IMPRENDITORI ED EDUCATORI

Partecipano: Fabio Braida, Titolare di Motorlandia4; Giacomo Castiglioni, Presidente Univercomo; Massimo Giammatteo, Titolare di GM; Franco Curletto, Hair Stylist. Introduce Bernhard Scholz, Presidente Compagnia delle Opere.

 

BERNHARD SCHOLZ:
Buonasera, chiedo scusa per il lieve ritardo, ma non abbiamo neanche sfiorato il quarto d’ora accademico, perché questo è un incontro accademico, è un incontro fra imprenditori e quindi mi permetto subito di togliere la cravatta perché vi giuro, non ne posso più con questo caldo immenso. Dall’altra parte sta parlando il Ministro delle Finanze, parla anche sul nostro destino, speriamo che sia costruttivo. Allora questo incontro “imprenditori ed educatori”, è nato da vari incontri che ho fatto proprio nell’ultimo anno, con imprenditori che si sono impegnati a dare a dei giovani nelle loro aziende la possibilità di lavorare. Dei giovani che sono stati accolti da nostre opere, per dare loro una possibilità di superare il disagio che hanno subito per diverse ragioni, sicuramente non per colpa loro. E’ questa gratuità di un imprenditore di accogliere dentro la propria impresa e dando la possibilità di lavoro a qualcuno che per diverse ragioni non ha avuto possibilità, le chance che altri hanno avuto, mi sembrava una cosa grandiosa. Quindi ho proposto di fare questo incontro chiedendo ai quattro imprenditori: Giammatteo, Castiglioni, Braida e Curletto di raccontare la loro esperienza. Ognuno di loro lavora con un’altra opera nostra. Per non farvi perdere tempo e soprattutto per non far perdere tempo anche a loro, ho chiesto di presentare loro se stessi, raccontando della propria impresa e dell’opera con la quale stanno lavorando, perché alcune le conoscete, altre non le conoscete. Quindi io passo subito la parola a Massimo Giammatteo, che lavora a Busto Arsizio con l’ASLAN. Grazie.

MASSIMO GIAMMATTEO:
Buongiorno a tutti. Allora come ha detto Bernhard, io mi chiamo Massimo Giammatteo, ho 54 anni, sono artigiano di una piccola azienda nella provincia di Varese. La nostra azienda lavora nel settore dei servizi, nello specifico nell’inserimento della climatizzazione dell’aria. Nella nostra azienda lavorano 12 persone fra titolari, amministrativi e tecnici. Siamo soci dal 1995 con la Compagnia delle Opere, all’inizio il nostro rapporto era mirato solo alle convenzioni e alle offerte, ma, con il passare degli anni, è iniziato con Marco Magni un rapporto più personale e più profondo, che andava oltre le pure convenzioni. Ho avuto la possibilità di capire cosa è la Cdo, partecipando ai numerosi incontri organizzati, l’assemblea e i raggi. Durante un raggio si parlava del fabbisogno, per molte aziende, di personale specializzato e la difficoltà a reperire sul mercato queste figure professionali. Vicino a me c’era l’immancabile Marco, al quale facevo presente che quello di cui si parlava rispecchiava la mia situazione, con l’aggravante che nel nostro settore non esistono scuole tecniche per diventare frigoristi. La nostra è una professione ancora non riconosciuta ma molto richiesta nel mercato negli ultimi anni, ma non ci sono queste figure professionali. Per formare un buon tecnico frigorista servono almeno cinque anni, perché è una professione abbastanza complessa, in cui bisogna avere conoscenze in campo elettrico, elettronico, meccanico, idraulico, chimico, fisico e bisogna conoscere la termodinamica, non esistono scuole attualmente per questa professione. Marco, dopo avermi ascoltato, mi disse di parlare con Angelo Candiani, che è l’attuale presidente della Compagnia delle Opere altomilanese e il Presidente di ASLAN, una scuola formazione lavoro. Mi fissa un incontro con Angelo, durante il quale spiego la mia situazione, le mie ambizioni, le difficoltà del nostro settore e le opportunità che questo può offrire nel mercato. Al termine di questa chiacchierata, Angelo mi chiede di stendere una bozza inerente a un percorso formativo indirizzato al mio settore e di fargliela avere. A distanza di circa un anno, Angelo mi chiama e mi dice che la Ragione Lombardia aveva accettato di finanziare un corso per frigoristi, quindi di prepararmi. La cosa mi provocò molta incertezza, un conto è dire le cose, un conto farle. Non nascondo la titubanza, le paure che mi assalivano giorno dopo giorno, ma affrontare questa esperienza era molto più forte, così iniziai questa avventura. Il primo anno, superate le difficoltà organizzative con l’aiuto di un tutor speciale, Giuliano Ranzato, che, oltre ad avere e seguire gli allievi, ha dovuto insegnarmi tutto su quel mondo che io non conoscevo. Io ho sempre fatto l’imprenditore, non ho mai fatto il docente, ero completamente un pesciolino fuor d’acqua. Fu un anno molto importante questo, perché imparai cosa comportava fare