamo a dirlo da anni e l’abbiamo sentito dire anche da lui, da Taddei, da Nicola Sanese, da tanta gente che ha fatto la fortuna, la fortuna positiva, anche la ricchezza di Rimini. Per fare un impresa non è vero che il punto di partenza è quello liberista, l’idea di Smith. Il birraio o il macellaio, non partono da, come dire, propositi volontaristici, caritativi, è vero, ma non partono neanche semplicemente dal profitto, nascono dall’idea di fare qualcosa di grande, di positivo, di rispondere a un bisogno in cui l’impresa è una parte di un macrocosmo, di un mondo che io voglio servire, in cui il mio profitto deve essere all’interno di un mondo positivo. Tanto è vero che anche il cuore dell’imprenditore, il cuore anche di SCM, è la scoperta di qualcosa di utile per gli altri, perché è qualcosa di utile, se non fosse utile nessuno lo comprerebbe. In questo caso il suo primo grande successo, la macchina per la lavorazione del legno, nasce perché c’era qualcosa che non gli piaceva prima, perché c’era la necessità di una machina più economica. Quante volte abbiamo ripetuto, abbiamo sentito, proprio in persone come Giuseppe, che l’inizio dell’impresa imprenditoriale, anche nel senso della scoperta, è qualcosa di quasi poetico, qualcosa che risponde di più al bisogno dell’uomo. Il protagonismo del cuore, il desiderio non vale solo per le poesie, vale anche quando si parla di economia, vale anche quando si parla di sviluppo, vale anche quando si parla di una macchina, perché c’è qualcosa di creativo nella forza di un uomo, dell’uomo umano, dell’uomo cristiano. Quando si fa una cosa di meno pesante, di più economico, di più efficiente, c’è la voglia di rendere la vita degli uomini intorno a sé diversa. Noi della Compagnia delle Opere, qui al Meeting, ne abbiamo incontrati tanti di personaggi, pensate a Michelin, e l’intuizione di Giuseppe Gemmani è la stessa di Michelin, un’umanità che diventa strumento, diventa segno, diventa costruzione anche meccanica, in quell’unità che ricompone il materiale e lo spirituale che è propria del cristiano, in cui l’impresa e la Cattedrale, come nei Cori della Rocca di Eliot, sono una cosa unica. E allora uno capisce perché prima di definire ogni progetto, ogni modifica c’erano lunghe discussioni con il capo officina, con i commerciali. Un imprenditore umano e cristiano è la forza dell’Italia, che non ha niente altro, non ha forza politica, non ha materie prime. La novità viene perché il tuo capo officina ti dice guarda che c’è questo che è meglio, e l’operaio ti dice un’altra cosa. Non è il genio creativo nella torre d’avorio, è uno che ascolta, che lavora, che si accorge dei particolari. Dimmi se questo non è la stessa cosa che manda avanti una famiglia: la famiglia è fatta di particolari, del figlio che ha il mal di pancia, dell’altro che ha un’intuizione e dei soldi per mandarlo all’università. I particolari della vita dell’azienda sono i particolari della famiglia. La divisione tra queste cose è una divisione che ci uccide, perché io continuo a ripetere che se c’è una cosa che uccide l’Italia è l’abbandono della tradizione cristiana, con questa capacità di guardare, di costruire, di stare insieme.
E allora si capisce la critica che lui fa anche al mondo politico in cui si è immerso, perché si è messo nella direzione della DC locale. Quando lui dice che il vero grande errore della DC è stato l’abbandono del principio di sussidiarietà, siamo nel ’94. Del principio di sussidiarietà nel ’94 non parlava più nessuno, nessuno. Non ne parlavamo quasi neanche noi, c’era solo l’intervento di Giussani ad Assago in cui parlava di questo. E allora concludendo, secondo me la chiave di tutto questo, il filo rosso del libro e della vita di quest’uomo è la seguente. Abbiamo parlato due o tre anni fa di emergenza educativa. Ecco, un uomo come Giuseppe Gemmani è l’incarnazione della capacità educativa. Educazione cosa vuol dire? Comunicare un valore ad altri, per ridirlo a se stessi, vivere di un esperienza che rendi fruibile ad altri, questo è il filo rosso. Perché lo fai in famiglia, dove capisci che non basta mettere al mondo i figli fisicamente, ma devi aprirli; lo fai in un’azienda, pensate alla scuola per falegnami rivolta a studenti in paesi in via di sviluppo, lo fai fondando il polo dell’università di Bologna qui a Rimini, lo fai finanziando l’acquisto della Comasca per lanciare la fondazione Karis, lo fai con questi gesti in cui l’impostazione educativa diventa gesto fondamentale. Tu non puoi mai essere arrivato, non puoi mai essere dall’altra parte, non sei quello che hai capito, devi ricominciare da capo continuamente. Ci sono operai, capifabbrica, dirigenti, figli, amministratori, politici a cui devi trasmettere qualcosa, e mentre trasmetti ti metti ad essere giudicato. Per questo è proprio il cuore che arde che giudica quest’uomo, e che ci dice che questo libro è un grande invito a ricominciare. Nei momenti della crisi, in cui tutti parlano della crisi, in cui l’Italia va indietro anche come numeri, c’è un’unica strada: ricominciare, in modi diversi ma con lo stesso metodo, a vivere l’esperienza di gente così.

