INVITO ALLA LETTURA

Erano ridotti a desiderare l’officina. I ragazzi della riforma lombarda.
Presentazione del libro di Emma Neri, Giornalista e Eugenio Gotti, Consulente Regione Lombardia (Ed. Guerini e Associati). Partecipano: l’Autrice; Roberto Albonetti, Direttore Generale Direzione Istruzione, Formazione e Lavoro della Regione Lombardia; Diego Sempio, Direttore CFP Canossa di Lodi; Jacopo Vignali, Presidente Fondazione In-presa di Emilia Vergani. Introduce Massimo Ferlini, Vice Presidente Compagnia delle Opere.

 

MODERATORE:
Diamo inizio a questo incontro di presentazione e commento alla pubblicazione “Erano ridotti a desiderare l’officina. I ragazzi della riforma lombarda”. Dando per scontato che qui non siamo tutti lombardi e che quindi non tutti conoscono gli antecedenti, riassumo due questioni che ritengo importanti per inquadrare il libro. Negli ultimi due anni la Regione Lombardia ha prodotto due riforme. La prima è quella sul mercato del lavoro che, possiamo dire essere in modo sintetico, è l’attuazione della legge Biagi. La seconda è la riforma del sistema di istruzione e formazione professionale. Che cos’hanno in comune e perché le cito assieme? Vi era la necessità di rimettere al centro la persona e i suoi bisogni: di lavoro, di istruzione, anche di una continuità dell’istruzione nel corso della esperienza lavorativa. E vi era la necessità che, di fronte a questo bisogno, vi fosse un intervento per cui il diritto di scelta della risposta al bisogno stesse in capo alla persona. Si trattava di fare norme che riconoscessero quali erano le agenzie abilitate a rispondere a questo bisogno. E decidere quali caratteristiche dovevano avere quelli che fanno i corsi di abilitazione professionale, chi poteva essere agenzia per il lavoro, cioè farsi carico delle persone per seguirle nella formazione necessaria per reinserirsi nel mercato del lavoro e accompagnarle fino all’inserimento lavorativo, cioè ad avere realmente un reddito che derivasse da un’occupazione. Questo è lo schema per cui le due riforme stanno assieme. Perché hanno alcuni punti in comune, ma soprattutto rispondono a quel percorso di sostegno per cui, lungo tutto l’arco della vita, una persona possa essere coscientemente attiva e capace di gestire le risposte ai propri bisogni. In altre parole, perché entrambe le riforme valorizzano la centralità della persona, la sua capacità di essere attiva e dare il suo contributo cosciente alla società.
Queste erano le ragioni e lo sfondo. Dentro a questo ovviamente c’è la storia che si intreccia con le riforme che, a livello nazionale, sono avvenute nel settore dell’istruzione e della formazione professionale, un nodo particolare che ha visto diversi interventi normativi e amministrativi nel corso degli anni. Si trattava di affinare tutti quegli interventi che andavano dalla formazione permanente nel corso della via lavorativa all’istruzione nella fascia obbligatoria, fino a quelli finalizzati al recupero scolastico, cioè a riportare ad una formazione adeguata chi aveva abbandonato un percorso scolastico e formativo. Regione Lombardia ha ridisegnato questo percorso in modo importante, fino ad essere un di valenza nazionale. E questo ha fatto emergere anche il lavoro della società civile lombarda. Un riconoscimento che ha permesso a molte agenzie che magari avevano iniziato a rispondere al bisogno – mi si passi il termine, penso ai due operatori che abbiamo invitato a raccontare la loro esperienza – come volontariato, a diventare vere e proprie agenzie educative e formative nel corso di questi anni che hanno segnato questo percorso.
Il libro che qui presentiamo si intitola “Erano ridotti a desiderare l’officina. I ragazzi delle riforma lombarda”, è stato curato da Emma Neri, una giornalista che collabora con la Regione in questa cosa, e cerca, attraverso il racconto delle esperienze, di illustrare questo percorso. La frase che dà il titolo al libro, “Erano ridotti a desiderare l’officina”, è presa dall’esperienza di don Milani e della scuola di Barbina. Erano ridotti a desiderare l’officina vuole dire “non avevano un’alternativa a”: la scuola non riusciva ad appassionare, ad avvincere i ragazzi, e li aveva portati al punto di desiderare l’officina perché l’aula veniva vissuta come una condanna.
L’intreccio fra le due riforme – lavoro, scuola, istruzione, formazione professionale – è dato proprio dal fatto che le due leggi regionali avevano a cuore di ridisegnare il sistema perché l’inserimento attraverso la formazione e la sicurezza del mercato del lavoro in Regione viene attuata attraverso la conquista dell’autonomia individuale delle persone, attraverso un welfare partecipato, che attiva le forze vive della società. Do la parola allora adesso, in prima battuta, al Vice Presidente della Giunta regionale che chiamo a raggiungerci qui, l’assessore Gianni Rossoni, con delega al lavoro e all’istruzione professionale. Lo chiamo a dare il saluto iniziale prima di dare la parola a Emma Neri.

GIANNI ROSSONI:
Cosa devo dire…

EMMA NERI:
…che il libro è bellissimo…

GIANNI ROSSONI:
Il libro è bellissimo, non è un libro qualsiasi, racconta delle storie vere, di ragazzi che, quando hanno incontrato qualche problema, hanno incontrato anche chi se ne è fatto carico, li ha condotti per mano e, a partire dal fare, guidati anche al saper fare. Racconta la storia di quel che è stata la formazione professionale in Lombardia negli anni ’70 e di quanto la Regione Lombardia, il Presidente Formigoni, hanno fatto in questi dodici anni e mezzo di governo regionale, rispetto a un tema centrale come l’educazione. Mi pare che proprio ieri anche il Cardinale Bagnasco abbia posto il tema della emergenza educativa. Ecco, mi pare che questo libro sia fatto molto bene, e voglio veramente ringraziare Emma per questo sforzo che ha fatto, raccontando queste storie. Saluto con grande piacere chi è qua, a partire dal mio direttore generale, Roberto Albonetti, Sempio, Vignali e poi Emma: sono testimonianze vere di un lavoro che in questi anni si è fatto. Vedo anche tra il pubblico la dottoressa Ada Fiore che insieme a noi lavora: perché queste cose si fanno non da soli ma insieme, insieme a tante persone che vedo davanti a me. Sono esperienze bellissime, quelle raccontate nel libro. E’ un libro di vita vissuta, che racconta i bisogni di questi ragazzi e chi se ne è fatto carico. Quindi mi congratulo con Emma, con Roberto, con Sempio e anche con Vignali per quello che, insieme a Ferlini, stanno facendo, più che per la Regione Lombardia, per i nostri ragazzi. Mi pare che sia questo il motivo per cui siamo qua, oggi, al Meeting, a presentare questa esperienza educativa. Grazie ancora.