il docente, preparare le lezioni, la documentazione, riuscire a trasmettere agli altri le nozioni che per me erano la base, ma che per gli altri erano cose completamente sconosciute, concetti totalmente nuovi. Fu un anno molto intenso e proficuo, anche perché gli allievi a cui erano dedicate queste persone erano tutte persone adulte, disoccupati oppure persone in mobilità, in cerca di una nuova collocazione, con un fabbisogno alla base che incideva in modo preponderante sul loro apprendimento. Mi colpì molto il loro impegno, il loro desiderio di riqualificarsi, le loro faccende personali, il nuovo modo di affrontare la situazione in cui si trovavano. In questo corso c’era un padre di famiglia con gravi difficoltà, che cercava di dare una nuova svolta alla sua situazione, avendo il coraggio e l’umiltà di rimettersi in gioco, di reagire a quanto gli era successo. Loro non erano la reale causa, ma solo delle vittime. Davanti a questo ho capito che avevo un dovere nei loro confronti, dovevo dare il meglio di me stesso per offrire loro un’opportunità, per loro poteva dire riconquistare una dignità. Tutto questo senza però trascurare la mia piccola azienda, che già mi impegnava in modo abbastanza preponderante. Durante questo corso si è creata anche la possibilità per gli allievi di fare degli stage presso le aziende del settore. Il problema era come interessarli a questa iniziativa, iniziai a segnalare personalmente il nominativo di alcune aziende del settore che conoscevo e con alcune di queste a impegnarmi direttamente per raggiungere lo scopo. Non è stato molto facile per me. Egoisticamente avevo messo dell’impegno per cercare di formare queste persone, in loro vedevo delle opportunità, non avevo la possibilità di esaudire tutte le loro aspettative. Li offrivo ai miei concorrenti, i quali avevano le mie stesse esigenze, dando loro la possibilità di avere nuovo personale, nonostante questo li avesse resi ancora più competitivi, automaticamente dei miei concorrenti più forti. Dopo varie riflessioni arrivai a capire che quello che stavo facendo non era solo per me, e soprattutto le necessità di queste persone andavano molto più in là del mio fabbisogno e del mio egoismo. Le aziende contattate hanno accolto la nostra iniziativa in modo molto favorevole, e alcune di queste, dopo l’esperienza, hanno assunto le persone che gli erano state proposte. E’ stata molto dura, tutto questo ha richiesto molti sacrifici, ma fatti molto volentieri. Addirittura i miei collaboratori mi hanno aiutato in questa impresa, mi hanno affiancato preparando con me i materiali didattici, i materiali tecnici per la scuola, affrontando con me i temi e i problemi che dovevamo sviluppare, mostrando anche loro un certo interesse in questa operazione, cercando addirittura di imparare o confermare le loro conoscenze per avere una maggiore consapevolezza e diventare sempre più bravi e diventare sempre più autonomi. Per me fu un’esperienza molto forte questa, che mi ha ridato una consapevolezza e una certezza nelle mie persone che non si era mai verificata prima. Quando mi fu proposto di ripetere l’esperienza, mi resi subito disponibile. Mi sentivo ormai preparato e quindi in grado di affrontare un nuovo impegno, soprattutto è nato in me un desiderio, quello di trasmettere il mio lavoro a tutti quelli che l’avessero voluto imparare. L’anno successivo, contrariamente a quanto pensavo, pensavo di essere già bravo, è stato un anno più difficile, perché il corso era stato spostato dalle persone adulte, era stato indirizzato a dei ragazzi giovani, ragazzi che uscivano dalla terza media ed era il primo istituto. Questi ragazzi avevano degli interessi e molte cose diversi, quindi era molto più complicato. Subito dalle prime lezioni mi accorsi che sarebbe stato più difficile fare l’insegnante, mi resi conto di non essere preparato ad affrontare una situazione così diversa. Avevo esperienza di lavoro con ragazzi giovani ma non così giovani e soprattutto così tanti e tutti insieme. Non sapevo cosa fare, come comportarmi, quale immagine di me stesso cercare di trasmettere, come affrontare i ragazzi, l’unica cosa che sapevo era che ero lì con un compito ben preciso, di cui in parte ero l’artefice e non potevo arrendermi perché io ci credevo. Dovevo cercare di comunicare a quei ragazzi il piacere di svolgere un lavoro difficile ma molto interessante, con molteplici risvolti sia economici che umani. Dovevo cercare di fare innamorare questi ragazzi a questo lavoro, che personalmente mi ha dato tante soddisfazioni. A complicare ulteriormente la situazione era la disomogeneità di questi ragazzi, con esperienze ed esigenze diverse, la maggior parte con situazioni abbastanza difficili e complesse alle spalle. Ragazzi che arrivavano a questa scuola formazione-lavoro