MODERATORE:
Ringrazio Vittadini per l’intervento. Io a questo punto potrei prendere e buttare via il mio intervento, nel senso che le cose che lo hanno colpito del personaggio Giuseppe Gemmani, sono le stesse cose che hanno colpito me, indagando sulla sua vita e scrivendola, e sono veramente sorpreso che, senza parlarci e senza metterci d’accordo, siano proprio gli stessi i punti che ci hanno sorpreso. Un compagno d’avventura nello scrivere il libro è stato Giovanni, perché è stato il custode e l’ordinatore metodico di tutta la ricca documentazione che Pippo aveva messo da parte durante la sua vita. Lui conservava tutto, pensate che, c’è scritto nel libro e quindi lo posso dire, che nel portafoglio, dopo la morte, hanno trovato la lettera che il parroco di Medolla gli aveva scritto per dare informazioni su Lucia. Come si usava allora, il buon Pippo aveva chiesto informazioni al parroco per sapere chi era questa ragazza, e ovviamente il parroco dà delle buonissime referenze, quella lettera cui era conservata ancora nel portafoglio dopo cinquanta anni. Bene, dicevo, Giovanni è stato un mio compagno d’avventura in questa storia e a lui do la parola per raccontare perché ha voluto che si arrivasse a questo libro.

GIOVANNI GEMMANI:
Bene, buonasera a tutti. Allora, intanto dei ringraziamenti, perché qui ancora non è stato fatto alcun ringraziamento, però penso che una presenza così nutrita sia significativa, soprattutto, come dire, sia un onore alla memoria di mio padre, e quindi è giusto anche un ringraziamento, anche per il solo fatto che voi siete tutti qui presenti, qui numerosi. L’altra cosa è una nota, una precisazione. nel senso che devo anticipare che questo incontro è stato fatto in anteprima, ma seguirà per la città, visto che comunque il libro è molto contestualizzato, cioè parla di cose molto legate alla vicenda riminese, al territorio, e quindi abbiamo ritenuto opportuno anche programmare un incontro come questo in autunno con la città, presieduto dal vescovo stesso, che ha scritto la prefazione, e pertanto credo sia utile ripetere questo momento, che in questo preciso periodo è stato fatto per, come dire, approfittare dell’uscita del libro, ma non vuole essere esaustivo.
Il mio intervento è tutto diverso da quello di Vittadini, anche perché io lo vedo dal lato del figlio. Intanto io voglio dire che cosa ha significato per me. Ritornare sulle tracce del padre, è comunque un esperienza forte per chiunque lo facesse, e soprattutto un esperienza scomoda, perché l’immagine che uno si fa del proprio padre è un immagine che uno si vorrebbe tenere lì nel cassetto e che nessuno gli andasse mai a rovinare, invece non è stato così. Cioè, andando a rivedere i documenti, andando a scoprire che cosa aveva detto mio padre, che cosa aveva fatto, eccetera, cambia l’immagine, e questo è una cosa scomoda, perché noi vorremmo sempre che le nostre cose fossero a posto, che tutto andasse come pensiamo noi. Ritornare sulle tracce del proprio padre e guardare con gli occhi da adulto un rapporto vissuto da bambino, da ragazzo, avendo oggi la coscienza proprio a volte di padre, permette di capire situazioni che a suo tempo erano per me inspiegabili. Permette, e nel mio caso mi ha permesso, di recuperare il tempo che, per forza di cose, lui allora non aveva da dedicarmi. Ma forse, più che il tempo che non aveva, era quello che lui non ci diceva, perché per noi figli era difficile capire. Non era il momento, e forse non era neanche giusto, probabilmente avrebbe scandalizzato la fragile coscienza di noi figli, ancora bambini e ragazzi. Comunque è stata un esperienza unica scavare nei suoi ricordi, e guardare oggi con gli occhi di adulto questo passato, avendo ancora la curiosità e la fiducia di quando eravamo bambini. Ed è proprio questa curiosità che ci spinge ad osare, a guardare sempre più in là, che mi ha spinto ad andare a cercare informazioni sul mio babbo. Ed è questa curiosità che ci fa osare e ci fa arrivare dove neanche noi immaginiamo.