MODERATORE:
Grazie a Gianni Rossoni, la parola alla autrice.

EMMA NERI:
Ringrazio Ferlini e ringrazio moltissimo l’assessore Rossoni. Ringrazio tutti i presenti – vedo moltissime facce amiche – perché, in un pomeriggio così intenso di incontri interessanti qui al Meeting, ci hanno fatto il regalo di venire qua: vedo direttori di centri, Cometa e CSL, vedo il nostro segretario generale Sanese, che ci fa l’onore di essere presente. Soprattutto ringrazio il Meeting che ci ha consentito di presentarvi questo libro che racconta delle storie, come diceva Rossoni. Il sottotitolo è “I ragazzi della riforma”. I ragazzi sono quelli che vedete rappresentati nelle immagini sul video, nel filmato che abbiamo girato in alcuni centri della Lombardia per illustrare le linee della legge. La riforma è la legge di cui parlava Ferlini, la 19/2007, che ha consentito ad una scuola tradizionalmente di serie B – la formazione professionale – di diventare una scuola vera, di istruzione e formazione professionale, dove un ragazzo impara a studiare, a lavorare e possibilmente anche a vivere. Ecco, il titolo che è tratto da “Lettera ad una professoressa” di don Milani, racconta cosa può voler dire per un ragazzino adolescente essere aiutato a diventare protagonista della sua vita. Come dice il titolo del Meeting, “Protagonisti o nessuno”, magari non il più bravo del mondo, come raccontano in tanti nel libro, da Vignali a Sempio, da Cometa al CSL, magari non proprio un campione, ma certo un ragazzo che cerca il senso della propria vita e riesce a stare nella storia in piedi, a testa alta.
Ecco, io voglio dire solo una cosa e lasciare subito la parola ai relatori presenti perché su questo palco, tra Regione, CdO, enti, c’è anche l’assessore, io sono l’unica che non fa assolutamente niente. Però ho avuto il privilegio di guardare a quello che accadeva in Lombardia. Lo dico perché è così. In un film che verrà presentato qui al Meeting, molto bello, si chiama “Greater – Vincere l’AIDS” di Emmanuel Exitu, il regista bolognese intervista Rose, quest’infermiera – a Rimini farà anche un incontro bellissimo – che a Kampala aiuta donne ammalate di AIDS e orfani. Ad un certo punto Rose dice: “In questo mondo si parla troppo, bisogna guardare, perché il fare stanca, non basta; invece il guardare commuove. E muove”. Ecco, io parlo del privilegio che ho avuto perché mi è stato chiesto di guardare quello che stava accadendo, senza fare niente o comunque non molto. Non per raccontare quanto è grande la Regione Lombardia, che non ha bisogno di me, tanto meno per esaltare le mille opere sorte dalla creatività del popolo lombardo. Guardare e verificare, questo sì, se è vero quello che ci diciamo ogni giorno sulla sussidiarietà, cioè se veramente un metodo impostato sulla valorizzazione della persona, sulla libertà di scelta, sulla relazione di fiducia tra l’ente che governa e le opere che nascono sul territorio, sulla responsabilità condivisa, dia come frutto una vita migliore, e possibilmente anche leggi migliori. Ecco, ho guardato quello che accadeva da un osservatorio privilegiato, un orizzonte che aveva davanti sia chi lavora in Lombardia, i tanti qui presenti, amici e colleghi, sia le realtà che tentano di rispondere ai bisogni di chi vive in Lombardia. E mi sono sentita veramente commossa per quello che ho visto, perché dove c’è un grande bisogno, potremmo dire parafrasando Rilke, cresce una grande speranza. L’emergenza educativa è un grande bisogno, le scuole che non funzionano sono un grande bisogno. Esprimono un bisogno immenso i ragazzi che finiscono in dispersione scolastica, come ricordavano prima l’assessore e Ferlini, e sono tanti. In Italia, il 25% degli iscritti al primo biennio delle superiori, in Lombardia, meno, ovviamente, però ci sono anche lì.
Io ho visto persone che cercano di rispondere a questo bisogno – laici, cattolici, profit, no-profit, non sono distinzioni che hanno molta importanza in questo caso -, e una Regione che, anche legiferando, cerca di aiutarli nel loro lavoro. E ho cercato di rendere quello che avevo visto, anche con questo libretto, che abbiamo scritto insieme ad Eugenio Gotti, che è quello che lavora di più in assoluto, quindi adesso è in vacanza, lo salutiamo da Rimini e leggerà i nostri saluti sugli atti. E ringrazio di cuore, veramente, il direttore Albonetti e l’assessore Rossoni per avermi permesso di vivere un’esperienza così intensa, anche professionalmente.
Voglio testimoniare un’ultima cosa, la mia gratitudine per essere su questo palco. Nelle mie vite precedenti, qui al Meeting per anni ho tentato di raccontare ai giornalisti che cosa era la sussidiarietà, con esiti alterni. Però ho capito veramente in cosa consiste un modo diverso di vivere le relazione tra gli uomini quando sono andata in giro a guardare quello che succedeva, davanti alle facce dei ragazzini che avevano ritrovato la voglia di studiare, davanti alla fatica di chi sostiene il loro cammino e anche davanti al lavoro quotidiano, spesso non tanto gratificante, dei mie amici che in Regione lavorano per favorire la libera iniziativa di chi opera per il bene comune: gli uomini di buona volontà che sono anche qui con me, oggi, su questo palco. Grazie

MODERATORE:
Grazie ad Emma, do la parola a Diego Sempio, che è direttore del CFP Canossa di Lodi, uno dei protagonisti delle storie raccontate.