come ultima spiaggia, per cercare di strapparli dalla strada e da quella situazione di sfiducia verso la società, verso gli adulti, verso le istituzioni. Ragazzi che avevano principalmente bisogno soprattutto di trovare se stessi e di essere riappassionati alla vita. Era molto evidente che lo spirito che portava questi ragazzi a scuola non era imparare un mestiere per il futuro, per loro era un parcheggio, in attesa di qualcosa che neanche loro sapevano esattamente. La classe era formata da ragazzi con caratteri molto forti ed esuberanti, quali esprimevano il loro disagio nei modi più disparati e altri più deboli che subivano ogni tipo di angheria che gli veniva imposta. Subito si è presentata la necessità di trovare con loro, instaurare un rapporto, che fosse basato sul rispetto reciproco, alla pari, dove ognuno potesse esprimere le proprie idee e la propria personalità. Ho dovuto guardare la realtà della situazione e lì ho capito che il mio compito principalmente non era insegnargli un mestiere ma accompagnarli in un percorso di crescita nelle loro adolescenza. Ci sono stati numerosi episodi e situazioni molto difficili, con sfide molto importanti, in cui, per non essere sopraffatto da loro, ho dovuto affermare la mia personalità e il mio comando. In particolare ricordo un alunno, Salvatore, un ragazzo di 17 anni molto irrequieto, che per natura era contrario a qualsiasi cosa e voleva essere indipendente. Soprattutto non amava essere comandato, voleva essere lui il solo protagonista della sua vita e tutto doveva ruotare intorno a lui. Un leader. Un giorno cercai di coinvolgerlo in una relazione, normalmente lui si faceva i fatti suoi, era indipendente e mi disse che lui si era iscritto a questa scuola primo perché gli avevano detto che qui non doveva studiare e non doveva fare i compiti, secondo a lui la mia materia non interessava perché l’argomento era troppo difficile e non capiva e terzo che lui un lavoro già lo aveva: andava con suo zio a vendere i panini davanti allo stadio, che era molto più divertente. Con lui è nato un rapporto diverso dagli altri. Mi aveva colpito la sua consapevolezza e la sua rassegnazione, si atteggiava come se fosse il più forte e nascondeva sotto la sua corazza il suo disagio di non sentirsi all’altezza degli altri. Da allora si sono seguite una serie di sfide create per stimolarlo, fino al giorno in cui, dovendo fare una prova scritta, gli dissi che era inutile che gli dessi il questionario, tanto a lui non interessava e poi non avendo seguito le lezioni non avrebbe potuto rispondere alle domande. In quel momento mi guardo negli occhi con uno sguardo di sfida e mi disse “ma sei sicuro che io non so niente? Scommetti che rispondo a quasi tutte le domande?”. Io a quel punto gli diedi il questionario e gli dissi: “Vediamo”. Il compito alla fine andò bene e dopo la correzione mi si avvicinò con la sua solita arroganza e mi disse: “Hai visto?”. E io gli dissi: “Vedi, se tu vuoi puoi fare qualsiasi cosa, guarda cosa hai fatto non stando attento, chissà cosa potresti fare se solo ti impegnassi un po’”. In quel momento ho avuto la certezza che Salvatore avrebbe espresso il meglio di sé, perché doveva dimostrarmi che lui c’era, che lui se voleva ce la poteva fare. Da allora il nostro rapporto è cambiato, è diventato più sincero, si è aperto con me, mi ha dato la possibilità di accompagnarlo. Addirittura durante le mie ore di lezione era lui che faceva il tutor, costringendo i suoi compagni a non fare casino e ad ascoltare. Alla fine dell’anno mi chiese se poteva venire a lavorare da me, ne fui molto contento e diventò un mio ragazzo. Di storie come questa ne ho vissute tante in questi anni, ragazzi difficili in classe che non accettano le regole, che vogliono imporre il loro modo di essere quando sono in branco, ma presi singolarmente sono delle persone che hanno un senso di responsabilità. Come avevo già detto e già accennato all’inizio, questi ragazzi nel loro percorso formativo devono seguire degli stage lavorativi. Essendo molto vivaci si è sempre temuto che il modo di essere fosse un ostacolo all’inserimento nelle varie aziende, per cui ogni stage veniva vissuto con una certa apprensione. Personalmente io ospito i ragazzi in stage, normalmente i più turbolenti, e tutte le volte rimango felicemente sorpreso. Vi posso garantire che nell’ambito lavorativo si trasformano questi ragazzi, sono completamente diversi, puntuali, disponibili, vedi proprio che hanno un desiderio, quello di farsi apprezzare e di dare tutto quello che hanno, spesso è molto di più di quello che hanno dimostrato a scuola. La loro arroganza sparisce, vivono il lavoro senza protestare, soprattutto senza creare situazioni difficili, cosa che in classe era all’ordine del minuto. Personalmente ho avuto