E soprattutto capire cosa recuperare, il senso di tante sue scelte, che allora non potevo comprendere e che oggi mi ritrovo addosso come se fossero familiari, logiche, quasi scontate, per come era lui, e aggiungerei, per come oggi sono fatto io. Ma un fatto inaspettato ha provocato la mia curiosità, che era all’origine del fare il libro stesso. Il fatto che lui aveva conservato per sé tutti i documenti possibili della sua vita, sia quelli contestuali ai fatti che gli erano accaduti, come testimonianza degli avvenimenti storici, quindi volantini, articoli di giornali, appunti di lezioni, cartoline, lettere, fotografie, eccetera, sia quelli che lui stesso aveva prodotto durante la sua vita in risposta a tali avvenimenti. Lui aveva la mania di prendere appunti su dei fogli A4, che piegava in quattro a loro volta, e poi tagliava e poi su questi fogliettini piccoli scriveva con una calligrafia splendida, che ci ha permesso di riuscire a ricostruire tutto. Lui li conservava gelosamente, parlo di questi fogliettini, lui li conservava gelosamente come possibilità di riflessione personale, per le sue scelte future. Va qui detto che il babbo era un uomo molto severo, rigoroso, anche con se stesso. Lui stesso ripeteva che chi non conosceva la storia non poteva pretendere di governare il futuro. Ecco, questo senso della storia ha pervaso tutta la sua vita, e questo è una cosa che fa un po’ a pugni con il periodo in cui viviamo adesso, in cui si cerca di tagliare tutti i legami con il passato. Lui era, come dire, aveva una fissa, scusatemi il termine, per la storia, e aveva anche, per sua fortuna, una grande memoria. La storia e la memoria sono le basi per costruire il futuro. Questa sua raccolta, fatta senza censure e per certi versi anche disordinata, casuale, ma comunque progressiva nel tempo, senza lacune, senza interruzioni, indipendente dal fatto che lui condividesse o meno quello che andava a conservare, è stata fondamentale per il libro, anche se per alcuni aspetti è risultata molto cruda, a volte così dura che molti testi alla prima lettura mi hanno veramente impressionato. Molti di questi testi sono risultati inediti, e parecchi stralci di questi sono riportati fedelmente per quanto possibile nel libro. Ecco, il libro non è un libro comune, chi lo leggerà vedrà che è molto documentato, è un libro un po’ particolare.
Questo archivio personale, poi, la dice lunga su di un uomo che non ha voluto tagliare, ignorare quello che la vita aveva da offrirgli, anche nel dolore, anche in quello che lo contraddiceva, lo turbava. Il libro parla di una vita tutta intera. Ecco, questo secondo me è fondamentale. Lui non solo teneva tutte queste cose, ma lui perché lo faceva? Lo faceva perché lui pensava che tutto della vita fosse utile, cioè che la vita fosse tutta intera, che non fosse da rompere a brandelli, e chi leggerà il libro può incontrare questo fatto. Cioè si incontra una vita, un uomo, ma soprattutto una vita, una vita tutta intera, in tutti i suoi aspetti, a partire da quando era bambino fino alla morte. Ma il fatto di ritrovarlo, parlo degli archivi, è stato fondamentale non solo per il libro, ma anche per me. La sensazione che ho provato nel ritornare nel suo ufficio di casa, è stata quella di scavare in una miniera, polverosa in senso fisico, dove si scava sapendo di rimestare in un passato che ti può cambiare, anche nell’idea che ti eri fatta di tuo padre, il discorso che facevo all’inizio. E poi quello di andare più a fondo su testi, leggendo e rileggendo, anche con l’ausilio di Valerio Lessi, per cercare quei collegamenti temporali e storici indispensabili alla composizione del mosaico della sua vita, è stata per me un’esperienza unica. Quello che ne è venuto fuori, è si un libro sulla vita di un uomo, ma anche un libro che implicitamente esprime dei giudizi storici sul secolo passato e provoca una riflessione su quello presente che si sta prospettando. In effetti il libro, ripercorrendo la vita del babbo a partire da documenti dell’epoca, è inevitabilmente un libro storico, ma che, inesorabilmente nel suo svolgimento, si avvicina ai giorni nostri, fino ad intromettersi nella cronaca, ed essere in alcuni passaggi addirittura profetico, come nella sua lettura del fenomeno della Lega Nord – sapete che la Lega ha avuto un grande successo alle elezioni, no? – come nella sua lettura del fenomeno della Lega Nord, per come si presentò la prima volta e per come si è confermato oggi, a posteriori, in queste ultime elezioni. Ecco, nel libro, adesso non voglio entrare, ma magari Valerio lo dirà meglio, il babbo riesce a leggere una visione della Lega non tanto come un movimento di protesta, ma come veramente un movimento alternativo che si rifà ai legami col popolo.