DIEGO SEMPIO:
Visto che abbiamo ringraziato tutti, ringrazio anche io e dico: un libro così, se non c’era bisognava inventarlo. Perché io sono entrato nella formazione professionale nel ’97, quindi non tantissimo tempo fa, ma ho fatto in tempo a vivere un po’ di vicissitudini che il libro racconta. Prima Massimo Ferlini diceva che, per chi non è della Lombardia, è bene conoscere queste cose. Ma io credo che anche chi è della Lombardia, un po’ di questa storia e di che cosa è la formazione professionale abbia bisogno di saperla. Questo libro mi sembra interessante perché racconta storie, ma attraverso una precisa ricostruzione storica di quello che è accaduto negli ultimi anni, a livello di formazione professionale. Io sono arrivato nel ’97, dicevo, un po’ casualmente, non arrivavo dal mondo della scuola ma dal mondo del lavoro. Mi sono trovato ad insegnare prima, poi a fare il direttore. Ho scoperto un mondo che non conoscevo, cioè la formazione professionale per me era una emerita sconosciuta, non sapevo neanche esistesse. Un mondo interessante fatto di enti storici. Noi ci chiamiamo Canossa perché abbiamo rilevato l’ente dalle suore canossiane di Lodi: quindi, in questo caso enti di origine cattolica. Mi aveva subito colpito una grande capacità, una grande flessibilità, una voglia di stare con i ragazzi che nella scuole che io avevo fatto da studente non avevo mai trovato. Quelli sono stati anni che il libro racconta bene, in cui ad un certo punto sembrava che la formazione professionale non dovesse più esistere, tanto che si era arrivati a un momento in cui si era detto basta: si farà solo formazione post-diploma, dimentichiamoci i ragazzi, andiamo avanti così.
La cosa mi aveva lasciato un attimo perplesso, anche perché avevo visto un metodo interessante all’opera, sia pure in una forma ancora difficile, perché allora c’erano solo due anni di corso. Come diceva Emma, il titolo lo dice bene, con la frase di don Milani: magari la rileggo perché mi ha colpito, è attualissima anche se è stata scritta nel ’67. Lui diceva così: “Sandro aveva 15 anni. Alto un metro e settanta, umiliato, adulto. I professori l’avevano giudicato un cretino”. Oggi nessuno si permetterebbe di dare del cretino, ma farò degli esempi in cui si capirà che si dà ancora del cretino, in una forma anche peggiore che non dare a uno del cretino. “Volevano che ripetesse la prima per la terza volta. Gianni aveva 14 anni. Svagato, allergico di natura. I professori l’avevano sentenziato un delinquente. E non avevano tutti i torti, ma non è un motivo per levarselo di torno. Né l’uno né l’altro avevano intenzione di ripetere. Erano ridotti a desiderare l’officina”. Non è che desiderare l’officina fosse sbagliato, ma erano ridotti nel desiderio, cioè, la loro possibilità, dal punto di vista scolastico, era già stata tagliata.
Nei primi anni che ho insegnato, mi sono trovato di fronte a questa situazione. Arrivava classicamente la mamma con il ragazzino, a cui nessuno ha dato del cretino ma a cui le medie avevano detto: “Guardi, suo figlio, per carità, intelligente, però non ha voglia di studiare, non riusciamo a fare, non riusciamo a capirlo”. Una volta si diceva: vada a lavorare. Adesso si dice: vada nei CFP. Il problema è che questi ragazzi aumentano. Tanti, anche i miei amici, hanno figli con problemi nella scuola. Io ho cominciato a domandarmi se i ragazzi stanno diventando più cretini di quanto eravamo noi, o se c’è qualcosa che non va. E credo che in questo libro qualche risposta si è cominciato a darla, anche perché c’è un equivoco di fondo. Quando si fa l’orientamento alle medie, è così: ragazzo bravo che funziona, liceo. Quello che è un po’ più in difficoltà, istituto tecnico. Chi è un po’ più in difficoltà e svogliato, istituto professionale. Chi proprio a scuole non dovrebbe andare, ma ormai deve andarci per forza, formazione professionale. Oggi in Lombardia è un po’ meno così, grazie a quello che è successo, che qui stiamo raccontando e che il libro descrive bene. La formazione professionale è vissuta così, cioè, come altra cosa rispetto alla scuola.
La formazione professionale, tipicamente, era: due anni per raggiungere una professione, ti insegno a fare il panettiere, ti insegno a fare il parrucchiere, ti insegno a fare l’elettricista. Non ti mando a scuola, così almeno trovi anche tu una strada. Però è la riduzione del desiderio, perché questi non sono ragazzi che non possano fare quello che ho fatto io. Ho fatto un istituto tecnico, ho preso la laurea, non tutti sono ragazzi che hanno condizioni oggettive per cui non ce la possono fare, anzi, abbiamo scoperto che ce la possono fare, eccome. Io mi ricordo un caso che, tra l’altro, è raccontato anche in questo video. Una ragazza, primo anno di scuola, molta difficoltà, molto introversa, non parla, fa fatica a studiare. I professori sono un po’ preoccupati, era ottobre, novembre. Convochiamo la famiglia per cercare di capire. Casualmente, il giorno prima la mia insegnate di scienze – scienze è un mio pallino, viene citato nel libro perché ha dato il frutto di una cosa molto interessante – mi dice: “Sai che Nicole ha fatto il miglior compito di scienze di tutta la classe?”