possibilità di vederli anche fuori dalla mia azienda, luogo dove si poteva pensare che il loro comportamento fosse anche di rispetto nei miei confronti, e anche qui sono stato estremamente orgoglioso di loro. Un giorno per lavoro sono andato presso un installatore amico, il quale ospitava un nostro ragazzo per eseguire un collaudo. In questo cantiere trovo Giuseppe, un ragazzo di indubbie qualità ma molto irrequieto e contestatore, non gli andava mai bene niente. Lo saluto, scambiamo quattro parole e dopo poco arriva il responsabile dell’azienda, mi saluta e si rivolge a lui spiegandogli molto sinteticamente che cosa doveva fare. Lui ascolta attentamente, chiede due delucidazioni e poi mi saluta, dicendo che doveva andare a finire un lavoro. Chiedo al responsabile della ditta, dell’azienda, come si comportava e cosa ne pensava; mi guarda e mi dice “averne ragazzi così! Molto bravo, attento nel suo lavoro, preciso e responsabile”. Chiedo ancora altre informazioni, gli chiedo cosa ne pensa di questo ragazzo e in ogni sua risposta si evidenzia la stima per questo ragazzo, alla fine gli chiedo se avesse avuto il desiderio di assumerlo alla fine della scuola e lui mi dice che se lui lo voleva, sarebbe stato sicuramente ben accetto. Finito il mio lavoro, cerco Giuseppe, gli faccio i complimenti e poi gli dico che sono orgoglioso di lui, però mi chiedevo perché quando era in classe non si comportava così come si comportava sul lavoro e lui di tutto punto mi dice: “In classe è una cosa, ma sul posto di lavoro è tutto diverso”. Ho avuto esperienze di questo tipo più volte, con più persone, con situazioni molto diverse tra loro, ma riconducibili tutte a un bisogno. Questi ragazzi difficili principalmente hanno bisogno di qualcuno che gli tenda una mano e li aiuti a crescere. Per la nostra società è molto difficile crescere, mancano dei punti di riferimento, tutti i giorni, soprattutto i ragazzi, sono bombardati dalla televisione che gli mostra il lato peggiore della nostra umanità, riporta solo esempi negativi, che vengono soprattutto da chi dovrebbe essere un esempio da seguire. Loro si sentono disorientati, l’educazione purtroppo non è quella che abbiamo avuto noi, dove innanzitutto c’era il dovere e poi c’era il piacere, i genitori di oggi spesso nemmeno conoscono i loro figli e quando glielo fai presente si nascondono dentro l’ipocrisia del lavoro che rincorre un benessere economico per la famiglia, ma la famiglia dove è? Quale è il senso della famiglia? Ma la cosa stupenda è che loro non sono quello che vogliono dare a vedere, sono molto di più, al momento opportuno sono in grado di essere persone a cui non manca niente, hanno solo bisogno di una grande iniezione di fiducia che li accompagni nella loro crescita. Questa esperienza mi aiuta molto a crescere e a migliorarmi, mi dà l’opportunità di conoscere i giovani, i loro problemi, le loro aspettative e di poter riflettere sul mio e sul loro percorso formativo. Pensate che un paio di anni fa mi sono trovato in una situazione difficile, perché avevo scelto di insegnare all’ASLAN, avevo ritenuto più importante dedicarmi alla mia azienda che alla mia scuola, soprattutto perché ero un po’ avvilito dall’esito scolastico dell’anno precedente. Credetemi, è stato per me l’anno peggiore, perché mi sono mancati i ragazzi, il loro modo di essere, con tutti i loro difetti; anche quando mi esasperavano, mi mancavano quelle cose che mi avevano portato a fare quella scelta. Mi sono meravigliato di dover ammettere questo, perché dicevo sempre basta, però quando mi sono fermato mi è mancato moltissimo. L’anno seguente mi sono rimesso in gioco. Le difficoltà oggettive dell’azienda sono rimaste, però ho creato un piccolo spazio anche per questa cosa, perché era troppo importante e meritava di essere continuata. Questa esperienza che vivo dal 2000 mi ha insegnato ad avere più fiducia negli altri, ad essere più tollerante e a mettermi sempre più in gioco, non avere paura del futuro, ma viverlo e soprattutto farlo da protagonista. Anche nella nostra azienda sono cambiate molte cose: ho cambiato il rapporto con i miei collaboratori, ho imparato a porre in primo piano la persona e poi il lavoro, ad ascoltare le persone e a cercare di capire che cosa mi vogliono dire, quali sono le loro difficoltà e soprattutto ho imparato a fare autocritica sul mio operato. Ho imparato a dare senza chiedere niente in cambio. Una volta avevo molte pretese, misuravo le persone solo dai risultati che ottenevano, e solo se erano come le volevo io. Oggi vivo di quello che riusciamo a costruire insieme, cerco di creare un gruppo di persone che abbiano un obbiettivo comune: stare bene insieme. A titolo di cronaca, nel mio gruppo ci sono due ragazzi che sono stati miei alunni e oggi sono dei protagonisti. Grazie.