Ovviamente il taglio che si voleva dare, parlo del taglio storico e cronologico, e cronistico, ovviamente il taglio che si voleva dare non era questo, però alla fine non ha guastato. I propositi originari, infatti, erano quelli di un libro sul babbo, il più obbiettivo possibile, né romanzato e neanche nostalgico, ma che inducesse proficue riflessioni in chi lo avesse letto. Però una domanda la pone. E per bocca di Nicola Sanese: “A conclusione del libro chi, tra le nuove generazioni, raccoglierà il testimone di un passato così glorioso?” Questo è Sanese che parla, eh. Oppure, come direbbe l’amico imprenditore Vittorio Taddei, complice del babbo in alcune opere educative di questi ultimi anni, citavamo prima la Comasca: “La crisi dei nostri giorni, che non è solo economica, ma è anche civile e sociale, è una crisi della classe dirigente e questo è potuto accadere perché non siamo più educati ad affrontare la vita, manca la cultura di un popolo”. Anche se le crisi sono un fatto positivo, come diceva il babbo, come è stata quella del ’29, da dove ebbe poi origine l’attività imprenditoriale di famiglia. Dal libro non emergono risposte, ma solo dei fatti, dei luoghi, che uno è libero di giudicare. Però questi fatti, questi luoghi ci sono, e sono visibili, in particolare nella città in cui viviamo, sono opere che sono state avviate, alcune anche dal babbo, e sta a noi decidere se e come portarle avanti. Ecco, il libro, secondo me, è una possibilità di esperienza. Cioè, leggendo il libro, non solo si vedono dei fatti, ma si capisce che ci sono delle opere, ed è impossibile non vedere queste opere, che ci sono nella nostra città e che vanno riconosciute.
Vorrei avviarmi alla conclusione con la frase che spesso ci ripetiamo, e che penso ben si adatti alla vita del babbo. Il senso della vita non è vivere, nel senso di sopravvivere, di lasciarsi prendere dalle cose da fare, di tirare avanti, di fare cose che altri hanno detto che dobbiamo fare. Il senso della vita non è vivere, ma spendere la propria vita, cioè spendere la propria vita per quello che ognuno di noi crede valga la pena spenderla. Anche perché spendendo la vita per qualcosa, si guadagna la voglia stessa di vivere. Per il babbo è stato chiaro, già nel sogno della sua giovinezza, maturato all’ombra del campanile della sua parrocchia, per che cosa spendere la sua vita. Un sogno che non ha mai tradito e per il quale ha speso tutto se stesso. Ma per noi, altre generazioni, è facile vivere sull’equivoco dei valori, quegli stessi valori prodotti e portati avanti proprio dalle generazioni che ci hanno preceduto. Oggi, poi, si dimentica che per arrivare a quei valori, a quel bene utile per tutti, qualcuno ci si è speso, qualcuno ha creduto in un ideale, che ha dato un significato al bene stesso. Oggi, i cosiddetti valori condivisi da tutti, come il valore della vita, sono svuotati di significato. Anche la vita, anche la vita, cioè il bene più prezioso, sembra essere ridotto all’essere in salute e all’avere del tempo per sé, per fare non si sa bene che cosa. Ma non era mia intenzione avventurarmi in discorsi esistenziali, bensì soffermarmi sulle conseguenze, perché una mancanza di posizione sulla vita non è priva di conseguenze. L’urgenza di vivere da protagonisti, dice il titolo del Meeting, è data dal fatto che altrimenti quello che facciamo tutti i giorni rischia di non avere consistenza, di non avere futuro. Tanto per fare un esempio a caso, si fa per dire, l’opera più importante, o comunque la più evidente, del babbo è stata l’Invincibile, e quindi l’azienda SCM di oggi, l’SCM Group, tanto per capirsi. Quella che mi tocca, e ci tocca, più da vicino, visto che quasi confina con i padiglioni della fiera. Ma allora, parafrasando, se il senso della vita non è vivere, anche il senso dell’azienda non è il far vivere l’azienda, come fine a se stessa, come bene assoluto intendo. Quindi l’azienda, per tutti quelli che sono chiamati a gestire delle responsabilità, nel mio caso l’SCM, pur essendo al di sopra di noi, è per tutti noi, per noi che ci lavoriamo dentro. Come disse una volta Giancarlo Cesana, scopo dell’azienda è la felicità di chi ci lavora.