. Il giorno dopo arrivavano i genitori: ci siamo io, papà e mamma e la ragazza. La prima cosa che mi è venuta da dire, perché non partiamo dalla difficoltà ma da ciò che è successo ieri, è stata: “Nicole, complimenti perché oggi, cioè ieri, la tua professoressa mi ha detto che il tuo compito è stato uno dei migliori”. Il papà si gira verso la ragazza con fare abbastanza tranquillo e le dice: “Vedi, anche qui ti prendono in giro”. Mi è gelato il sangue nelle vene, perché pensava che lo prendessi in giro. Evidentemente, la stima che la scuola, fino a quel momento, aveva dato a questa ragazza e alla sua famiglia, era così bassa da non poter neanche immaginare che la figlia potesse fare una cosa positiva su un pezzo di strada. Da quel momento le cose sono cambiate, nel senso che poi Nicole, partendo da quel pezzetto – volutamente avevo detto: no, guardi che non la sto prendendo in giro, è proprio così – è ripartita. Adesso Nicole ha fatto anche il quarto anno del percorso, lavora in uno studio di architettura, fa la disegnatrice CAD, riceve i clienti, va a parlare nel cantiere, fa le misurazioni, fa la segretaria, fa un lavoro che piacerebbe fare anche a me, nel senso che è bello. Ed era una destinata, cioè, “ridotta” all’officina, perché questo si intende, destinata a non fare nulla nella vita di interessante. Io di casi così ne ho visti veramente tanti, infatti ogni tanto mi chiamano a raccontarli, perché io dico sempre che ho il lavoro più bello del mondo: assisto quotidianamente ai miracoli. Perché se pensassi che fosse merito mio, sarebbe veramente… Cioè, il padre eterno mi scarica subito un fulmine, perché è talmente evidente la sproporzione che rende questa cosa affascinante. Diciamo che i primi anni sono quelli in cui arrivano le situazioni più disastrate: famiglie distrutte perché c’è la scelta della scuola superiore e la scuola superiore ti rifiuta, cosa facciamo? Noi abbiamo però un biennio, come dice bene il libro, per una questione storico- culturale grave, pesantissima, per cui vedo una distinzione netta tra ciò che è cultura e ciò che è lavoro. Per le normative di quegli anni la formazione professionale è sotto al ministero del Lavoro e non sotto il ministero dell’Istruzione. Sono due anni di esclusione dalla scuola, dove c’è il tentativo di reintegrarti in un percorso di cittadinanza ma fuori dalla scuola. E questa cosa qui sta stretta, anche perché quando vedi i ragazzi che poi in qualche modo ripartono, è difficile dirgli: adesso ricominci dalla prima, è la situazione che viene descritta qua, no? Così si è andati avanti per un po’ di anni, anzi, nel ’99 c’è stata la batosta del ministro Berlinguer. L’allora governo di centro-sinistra alzò l’obbligo scolastico di un anno, impedendo alla formazione professionale di assolverlo, con l’intento, se vogliamo comprensibile, di alzare il livello culturale delle persone. Solo che è stata fatta una operazione assolutamente incredibile, perché si è detto che gli alunni, cioè gli allievi dopo la terza media, dovevano fare un altro anno di scuola, dove e come non aveva nessuna importanza. Bocciati? Non è un problema, devono fare un altro anno, dopo di che potranno scegliere. Tutti gli allievi che durante l’anno avevano scelto la formazione professionale hanno dovuto fare, per un anno, un istituto tecnico, un liceo. Normalmente si sceglieva quello vicino a casa perché, non avendo nessun obiettivo, promosso o non promosso, che ti frega – scusate il termine -, vai dove è più comodo, dove c’è l’amico, tanto! I genitori, molti arrabbiatissimi, non davano i soldi per pagare i libri che spesso valgono per un biennio. Immaginate la situazione: io voglio fare il parrucchiere, e la mamma dice: sì, ma per un anno devi andare all’istituto, al liceo classico. A fare cosa non si capisce. Era proprio così: è una memoria storica che serve anche a noi che l’abbiamo vissuta. Quindi, immaginate la scena: ragazzi che arrivano alle scuole superiori, che non hanno nessuno stimolo, che fanno un anno di parcheggio, spesso tirandosi dietro altri ragazzi. Perché, anche qua, immedesimiamoci in un ragazzino di 14 anni che studia e vede due compagni in fondo che non fanno niente. La professoressa, dopo la terza volta che ha detto “studia”, smette, anche perché i genitori le hanno detto: “Non dica più niente a mio figlio, perché mio figlio vuole fare il parrucchiere”. Sono arrivati quindi ancora più devastati, perché è devastata una persona che non solo non viene valorizzati in nulla, ma alla quale si dice proprio: non vali niente, ti costringo a fare una cosa che non vuoi fare, dimostrandoti che non vali niente. Non credo sia stata questa l’intenzione di chi ha fatto la legge, ma questo è il risultato. Per cui arrivavano da noi ragazzi che hanno fatto un anno di scuola selvaggia, ma proprio.
Quello è stato l’anno anche dei Fondi Sociali Europei, per cui la Regione Lombardia ha potuto mettere in campo tanti corsi. Noi piccolo ente ci siamo detti: va bene, sembra che tutto stia morendo, però, insomma, io vedo questa gente qua, ci proviamo. E allora abbiamo provato a fare una cosa abbastanza strana per quei tempi, abbiamo chiesto due corsi biennali di disegnatore CAD addetto alle vendite, con l’idea di potere anche educare i ragazzi. Ci eravamo detti: ma perché io devo avere qua un ragazzino che sta due anni da me e non devo potergli dire nulla di quello che ha affascinato me, magari non a scuola ma con alcune opere letterarie, oppure con la scienza che mi appassionava particolarmente, con la matematica? Perché non posso dire e raccontare queste cose? Solo perché gli faccio fare un lavoro che in teoria non c’entra con la scienza? Allora abbiamo detto: mettiamo nei programmi materie di questo tipo. E ho messo scienze, matematica, italiano. Controcorrente, perché nessuno lo faceva.