BERNHARD SCHOLZ:
Quale immagine di me devo trasmettere, rispetto alla tua domanda di essere te stesso, essere te stesso fino al livello di autenticità che tu ci hai indicato. Quindi ti ringrazio e passo la parola a Giacomo Castiglioni.

GIACOMO CASTIGLIONI:
Sono Giacomo Castiglioni faccio il falegname, quello di cui vorrei parlarvi è la storia di un incontro che mi ha segnato. A Como c’erano due famiglie borghesi che vivevano bene, in una bella casa, avevano le loro belle famiglie ed un giorno fanno un incontro, siamo alla fine degli anni ’80, un incontro con un prete che si chiama don Giussani e questo incontro cambia l’orizzonte della loro vita. All’inizio si chiedono: è sufficiente avere la nostra famiglia? E la casa si allarga con degli affidi e delle adozioni e poi ci si guarda attorno, ci sono dei ragazzi che hanno bisogno di essere aiutati dopo la scuola e si apre la casa a questi ragazzi. Si apre la casa, arrivano questi i volontari e poi ci sono dei ragazzi che vorrebbero fare dello sport e per aiutarli si costituisce un gruppo sportivo e così via. Oggi a distanza di qualche anno sono più di 100 i volontari e alle due famiglie se ne sono aggregate altre due e fra affido etc., ci sono 50 persone che vivono insieme. Questa è in brevissima sintesi la storia di Cometa. Il contesto è quello della Brianza comasco-milanese, grande tradizione artigianale industriale, tradizione molto artigianale nel tessile e qui torno molto indietro nel tempo, perché le prime filande risalgono a Maria Teresa e, per quanto riguarda il legno, le prime botteghe artigianali risalgono a metà dell’Ottocento. Grande dinamica, grande storia imprenditoriale, grande qualità di prodotto, però le botteghe negli ultimi anni diminuiscono, ci sono diversi problemi, in particolar modo c’è il problema della formazione. Gli imprenditori avevano pensato a questo tema e avevano organizzato delle scuole. Per quanto riguarda il tessile c’è una scuola specifica che è il “setificio”, a Como, per quanto riguarda l’area linea-arredo ci sono delle scuole a Cantù, ma i numeri degli ultimi 10 anni sono ridotti drasticamente, prima c’erano numerosissime sezioni, adesso c’è una, due sezioni al massimo. C’è questa crisi di vocazione manifatturiera, d’altro canto nelle nostre case i messaggi che sono arrivati dai cosiddetti esperti sono: basta manifatturiero, guardiamo cosa fanno negli Stati Uniti, cosa fanno in Inghilterra, noi siamo ancora al 30%, negli Stati Uniti il manifatturiero è al 18%, bisogna andare sui servizi, sulla finanza. I miei colleghi in Confindustria mi dicevano: ma tu fai ancora il manifatturiero e io mi sentivo un po’ – scusate – pirla, nel senso che io facevo ancora il manifatturiero. Li ho incontrati recentemente e sono meno abbronzati dell’anno scorso. Quindi il problema formativo, da un lato le aziende con questa crisi di persone, quindi le aziende hanno difficoltà, dall’altro lato una alta percentuale di abbandono scolastico. Oggi c’è stato una interessante conferenza col ministro Gelmini, condotta dal nostro presidente. Veniva fuori l’abbandono scolastico, si parlava di criminalità, mafia etc., etc., sembra strano, ma nella provincia di Como, nella provincia di Bergamo la percentuale degli abbandoni scolastici è tra le più alte d’Italia, siamo oltre il 25%. Allora uno si chiede cosa fanno questi ragazzi, smettono o non arrivano a fare la terza media oppure fan la prima superiore e poi vengono emarginati. Cosa fanno? Vanno a creare un possibile mondo di disagio per il futuro, non possono andare a lavorare, sono in giro. L’intuizione di Cometa coglie questo fabbisogno, questa necessità. Coglie questa necessità che risponde ad un invito di Giussani, mi dicono, perché io non c’ero, perché in Cometa sono arrivato pochi anni fa. I fondatori mi dicono che don Giussani aveva detto : “Si, bene, bisogna costruire la città nella città”. Cometa è posta sulla collina ed è emblematica anche questa posizione, quasi fosse faro, luce per il territorio e da lì partono tante idee, sono partite tante idee. Ma faccio il caso mio personale, io non conoscevo ancora Cometa, se non per sentito dire, un giorno arriva Paolo e mi dice: parla con l’addetto al personale perché vorremmo fare degli stage, per cui se ci date una mano… Colombo che si occupa di formazione me ne parla, e cominciamo. D’altro canto, occupandomi di scuola e di università in Confindustria, non potevo dire di no e dare il cattivo esempio. Per cui cominciammo. Arrivano dei ragazzi e all’inizio ero un po’ perplesso, anellini sul naso, sulle orecchie, capelli che arrivavano alle scapole, vestiti un po’ zingareschi, comunque proviamo. La cosa comincia, poi vedo che Paolo gli sta addosso tutto il giorno, se uno arriva in ritardo, il giorno dopo lo va a prendere, lo porta a scuola, perché magari ha rotto il motorino, pranza con lui, va in Cometa e quindi questi ragazzi, che erano stati eliminati dalla scuola, hanno la possibilità di fare un’esperienza di stage di lavoro. E così sentendosi qualcuno, alcuni di questi ragazzi dicono: che strana questa cosa, chissà perché quello lì mi sta seguendo direttamente, mi sta seguendo personalmente. Cambia l’atteggiamento nel giro di qualche mese e alla fine dello stage le persone sono diverse. Uno, era il più bislacco, proprio per come si presentava, per i ritardi – questo non sapeva da che parte cominciava il mattino e finiva la sera – alla fine, con questa terapia di Paolo alle costole e del gruppo di vicinanza dice: io sono un decoratore. Aveva trovato nell’assistenza e nel lavoro una ragione di vita.