Concludo raccontando un aneddoto che non è citato nel libro. Verso la fine degli anni ’90 si tenne proprio qui, a pochi passi da qui, in SCM, nella Sala Leonardo, un incontro – testimonianza organizzato dal Club CDO Libera Impresa, che allora però si chiamava solo Giovani Imprenditori, e che oggi non sono più tanto giovani. L’intento del club con questi incontri era, ed è ancora, quello di un confronto tra aspiranti imprenditori e imprenditori fatti, finiti. Quella volta venne chiamato il babbo e l’SCM venne presa ad esempio. Il babbo allora era nella fase della completa maturità imprenditoriale e di vita. Il babbo fece una breve storia di come era nata SCM, pazientemente come era abituato e senza enfasi: crisi del ’29, dalla fuoriuscita di quattro operai della Negrini un nuovo inizio, poi la prima macchina, l’Invincibile, presentata alla fiera di Macerata nel ’52, eccetera. Poi il dibattito, e le numerose domande dal pubblico, tutte tese a dimostrare che già allora non era più possibile far nascere un impresa, che a conti fatti non conveniva, che il suo era stato un caso fortunato. Lui ribatteva colpo su colpo, che la vita è fatta per essere spesa, che vale la pena rischiare, che niente è garantito, ma che è meglio rischiare piuttosto che rimanere fermi sulle proprie posizioni di rendita e sui propri dubbi. Poi però volle andare oltre, e disse una cosa che non mi aspettavo. Disse che anche SCM, leader di mercato, azienda solida, sana, e lo è ancora oggi, e forse ancora di più, che era cresciuta negli anni mentre tanti suoi concorrenti erano scomparsi, disse che anche SCM un giorno sarebbe potuta finire, lui non lo poteva escludere, chissà. Questa cosa, detta da lui che l’azienda l’aveva vista crescere, da lui che aveva dato la sua vita per far vivere l’azienda, e per essa si era sacrificato, questa cosa che aveva detto, che in fondo è scontata, però detta da lui mi scandalizzò, forse perché neanche a me era chiaro cosa significava fare azienda. Ecco, il libro serve a provocare questo tipo di espressioni, di riflessioni. Io penso che leggendo il libro si possa effettivamente arrivare a fare delle riflessioni su se stessi, sul proprio modo di portare avanti le proprie responsabilità, chi piccole e chi grandi. E chiudo. Ma allora la frase chiave di lettura del libro e della sua vita è bene espressa nel sottotitolo: una fede invincibile, una creatività operosa. Nel senso che c’è un prima al fare operoso che il fare stesso non giustifica, ed è una fede, come quella che aveva incontrato lui, una fede invincibile, che sfida l’ineluttabilità delle cose del tempo, una fede che operativamente si sporca le mani e crea, grazie.

MODERATORE:
Ringrazio Giovanni, soprattutto per questa testimonianza, non consueta, di un meditato rapporto figlio – padre, aiutato certo dall’esperienza di questo libro, però, insomma, non capita spesso di ascoltare una meditazione così approfondita sul rapporto con il proprio padre. Bene, io a conclusione di questo nostro incontro vi dico, come promesso, appunto, alcuni fatti, alcuni punti che, lavorando sulla figura di Pippo Gemmani, mi hanno particolarmente colpito. Chiedo scusa se alcuni saranno quelli che prima magistralmente ha enunciato Giorgio Vittadini, io cerco di, magari di riempirli di esempi, di cose raccontate nel libro.