Lì è stata un’avventura, lo descrive meglio il libro per cui vado veloce. E’ stato interessante perché ci siamo dovuti chiedere noi, che tra l’altro non venivamo dal mondo della scuola, perché si insegnano le cose che si insegnano a scuola. Che non credo sia scontato. La cosa più importante, che bisognerebbe che sempre noi facessimo, è chiedersi perché si insegna questa cosa. Soprattutto in un mondo in cui tutto era visto strumentalmente. Insegno l’italiano perché così quando vai in ufficio sai parlare, e finisce lì. Ci siamo ritrovati a chiederci, noi per primi, qual era il gusto della materia che insegnavamo. Devo dire che la cosa è interessante: abbiamo visto che, partendo dal quel metodo che avevo incontrato per la prima volta, il metodo del privilegiare il fare rispetto al dire, le cose funzionavano. Faccio un esempio stupido ma che forse fa capire. Questa estate parlavo con un mio amico che insegna disegno alle scuole medie. Mi dice: “Ah sì, perché anche io faccio le cose pratiche, ad esempio, per insegnare la prospettiva, inizio a disegnarla io”. L’ho fermato e ho detto: “Vedi, se tu lavorassi con me io ti chiederei di far disegnare prima a loro il disegno in prospettiva, senza dirgli niente. Questi comincerebbero a disegnare, non so, questa stanza. Uno incomincia. Dopo li fermi, li aiuti, dici: avete fatto un disegno, ma vedete che è piatto? Vedete che non funziona? Allora incomincerei a dirgli come si fa la prospettiva, cosa c’è dietro. Cioè, tu spieghi una cosa che c’entra con quello che lui ha già iniziato ad incontrare. Questo è il metodo del lavoro. Non è la pratica rispetto alla teoria, che poi non si capisce mai cosa voglia dire. Perché si può insegnare una materia pratica in una maniera assolutamente teorica, come si può insegnare una materia teorica in una maniera assolutamente pratica, scusate il gioco di parole.
E’ il metodo che mi aveva affascinato rispetto alla formazione professionale. Lì siamo andati. Quando nel 2003 è uscita la riforma Moratti, e soprattutto quando la Regione ha anticipato la riforma del secondo ciclo, quindi delle scuole medie superiori, è come se ci fosse stata una ventata di esultanza: ma allora ci abbiamo azzeccato – ci siamo detti – allora non era un’utopia pensare questa cosa. Per cui abbiamo potuto iniziare a mettere a sistema quello che avevamo iniziato a fare in maniera molto, molto volontaristica. Perché, sia la riforma Moratti che la sperimentazione della Regione hanno dato valore a questo tipo di concorso, dicendo appunto che la formazione professionale poteva avere il suo metodo, un’altra strada per raggiungere gli stessi obiettivi. Non un’altra strada per raggiungere un obiettivo minimale, ma una strada didattica per raggiungere obiettivi che un ragazzo normalmente raggiunge in altre scuole. E lì è stato veramente interessante. Pensate alla scena che normalmente mi capitava quando, in terza media, arrivano le mamme o i papà con i figli e chiedono: “Allora, com’è la scuola, cosa fa mio figlio, cosa può fare?”. Io gli racconto tutto. La scena è la classica. Al figlio o alla figlia si illuminavano gli occhi, perché capivano subito che si stava parlando di una cosa diversa da quella che avevano visto alle medie. Poi la madre – normalmente la madre, il senso pratico – mi domandava: “Ma dopo?”. Prima dovevo dirgli: “Dopo si ricomincia”. Perché, se dopo due anni le cose vanno bene, suo figlio magari può fare l’istituto tecnico. Ma ripartendo dalla prima. Capite che non era proprio il massimo. Per cui la madre si intristisce e il figlio dice: “Ma se questo è il mio destino, allora non va mica tanto bene”. Quando è arrivata la ventata della Riforma – e la Legge 19 lo ribadisce in maniera assolutamente netta, che invece il percorso non è terminale, cioè non è qualcosa che va a morire, un binario morto che va occupato parzialmente, ma può essere una prospettiva di rilancio – beh, capite che io faccio sorridere il ragazzo e la mamma. Eh sì, perché a questo punto non devo più dirgli: “Guardi, fra due anni ricomincia da capo”. Possiamo andare avanti. In questo senso, è importante anche l’avere ribadito nella Legge la possibilità di un quinto anno, per poter dare ancora più forza a questo tipo di metodo, che parte dall’operatività per arrivare anche ad una cultura più ampia. Speriamo che i nostri allievi si possano iscrivere anche all’università, un domani, perché a quel punto sarà l’università che dovrà dirci se i nostri allievi non valgono: quelli che vogliono, certo, perché alla fine del terzo anno molti andranno a lavorare. Però sarà l’università a dover dire che non funzionano. In Lombardia questo è successo, ed è una cosa che credo farebbe un grandissimo bene a tutti, in Italia. Io chiamo questi ragazzi “i brutti anatroccoli” della scuola. Ho riletto la favola e mi ha colpito, e chiudo con questa cosa che mi riassume il cerchio nell’educazione. Il brutto anatroccolo, se ci pensate, non era brutto né tanto meno anatroccolo. L’educazione non è tentare di plasmare la personalità per farla arrivare a qualcosa che non è. Il brutto anatroccolo ha rincontrato se stesso. Allora, la scuola, l’educazione, è fare in modo che l’allievo, il ragazzo, te stesso – perché poi è un’educazione continua – riscoprano quello che sono e che valgono veramente. Per cui uno, un domani, potrà decidere liberamene di andare in officina a lavorare, ci mancherebbe. Non è questo il problema, ma che uno scopra questo come valorizzazione delle potenzialità che ha. Cioè, ci vuole un maestro che possa dirgli: vedi che ce la fai, vedi che puoi farcela? E questo è dentro la possibilità di dargli regole e degli obiettivi alti. Perché io vedo quando sono valorizzato. Mi immedesimo in mio figlio, scusate: quando c’è un bambino piccolo e la mamma dice sì, va bene, allora facciamo quello che vuoi tu, il figlio non è valorizzato. Ma è quando la mamma gli dice: “Devi far quella cosa”. E lui: “No, non voglio!”. Quando poi ce la fa, per prima cosa dice: “Oh, ce l’ho fatta!”. Per cui, noi dobbiamo chiedere di più, paradossalmente. Più c’è una carenza di impegno, di capacità di studio, più noi possiamo chiedere ai nostri ragazzi, con la coscienza che ci sono strade diverse, possibilità diverse per raggiungerla. E con la coscienza che a nessuno deve essere ridotto il desiderio sulla propria vita. Grazie.