Un altro ragazzo più recentemente dice: se mi guardo indietro non riconosco più quello che ero. Pinocchio che diventato bambino guarda i vestiti e dice: io ero quello lì. Allora che tipo di scuola, che tipo di esperienza si è maturata? Ve ne racconto due, una a cascata sull’altra. Uno dei due fondatori fa lo stilista, ve l’ho detto, e ad un certo punto nasce un’idea: proviamo a far lavorare i ragazzi, recuperando delle sedie in una azienda che stava chiudendo. L’azienda è chiusa da anni e devono smantellare il capannone e quindi è piena di prototipi di sedie, di modelli di tutti gli stili fatti in tutti i decenni in cui l’azienda è stata attiva. Erasmo, che è uno dei fratelli fondatori, dei fratelli Figini, prende questa opportunità: arrivano queste sedie e si comincia a lavorare. Lavorare vuol dire rinfrescarle, vuol dire cambiargli faccia, vuol dire cambiargli vestito e intanto che fanno questo i ragazzi imparano. Ci sono i maestri, i maestri sono degli artigiani che si dedicano a fare questo lavoro. Per cui gli fanno imparare come si fa a fare il rivestimento con la foglia d’oro, come si fa a fare il trattamento con delle terre per avere i prodotti naturali, come si fa a lucidare con l’olio e non con le vernici, ma con l’olio e la cera. Si fa poi una lotteria per vendere alcuni di questi prodotti. Oggi, alcune decine di questi prodotti sono in una vetrina di Parigi. Allora il ragazzo che è arrivato lì per caso, perché la Provvidenza gli ha fatto incontrare Cometa, che fa un’esperienza di questo genere, come fa a non cambiare? Vede che dalle sue mani sono nate delle cose bellissime, apprezzate, come fa a non cambiare? Qui entra il discorso della manualità. Granelli ha scritto una bella pagina su questo tema, sulla maestria del saper fare. Vi leggo solo due righe: “Il suo fine (dell’artigiano) non si esaurisce nella funzione che svolge e da cui trae sussistenza e prestigio, ma si lega a un’altra caratteristica fondativa della cultura artigiana: la maestria”. Maestria che rimanda a un impulso umano primordiale, il desiderio di svolgere bene un lavoro per se stesso, la passione e la cura per quello che si fa. Tutto ciò richiede naturalmente, dice Granelli, “un tipo di formazione differente. La bottega artigiana rinascimentale era il luogo della collaborazione, dove cioè gli allievi acquisivano la maestria sul campo e diventavano a loro volta maestri”. “Il Vasari” – quindi andiamo su passi significativi, sulla storia del nostro paese – “usando l’espressione andare a bottega, indicava il tirocinio che l’apprendista compiva nella scuola del maestro ma anche il legame che univa maestro e apprendista”. Qual è l’obbiettivo? L’obbiettivo è quello di educare attraverso il lavoro i ragazzi, queste persone, dar loro una possibilità, dargli una chance, fargli capire il senso del lavoro, tirar fuori i talenti da loro. E’ importante, evidentemente, la figura del maestro, come si pone. Oggi, a quella esperienza delle sedie ha fatto seguito, vista questa positiva esperienza, un altro progetto che è ormai decollato, che è la contrada dei mestieri a Como, dove appunto c’è una intera falegnameria, con altre attività collegate ad essa di decorazione, eccetera, che agisce con dei maestri, con degli artigiani, ricreando una bottega artigianale. L’altro giorno, nelle cronache del Giornale ho letto una frase del nostro presidente che dice: “bisogna che ci sia una assunzione di responsabilità da parte di tutti”. Ora qui, anche noi imprenditori non possiamo fare finta e dire: “ah, ma non tocca a noi, tocca allo Stato o tocca all’autorità locale risolvere questi problemi”. Non si può chiaramente risolvere la cosa delegando ancora ad altri. Assunzione di responsabilità, condivido queste parole, significa che anche la classe imprenditoriale, oltre alle iniziative di cui ci ha parlato l’amico, di cui parleranno anche le altre persone un po’ distribuite in diverse parti di Italia, mette a fuoco questi progetti. Quindi agli imprenditori chiediamo di essere partner. Partner appassionati dall’umano, non si può più fare soltanto negozio, non si può più fare soltanto business. Il futuro delle nostre aziende, piccole o grandi che siano, il futuro delle nostre fabbriche passa da lì, dal ricostruire, dal ricreare la bottega che sarà artigianale, sarà industriale ma una bottega dove questo dialogo, questo colloquio ritorni ad esserci. Lo diceva prima l’amico, bisogna ritrovare imprenditori che diventino a loro volta educatori. Credo che la scommessa e la riuscita del futuro passi proprio da lì. Se ci guardiamo indietro, il miracolo economico italiano su che cosa si è basato se non sul bello che veniva ricreato nelle botteghe artigiane e poi nelle industrie del nostro paese? Ecco, io credo che oggi, smentendo chi ci ha parlato negli scorsi anni, perché prima ci hanno detto piccolo è bello, poi ci hanno bisogna crescere, bisogna fare le alleanze, poi ci hanno detto che era ora di smetterla di fare il manifatturiero perché non serviva più. Ecco tralasciamo questi discorsi, guardiamo al futuro, guardiamo la realtà serenamente, con l’impegno da parte di tutti, io credo che si possa ritentare e riprovare a fare un nuovo Rinascimento italiano, contando sulla capacità, come diceva Granelli, su questa maestria, che deve essere trasmessa alle future generazioni, se vogliamo guardare lontano. Grazie.