Dunque, io sono convinto che non si possa capire la cifra dell’uomo Pippo Gemmani senza fare riferimento, e credo che il libro, insomma, su questo ci sia riuscito, alla sua educazione, alla fase educativa vissuta nella gioventù di Azione Cattolica di Rimini degli anni ’40 e ’50. Una gioventù di Azione Cattolica che aveva come maestro, è stato ricordato, il beato Alberto Marvelli ed un promettente giovane sacerdote che rispondeva al nome di don Oreste Benzi. Si vede dai racconti, dalle testimonianze, insomma, un episodio un po’ umoristico è quando Lucia scese da Medolla per venire a Rimini, per incontrare la famiglia del suo futuro marito, e Pippo non c’era, perché era ad un incontro dell’Azione Cattolica, insomma. Quindi si vede da tante, da molte testimonianze, e anche da questi fatti, che la partecipazione a questa esperienza non era semplicemente il partecipare ad un associazione per il tempo libero, assolutamente no, era un reale investimento affettivo, che questi giovani immettevano nell’esperienza in cui vivevano. Non a caso nacquero fra di loro anche amicizie per una vita. Chi di noi qui è di Rimini, certo ha conosciuto l’ingegner Enrico Casalboni, che era uno di questi amici per la vita, per tutta la vita, di Pippo Gemmani.
I documenti che Pippo ha conservato durante tutta la sua vita danno proprio l’idea di questo clima umano fresco, attivo, coinvolgente, e direi che potranno essere, in futuro, utili per chi vorrà scrivere un libro sull’Azione Cattolica riminese di quegli anni, perché non c’è nulla che racconti quel periodo, che abbia raccolto una testimonianza. Questa di Pippo è la prima. Io mi auguro che qualcun altro prenda il testimone e vada avanti in questa ricerca. Secondo me ci sarebbero cose molto interessanti. Sono stato colpito da questi appunti che, come preciso nel libro, non è ben chiaro se sono direttamente di Pippo per preparare gli incontri che lui teneva, perché era un dirigente, o se sono appunti presi da altri e che circolavano per fare incontri. Comunque sia, sono la riflessione che in quell’ambiente circolava.
Questo è certo.
E anche io sono stato colpito da certe frasi, questa riflessione sul 1948, così diversa da quella che ci viene data dalla storiografia ufficiale, dove si parla di un trionfalismo cattolico, come nel famoso libro “Giorni dell’onnipotenza” di Mario Rossi.
Qui a Rimini tra i giovani di AC si facevano invece riflessioni di questo genere: abbiamo combattuto per il 18 aprile, ma perché? Forse per spirito d’avventura o di parte? Ma quanti dei nostri giovani faceva questo per la gloria di Cristo? E abbiamo vinto, ed ora che facciamo? Credete forse che basti avere in mano la leva della politica?
In un altro passaggio, dopo aver prima parlato del dramma della società moderna che ha respinto Cristo, si dice: “di fronte a tanta pazzia sono necessari degli uomini decisi. Le mezze misure non fanno per noi. Il 18 aprile non serve a nulla, il male sta più in fondo”.
Questi giovani, come tutti i giovani, ovviamente avevano un rapporto critico con le generazioni che li avevano appena preceduti.
Ed è appunto stupendo questo giudizio sulle generazioni che li avevano preceduti e che prima ha citato Giorgio: “si sono dimenticati di essere uomini”, sottolineato in originale, nei famosi bigliettini di cui prima parlava Giovanni.
Cioè innanzitutto gente che ragiona, che ha un carattere, una volontà, una decisione. Via i colli corti, vogliamo prima degli uomini ed è cosi difficile trovarli.
Dentro questa esperienza, dentro i rapporti di amicizia con cui Pippo decide il suo destino, ci sono alcuni anni di grande incertezza: rimanere a Rimini per far sviluppare l’azienda del babbo e creare posti di lavoro per i riminesi, o andare a tentare la carriera e l’avventura a Milano, che come ben immaginate era la Milano del boom economico, del miracolo.
Sappiamo come è andata a finire.