MODERATORE:
Grazie, Diego, per la storia che hai tracciato. Do la parola a Jacopo Vignali, per vedere se anche qui In-presa, non l’officina, risponde alla dilatazione del desiderio in cui ci ha introdotto adesso Diego.

JACOPO VIGNALI:
Buongiorno a tutti. La cosa paradossale della legge della Regione Lombardia è che aiuta anche noi che non siamo un centro di formazione. Spiego, noi nasciamo come un’associazione di volontariato che aveva come compito quello di accompagnare al lavoro i ragazzi che o smettevano la scuola in terza media e non avevano più desiderio di fare altre cose, o che, per vari motivi, erano proprio lasciati ai margini della società. E fondamentalmente il nostro lavoro – quello di Emilia, la nostra fondatrice – era aiutare questi ragazzi, portarli a lavorare, cercare imprenditori che li prendessero e insegnassero loro un lavoro. Dove il compito più difficile era quello di far sì che gli imprenditori diventassero maestri. Difficile, perché normalmente un imprenditore non ha tempo da perdere, soprattutto in Brianza, dove è molto chiara la questione: lavoro uguale profitto. Però la Brianza è anche una terra molto forte, ricca di artigiani nei quali c’è un desiderio di tramandare il lavoro, l’esperienza. L’esperimento iniziò con degli amici, e pian piano funzionò. Poi – mi richiamo a quello che ha detto appena adesso Diego – è nata la grande riforma Berlinguer. E noi siamo stati chiamati in causa, nel senso che ad un certo punto l’istituto tecnico di Carate Brianza – molto grande, ha più di mille studenti, a ottobre ci chiama e dice: “Ho 24 studenti che non vogliono frequentare, non frequentano, cosa facciamo? Mandiamoli tutti a lavorare”. “Un attimo” dicemmo noi, “non è cosa che si possa prendere così facilmente”. Allora la Regione fece un bando su un corso destrutturato, area tecnologico-elettrica. Noi partecipammo a questo bando in accordo con la scuola e prendemmo 16 ragazzi. Il primo giorno di scuola di questi ragazzi, chiamati “destrutturati”, fu questo. Lo racconto anche nel libro, ma è abbastanza interessante. La maestra d’inglese fu legata, scocciata ad una sedia e filmata. Non c’era ancora You Tube, quindi il filmato non fu mandato direttamente in rete. La professoressa di lettere diede le dimissioni un’ora dopo. Io, alla sera, mi trovai senza l’insegnante d’inglese, perché la poveretta era legata ad una sedia, e senza insegnante di lettere. E a quel punto dissi: “Bella la formazione, interessante. Che cosa facciamo?”.
Racconto questo perché da lì poi nacque un forte desiderio, che era quello di aiutare questi ragazzi provando a metterli al centro. Che è poi quello che la legge pone in maniera molto forte. Metterli al centro, dar loro la consapevolezza che valgono e che ce la possono fare, in tutti i sensi. Dopo, con la riforma Moratti, fu più semplice. Decidemmo anche noi di fare formazione professionale nell’ambito più vicino al desiderio dei ragazzi di potersi immediatamente immedesimare nel lavoro pratico. Perché fondamentalmente i ragazzi che noi incontriamo oggi sono tutti ragazzi che di studiare non hanno una grande voglia, non hanno voglia di impegnarsi. Però hanno una grande voglia, un grande desiderio di mettersi in mostra, nel senso buono, di far vedere che valgono. E allora decidemmo, tre anni fa, di fare il gastronomico, l’aiuto cuoco, perché sapevamo che poteva essere un impegno forte dal punto di vista dell’attività più tecnica, professionale. E la legge regionale ci aiutò moltissimo. Di quei 16 destrutturati, uno quest’anno si è diplomato, è passato dall’area tecnologica, grazie alle passerelle rese possibili dalla legge, al suo percorso, e ha fatto i suoi tre anni. Si vede nel video, si chiama Giacomo, c’è qua anche sua mamma. Si è diplomato ed è stato il secondo come punteggio. Ma la cosa impressionante è che oggi lui è assunto in un hotel a cinque stelle a Saint Moritz, e guadagna più dei suoi professori. Questo è un nota bene, ma non è poco, è una cosa impressionante.
Cioè, la cosa impressionante è quando tu li prendi sul serio. Perché questi ragazzi- non voglio ripetere ciò che ha detto Diego – hanno un fortissimo desiderio. E quando tu li prendi sul serio, loro ci stanno. Ecco, io credo che fondamentalmente il nostro lavoro, il lavoro che io con i miei collaboratori abbiamo, sia quello di poter creare le occasioni per cui loro possono mettersi in mostra. E’ un lavoro continuo, perché non è semplicemente insegnare ma educare, dove questa parola contiene anche l’altra, da un certo punto di vista. Educare vuol dire, prima di tutto, scommettere su di loro e, secondo, rischiare, perché tu non sai mai che strada faranno: inizi con un numero, non sai come va a finire. Raccontavo prima alla Emma che abbiamo finito quest’anno il primo corso triennale, tutti diplomati bene, tutti contenti. Abbiamo trovato sette posti di lavoro e alcuni hanno risposto: no, noi d’estate non lavoriamo, vogliamo andare in vacanza. Quando torneremo ne parleremo. E lì inizi a dirti: forse abbiamo sbagliato qualcosina. Però, in realtà, anche questo fa parte del gioco, è proprio uno scommettere: perché noi quei sette li riprenderemo tutti a settembre e con loro inizieremo un cammino, di nuovo, sul mondo del lavoro. Perché quando uno educa, deve anche capire benissimo che il risultato non potrà mai prevederlo prima. E’ una scommessa continua. Soprattutto, l’esito tu non lo conosci fino alla fine. Però è il nostro lavoro, è quello che ci interessa di più.
Creare loro delle occasioni. Noi abbiamo iniziato e la prima cosa che io ho studiato era stato il modello dei tossicodipendenti di Cuccioli. Mi aveva colpito molto il modello di Muccioli rispetto al fatto dell’eccellenza, che certe persone, messe in un certo contesto, possono dare un risultato quasi unico. Oggi come oggi, i prodotti che fa Muccioli sono unici rispetto al mondo. E quindi, il primo lavoro nostro è stato di andare a cercare dei professori capaci di dare a loro questo tipo di desiderio. Non uno chef normale, ma uno chef che avesse un’esperienza stellata, da un punto di vista Michelin, o altri che potesse tramandare questa cosa ai ragazzi. E’ stato un modello che ha molto colpito la gente, perché tutti pensano che per un certo tipo di ragazzo vada un certo tipo di insegnante. Invece no. Il fattore di aiutarli col vedere una passione cambia anche il loro desidero. La seconda cosa è stata – essendo noi un centro di formazione professionale legato al lavoro – il dialogo con gli imprenditori. Avevamo questa grande eredità di Emilia, che aveva una passione enorme per l’umano, e quindi andava a parlare con gli imprenditori, cercava di farli partecipi della esperienza, chiedeva che fossero loro maestri. E così abbiamo continuato, tanto che a un certo punto, un giorno, un imprenditore ci disse: “Guardi, voi ci chiedete di educare i ragazzi, ma chi educa me?”. Da lì siamo partiti a fare un incontro bimestrale con tutti gli imprenditori in Brianza che, ripeto, sono gente che normalmente il tempo lo conteggiano in maniera molto particolare. Eppure ogni volta eravamo 10, 15 in più, tanto che ormai non riusciamo neanche più a farlo a cena, perché siamo diventati più di 100 e dobbiamo farlo in modo costante, separatamente per i vari settori. Da lì nasce un dialogo bello, perché capisci che è una grande fortuna per il ragazzo trovare qualcuno che gli vuole bene. Perché cambia completamente.
C’è nel libro un piccolo episodio che avevo raccontato alla Emma, di un ragazzo che faceva il carrozziere, perché noi abbiamo il triennale come formazione professionale, più altri piccoli corsi, legati sempre alla formazione, anche nell’ambito carrozziere o elettrico. E questo ragazzo, vestito di tutto punto, molto elegante, va in carrozzeria il primo giorno di lavoro. Gli dicono: lucida la macchina. Peccato che avesse una fibbia di quelle che hanno adesso, e lucidando aveva fatto completamente rigato tutta la fiancata. Questo imprenditore l’ha mandato a quel paese: “Vattene, non ti voglio più vedere”. Il nostro responsabile dell’ inserimento lavorativo ha detto: “Vabbè, questo imprenditore ce lo siamo giocato, mandiamogli un bel mazzo di fiori, ringraziamolo”. Lui il giorno dopo è tornato e fa: “Ne voglio un altro. Voglio lo stesso, per vedere se continua, e poi ne voglio un altro”. Io gli ho chiesto: “Ma perché, qual è la ragione?”. E lui fa: “Perché ho capito che educando lui ho educato me”. Ecco cos’è il valore del lavoro. Ecco, questi – come dice Diego – sono miracoli, perché il nostro lavoro ci porta a questo, che ci colpisce: perché poi questo ragazzo non ha fatto il carrozziere, posso confermarlo. Però, il fatto che qualcuno gli abbia dato una seconda possibilità e l’abbia valorizzato, ha permesso a noi di fargli fare un cammino per lui, personalizzato, aiutarlo ad inserirsi nel mondo del lavoro.
Ecco, credo che davvero dobbiamo ringraziare moltissimo l’operato della Regione in questi anni, perché i numeri sono chiari, spesso vengono letti in modo trascurato e si pensa che la formazione professionale, o comunque l’area del disagio, sia una piccola parte. A volte si scambia addirittura con la tossicodipendenza o altre cose del genere. In realtà il disagio è forte, perché l’abbandono scolastico è pesantissimo, in Lombardia come in altre regioni. Di queste persone ce ne sono tante: la possibilità che ci viene data di aiutarli non è banale, anzi, è unica. E’ unica perché veramente fa sì che dei ragazzi considerati bisognosi d’aiuto, in questo modo vengono cercati. Concludo dicendo che l’altra cosa che colpisce della formazione professionale è che in alcuni ambiti, come i tornitori, ad esempio, questi ragazzi sono molto, molto più richiesti. Un ragazzo che viene fuori dalla formazione professionale inizia ad avere tre, quattro, cinque proposte di lavoro. E uno che per anni è stato bistrattato – normalmente veniva messo fuori dalla classe perché era colui che disturbava -, a un certo punto è protagonista, viene ricercato, chiamato. E’ lui che fa, che opera. E’ lui che può decidere. E’ una cosa che, se capita a me, mi rende orgoglioso. Se tre, quattro persone ti offrono un lavoro, io dico: beh, insomma, proprio stupido non sono. Ecco, pensate ad un ragazzo di 17 anni che viene messo in questa condizione unica e, secondo me, bellissima. Per questo io ringrazio veramente chi ha operato in tal senso e mi auguro possa continuare.