BERNHARD SCHOLZ:
Ti ringrazio soprattutto perché hai dimostrato che quella responsabilità che occorre assumersi non nasce da una imposizione etica o buonista ma dalla passione per quello che si fa, per quello che si vive. Grazie. La parola a Curletto.

FRANCO CURLETTO:
Buona sera a tutti, io faccio il parrucchiere. E’ difficile raccontare una professione che io ritengo la professione più bella del mondo, perché è una professione che nel momento in cui ti interessa, diventa il tuo motivo, il tuo scopo del quotidiano e anche di vita. Quindi io racconto brevemente un pochino quello che io, nella mia storia, ho fatto in 35 anni di lavoro. Posso dire che l’esperienza che ho avuto è stata veramente un percorso appassionante, che tutti i giorni mi produce l’emozione dell’apprendista. Il luogo di lavoro fino ad oggi forse è stato visto come un luogo di passione, inteso come sofferenza, un posto dove il lavoro è qualcosa che si subisce, mentre io penso che noi dobbiamo trasferire ai nostri collaboratori l’entusiasmo di produrre quello che possa essere veramente la nostra professione. La prima cosa che dobbiamo insegnare al collaboratore è quello di essere interessato ad una missione, e la nostra è quella di essere dei truccatori di professione. I truccatori di professione sono quelli che sono abilitati a toccare e non sono tanti. Quindi vuol dire che nel momento in cui il cliente stabilisce che tu puoi toccargli i capelli, ti dà una fiducia importante. In passato, non facevi il parrucchiere, non andavi bene a scuola e facevi il parrucchiere o facevi la sarta. Oggi non è più così. Noi lavoriamo nella moda, lavoriamo a Milano collezioni, lavoriamo nel fashion week a Parigi, lavoriamo nell’arte. Io ho avuto la fortuna di collaborare con personaggi come Vanessa Beecroft, di cui curo le performance. Seguiamo un paio di case reali, abbiamo una collaborazione di rete ma molto importante con aziende leader come l’Oréal e questo ovviamente produce una necessità di persone che abbiano una grande passione, un talento innato che tante volte viene superato dall’impegno. Perché allora nasce questa collaborazione con Piazza dei mestieri a Torino? Con 35 anni di passato di lavoro, abbiamo avuto dei momenti estremamente oscuri per quanto riguarda il trovare dei collaboratori. E avere un dialogo con un ente che potesse darci delle persone, di cui poter verificare se ci fosse stato del talento o della passione, era per noi importante. La passione nasce da una curiosità, comincia con una curiosità, in cui si innesca poi la passione che ti travolge. La mia è una professione giovane, perché in passato non esisteva il parrucchiere, esisteva solo per qualche casato che si poteva permettere la petineuse, che era la dama di compagnia che pettinava, solitamente. Poi nel ’20 cominciano a vedersi i primi grandi parrucchieri, poi di lì si comincia ad avere una grande distribuzione. Oggi si parla, nel settore, di numeri estremamente significativi, anche rappresentativi di posti di lavoro, perché la categoria assume ancora. Noi creiamo dei posti di lavoro e c’è richiesta, quindi questa collaborazione che è cominciata con Piazza dei mestieri è stata proficua. Conoscendo Cristiana Poggi, le ho espresso la necessità di avere un vivaio, un posto, un osservatorio, dove vedere delle persone che potevano essere degli eventuali potenziali talenti da avviare al lavoro. Comunque noi ci siamo trovati con questa collaborazione, e dopo il primo anno abbiamo già cominciato ad assumere. Io oggi ho delle persone che a distanza di sette anni rappresentano veramente delle leve molto importanti nella struttura. E quindi mi sono trovato veramente a dialogare con queste persone, a cui ho trasferito me stesso, e loro mi danno l’energia di lavorare tutti i giorni.