Ma è interessante, ed è uno dei documenti più belli che abbiamo trovato, la lettera che nel 1953 scrive a Vladimiro Dorigo, che era uno dei dirigenti centrali della gioventù di AC, e poi in seguito sarà anche un dirigente democristiano a Venezia. Gemmani gli esprime tutto il suo disagio, le sue perplessità su quello che a suo tempo era un dibattito, una supposta terza via tra capitalismo e collettivismo, cristiana, per tentare di fare un’economia cristiana.
Esprimeva tutto questo disagio e lui ad un certo punto dice: “perché non proponiamo ai nostri giovani laureati, e di bravi ce ne sono, anziché cercare una comoda cuccetta in un impiego statale o privato, di creare una cooperativa fra di loro, e cosi cercare di rispondere loro stessi al loro bisogno di occupazione?” Siamo nel 1953.
Io questi discorsi li ho cominciati a sentire quando ero ragazzo, avevo 25 anni, e quindi molti anni dopo.
Ed anche questa è un tipo di testimonianza che mi ha colpito.
E l’altro punto, e qui dico una cosa nuova che per fortuna non ha sottolineato Giorgio, è stato il fatto che Pippo Gemmani è partito daccapo a 57 anni.
Quando tutti pensano alla pensione, quando tutti pensano a come accumulare il gruzzolo di una vita, di fronte alla grande crisi che colpisce SCM nel biennio 1981-83, lui si rimette in gioco e ricomincia daccapo.
Un altro punto, che ha accennato con forza Vittadini, è quello che io ho chiamato il suo testamento politico. Voi sapete che Pippo Gemmani è stato un leader storico della DC di Rimini, consigliere comunale per quasi 30anni, segretario del partito dal 1964 al 1970, e non è diventato Senatore o Deputato perché, quando arrivò il suo momento, questa è un’altra caratteristica importante, accettò di farsi da parte per favorire le esigenze del rinnovamento che in quel momento erano personificate nella persona di Nicola Sanese.
Fra l’altro, nel suo non cercare le poltrone, nel libro c’è un episodio inedito, simpaticissimo.
Si doveva decidere il primo presidente della Fondazione Carim di Rimini, e c’era una lotta fra le due fazioni democristiane, come sempre succedeva a quei tempi, una che sosteneva Gemmani ed una che sosteneva Chicchi.
Quest’ultima andò da lui e, dato che Roma non decideva, era tutto bloccato e non si giungeva ad un accordo a Rimini, gli chiesero una lettera di rinuncia.
Lui la fece, e la lettera partì per Roma, ma si perse.
Dunque la situazione non si sbloccava.
Occorreva che lui la rimandasse.
Ovviamente il politico che era andato a chiedergli la prima era imbarazzato a chiedergli la seconda.
Alla fine ci andò un altro, e Pippo gliene fece una copia.
Questo per esprimere il senso di attaccamento alle poltrone che aveva! Ma a parte altre cose, pure raccontate nel libro, interessante è questa lettera che lui scrive nel 1994, mentre la DC è ormai finita e c’è il PPI, e sta emergendo l’astro Berlusconi.
In sostanza dice che la DC ha fallito perché non ha realizzato, quando aveva il potere, il federalismo fiscale.
Ultimo punto, l’interesse per l’educazione. Anche questo è stato ricordato, vorrei solo sottolineare, e nel libro è raccontato, che quando gli fecero vedere la “Comasca”, che non era bella come adesso, ma il rudere che doveva essere recuperato, lui fu colpito dalla bellezza dell’edificio.
La passione per la bellezza, la musica, la pittura, l’arte, la storia, l’architettura era uno dei tratti fondamentali della sua personalità, e vorrei anche sottolineare il fatto che facendo il dono della “Comasca”, lui, uomo maturato all’interno della storia della AC, a cui è sempre rimasto legato, ha avuto la grande libertà e magnanimità d’animo di fare un grosso regalo per un Movimento, quello di Comunione e Liberazione, per il quale aveva stima e di cui aveva visto l’influsso positivo nella vita dei figli.
Un grande gesto quello di fare questo investimento in educazione per un’opera che era legata evidentemente al movimento di CL.
Non è facile trovare questa magnanimità, questa libertà d’animo.
Credo che questo sia uno dei tratti più significativi di Pippo ed è, la “Comasca”, uno dei regali più belli, oltre alla SCM, che ha fatto alla città.
Con questo concludo, vi ringrazio della vostra attenzione, e buon Meeting a tutti.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

26 Agosto 2008

Ora

19:00

Edizione

2008

Luogo

eni Caffè Letterario D5
Categoria
Incontri