MODERATORE:
Grazie a Vignali che ci ha raccontato l’esperienza di In-presa. Se tutto ciò che hanno raccontato è stato possibile, lo si deve, prima di tutto, all’assistenza che dal cielo ci dà Marino Bassi che – ricordo – è stato iniziatore della partita. E poi mi verrebbe da dire che però Roberto Albonetti non è il direttore generale dell’assessorato alla pesca – nel senso che qui è stato fatto un tracciato di reti capaci di rispondere ai bisogni -, ma di un assessorato che si chiama istruzione, formazione e lavoro. Una risposta ai bisogni migliore di quello che normalmente è il ministero del welfare o l’assessorato al welfare. Credo che qui stia, non il miracolo, ma l’aver saputo guardare la realtà in modo tale da impostare il lavoro in questo settore, ed adeguarlo a quelli che hanno bisogni nuovi. Credo che su questo vorremmo ascoltarti, per capire come hai seguito l’evolversi della situazione insieme ai tuoi collaboratori.

ROBERTO ALBONETTI:
Dunque, io credo che il punto di partenza sia stato considerare che comunque quella risposta a un bisogno, che è stata più volte rievocata, è comunque la risposta ad una persona che è unica, nel suo desiderio e nella sua necessità. Per cui abbiamo iniziato a considerare esattamente così l’istruzione, la formazione e il lavoro, come un’unica risposta al bisogno unico di un’unica persona, non più come competenze e funzioni separate. Ho letto in questi giorni – d’estate si dice tanto, chiacchiere utili e meno – che c’è chi dice che l’educazione non abbia una funzione sociale. Noi in Lombardia pensiamo esattamente l’opposto e l’opposto abbiamo fatto. Non sono io che devo dirlo, deve parlare chi concretamente fa: i nuovi centri di formazione, gli amici che hanno parlato fin qui e che sono presenti in sala. E’ esattamente l’opposto, questo è stato il punto di partenza.
Noi avevamo tre deleghe completamente separate. Le due leggi, la legge 22 di riforma del mercato del lavoro e la legge 19 di riforma d’istruzione – fra l’altro, impugnata dal precedente governo e non ancora ritirata dall’attuale, lo dico all’assessore in modo che magari possa parlare col ministro – avevano esattamente questo compito, unificare le competenze e dare una risposta unica, secondo un principio di amministrazione sussidiaria. E’ il compito che a noi ha affidato il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni, l’assessore, la Giunta, il segretario generale, quello di valorizzare le relazioni sociali che esistono. Il nostro compito non è omologare la risposta al bisogno. Come Regione, non credo che noi saremmo capaci di fare qualcosa di meglio rispetto a quello che avete sentito qui, oggi. Non siamo noi che possiamo inventarci una risposta possibile ad un bisogno diversificato sul territorio. Non siamo certamente noi che possiamo identificare i percorsi più giusti per rispondere alle cose che abbiamo ascoltato. Noi però possiamo fare una cosa, come ente di governo. Valorizzare le relazioni sociali tra soggetti. Valorizzare le relazioni sociali che poi generano corpi intermedi, i centri di formazione, l’agenzia formativa, le scuole private. Questo è il nostro compito. Con la legge 22 e con la legge 19, noi abbiamo fatto esattamente questo. Cioè, abbiamo detto e dichiarato a tutti che fuori dai nostri palazzi c’erano già le risposte ai bisogni della società lombarda. Abbiamo detto di andarle a cercare lì.
Io sono molto grato a Emma Neri per il lavoro che ha fatto, perché ha dato evidenza alla storia che in questi anni si è sviluppata in Regione Lombardia. E credo sia un dato importante. L’altra considerazione che va fatta è che, anche dal punto di vista dell’utilizzo delle risorse, abbiamo fatto una scommessa che va esattamente in questa direzione, che è esattamente la declinazione di quello che ho appena detto. Cioè, noi abbiamo spostato le risorse direttamente sulle persone. Abbiamo fatto in modo che la libertà di scelta da parte delle singole persone, da parte degli studenti, delle famiglie, fosse una libertà di scelta effettiva. Cioè che potessero effettivamente scegliere qual era l’agenzia formativa, la scuola, il centro dove andare, qual era l’offerta che meglio rispondeva al bisogno del ragazzo. Perché la Regione Lombardia è una terra ricchissima di formazione professionale. Ci sono strutture formative che sono eccellenze a livello europeo, assolutamente delle eccellenze. Noi non abbiamo chiesto loro di fermarsi ma di riattivarsi in questo percorso, di fare in modo che la libertà di scelta, da parte dei singoli, fosse sempre più effettiva e reale. In concreto, le risorse non vengono più date agli enti ma direttamente alle persone. La dote scuola, la dote formazione e la dote lavoro sono risorse e servizi che vengono dati direttamente alle persone. Oggi, in Lombardia, un ragazzo che vuole frequentare un percorso di istruzione e formazione professionale ha una dote di 4500 euro per scegliere il centro, 2500 se il centro è pubblico, perché lì come Regione sosteniamo già un costo rispetto al personale. Badate che questo costo di 4500 euro è infinitamente più basso di quello che è il costo dello Stato che ammonta a 7480 euro, a parità di condizioni, a parità di percorsi. Lascio stare la valutazione degli effetti, l’avete sentito e potete valutarlo voi. Come dico sempre, andate a vedere quello che fanno, valutatelo. La valutazione è un fatto importante, però deve essere finalizzata a percorsi e obiettivi molto chiari, o meglio, a risultati chiari, perché gli obiettivi sono capaci tutti di darseli. 4500 euro rispetto a 7480: se la competenza su questo segmento fosse regionale e non statale, lo Stato ci guadagna o ci perde? Non parlo solo del punto di vista economico ma del raggiungimento degli obiettivi di apprendimento dei ragazzi: allora, ci guadagna o ci perde? Secondo me ci guadagna, ma anche di molto. I tagli del triennale nella prossima manovra finanziaria sono un’assurdità o sono giusti? Secondo me non sono una assurdità, anzi. Se fosse applicato un modello federale come quello che stiamo applicando in Regione Lombardia, probabilmente – adesso guardo Sanese – forse sapremmo tagliare ancora di più. E non credo di sbagliare, anche perché i conti li facciamo anche noi, come tutti. Questo è il modello che abbiamo impostato in Regione Lombardia.
Siamo di fronte a un punto di svolta, e cerco di rispondere anche all’ultima provocazione di Jacopo. O riusciamo effettivamente a fare un passaggio come quello del 119, per cui col federalismo viene riconosciuta competenza piena a Regione Lombardia, e quindi avviene il trasferimento delle risorse, secondo il costo storico delle prestazioni effettivamente rese, o altrimenti questo percorso rischia di essere difficile, molto oneroso. Noi siamo partiti con 570 ragazzi che facevano i percorsi di istruzione e formazione professionale, oggi, con le ultime entrate, sono 40.000. Fuori dalla porta ne abbiamo altri 30.000 che attendono. Quindi, abbiamo un potenziale di 70.000 ragazzi che non frequentano più la scuola ordinaria, i percorsi liceali, o i percorsi professionali, e vengono all’istruzione professionale. Il travaso di risorse, secondo il costo che avevamo definito e che applichiamo agli enti, non avviene dallo Stato alla Regione. La Regione Lombardia fa fronte con risorse proprie a questo tipo di esigenza. La Giunta Formigoni investe 100 milioni di euro sull’istruzione e formazione professionale e 55 milioni di euro sui buoni scuola: questi sono numeri. Lo Stato non sostiene più questo costo, perché questi ragazzi non sono più lì, sono passati di qua. E il fatto che siano passati di qua non viene riconosciuta. Quindi, il passaggio al 116 è fondamentale.
L’altra cosa che volevo sottolineare, e che emerge dalle testimonianze di oggi, è questa. Noi non ci facciamo carico soltanto dei ragazzi della Riforma lombarda. Noi cerchiamo di farci carico di ogni ragazzo della Riforma. Da qui discende un principio interessante, che va a modificare un po’ tutta l’impostazione dell’amministrazione pubblica. Nel senso che il farsi carico di quelle che sono le singole esigenze, i bisogni della persona che non ha mai un bisogno indefinito e definito, ma è assolutamente mutevole, fa sì che anche il tuo modo di agire, il tuo modo di lavorare, inevitabilmente si modifichi continuamente, cambi, perché si rapporta di continuo a quelli che sono i cambiamenti che i ragazzi, le famiglie, il tessuto sociale della Regione Lombardia – una Regione estremamente dinamica – inevitabilmente richiedono. Questo è un altro elemento molto interessante, uno degli elementi che veramente sta cambiando non solo l’offerta in Lombardia. Tenete presente che la 19 dice esattamente che l’istruzione in Lombardia è considerata da un punto di vista unitario, quindi per noi i percorsi liceali, la formazione professionale, l’istruzione e la formazione professionale fanno parte esattamente dallo stesso sistema, non sono cose diverse; che i percorsi d’inserimento lavorativo, la presa in carico delle persone, si ricongiungono in questo sistema. Credo che qualcuno nella sala a fianco alla nostra stia parlando di politiche attive e di politiche passive. Stanno chiedendosi come dare le risorse direttamente agli enti bilaterali o alle aziende, per toglierle a chi le ha, le persone.
Ecco, noi diciamo una cosa diversa, di andare direttamente sulla persona e consentirle, anche nel mondo del lavoro, di fare la verifica di un inserimento lavorativo. La premialità che noi riconosciamo agli enti rispetto agli inserimenti lavorativi evita il rischio che poi, alla fine, nessuno vada a verificare se l’inserimento lavorativo c’e stato, se è reale. Abbiamo fatto i conti, alla Provincia un inserimento lavorativo costava esattamente 47.000 euro l’anno, forse era un po’ troppo. La dote ha la possibilità di essere modulata esattamente, di rispondere letteralmente a questo tipo di esigenza. L’altro elemento che voglio evidenziare, è che il lavoro di costruzione dei percorsi lavorativi è stato fatto effettivamente con il concorso di tutti, nel senso che siamo arrivati alla formulazione di queste due leggi partendo comunque da una sperimentazione. Tutte le nostre azioni partono da questo, da una presa d’atto di quello che c’e, da una valorizzazione di ciò che esiste, da una sperimentazione sul campo, da una valutazione degli esiti di quello che è stato realizzato. E questo produce un atto normativo che ha esattamente la caratteristica che vi dicevo, non sono mai norme di dettaglio ma di principio. E il continuo coinvolgimento dei soggetti, delle persone, ci consente, da un punto di vista normativo, di modificare i percorsi e anche l’inizio dell’anno scolastico.
Ho letto in questi giorni sui giornali alcune critiche sul fatto che la Lombardia inizia la scuola l’8 di settembre. Non è che una mattina io sono arrivato in assessorato stanco del viaggio, sono andato da Rossoni e gli ho detto: iniziamo la scuola l’8 di settembre. E’ stato anche questo un momento di concertazione, di confronto con le famiglie, con i ragazzi, con gli insegnanti. Valutando i tempi della famiglia e il fatto che Regione Lombardia ha fatto la scelta d’investire sul prossimo triennio 30 milioni di euro sui percorsi, le cosiddette Summer School, che sono percorsi di apprendimento di competenze fondamentali, fatte al termine dell’anno scolastico oppure durante i periodi dell’anno, durante le vacanze di Pasqua o di Natale. Da lì un’esigenza che nasce, si modifica, in un confronto reale con le esigenze dei ragazzi, delle famiglie, di un territorio, dell’impresa.

MODERATORE:
Vorrei ringraziare tutti per il contributo che hanno dato, perchè credo che l’incontro sia stato una buona esemplificazione di quanto è contenuto nel libro. Ovvio che adesso sarà cresciuto l’interesse di leggere direttamente il testo che Emma Neri ha steso. Un’ultima notazione da frequentatore di dibattiti: la scarsissima mobilità che c’e stata in sala e l’interesse sui vostri volti, nel seguire le cose che venivano dette, i passaggi legislativi, tecnici e amministrativi, non propriamente semplicissime per chi non è del settore, è la migliore riprova dell’interesse, dell’importanza di questo libro. Grazie a tutti.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

25 Agosto 2008

Ora

15:00

Edizione

2008

Luogo

Sala Mimosa B6
Categoria
Incontri