La scuola ha questa funzione, fare approcciare alla professione, riuscendo a farsi accettare dal cliente. Non è una professione facile, è una professione difficile, è una professione che può dare delle grandi soddisfazioni. Non saprei raccontarvi altro, forse potrei raccontarvi degli episodi, ma non so nemmeno se sono interessanti, ma vi posso solo dire che io sono fiducioso nel futuro, perché, come diceva lui, si può ricostruire un rinascimento. Il fatto di avere delle persone giovani – io adesso, nell’osservatorio, ho giovani che hanno sedici anni, ho della gente splendida – mi ha fatto capire che non si può sempre condannare i giovani. Se hanno entusiasmo, possono ricostruire. Grazie.

BERNHARD SCHOLZ:
Penso che sia stato interessante il passaggio in cu hai detto che il talento si scopre quando c’è fiducia e non pretesa. Fabio Braida, che lavora con Impresa a Carate Brianza.

FABIO BRAIDA:
Lavoro con Impresa a Carate Brianza e io sono titolare con altri miei soci della Motorlandia4 che è una carrozzeria officina. Diciamo cha a livello di manovalanza a noi ne serve parecchia. Per cui io, a partire da quello che loro hanno raccontato fin adesso, io vorrei semplicemente raccontarvi l’esperienza che ho fatto io, da titolare, con alcuni dei ragazzi che, attraverso Impresa, noi poi abbiamo assunto nella nostra società. E volevo semplicemente raccontarvi questo perché, a partire da quello che hanno detto tutti i vari relatori, poi si arriva direttamente sul luogo di lavoro. Oggi, incontrare gente che a sedici anni abbia voglia di lavorare e sia appassionata al lavoro non è semplice, l’hanno detto tutti. Non è semplice insegnare loro questa voglia e questa passione per il lavoro. Tra l’altro, poi, il nostro settore, è un settore dove si mangia polvere, c’è polvere, si fa fatica, si suda, per cui questi ragazzi sedicenni, diciassettenni fanno fatica. La loro fatica è quella di stare in piedi anche otto ore, per cui noi, tante cose, probabilmente non le pensiamo neanche. Io volevo raccontarvi semplicemente l’esperienza che abbiamo fatto con due di questi ragazzi, che, presentati appunto da Impresa, erano un caso un po’ particolare. Arrivano questi di Impresa, mi presentano questo ragazzino e dicono: “vedi di inserirlo”. Io ho sempre fatto il rappresentante e vado a fare un lavoro che è quello del carrozziere che è una cosa totalmente diversa, è come dire a un medico andiamo a fare il banchiere, per cui dentro alla difficoltà di imparare io un mestiere nuovo, mi ritrovo questo ragazzino che non mi parla. Noi lo abbiamo messo lì a lavorare e questo, a testa bassa, ubbidisce a tutto quello che i miei collaboratori gli chiedono di fare ecc., ma non parla. E la domanda grossa era: cosa posso insegnare io a uno del genere? Allora chiamo il mio responsabile, gli dico: visto che sai fare il mestiere, vedi di appassionarlo un attimino, vedi di tirarlo dietro un attimino, perché, come dire, da parte mia ci tengo che questo ragazzo qua possa imparare qualcosa e possa comunque emergere come personalità, come uomo. E vi giuro grazie a questo mio responsabile, grazie poi anche a una collaborazione con la segretaria, le cose sono cambiate. Vi racconto queste cose, proprio per raccontarvi una familiarità nel lavoro, che non è, secondo me, molto comune, perché poi a distanza di anni mi sono stupito anch’io di tutte queste cose qua. Praticamente io oggi ricordo questo Tommaso, Tommasino noi lo chiamiamo, come se fosse il mio fratello minore. Insieme a Tommasino siamo cresciuti nel lavoro: siamo partiti in quattro con questa azienda, oggi siamo una media azienda, siamo una ventina, nel settore auto, un settore in crisi ecc. ecc. Abbiamo assunto un’altra persona due anni fa, Federico, anche lui più o meno con gli stessi problemi. Non voleva andare a scuola e così arriva Impresa e mi dice: prova a prendere anche questo, visto che ci sei riuscito con Tommasino. Per grazia di Dio, per l’amor di Dio, insomma dopo due mesi che questo lavora per noi, io lo chiamo in ufficio con la mia segretaria e le dico: parlaci te, perché se gli parlo io lo lascio a casa. Da imprenditore, infatti, uno vorrebbe che questo qua producesse. Niente, allora gli dico: “ascolta o ti metti a fare le cose seriamente o se no ti mando via”. E questo mi dice: sai, guardando lavorare Tommasino, guardando lavorare il tuo responsabile e comunque parlando con te, se mi dai la possibilità, vedo di lavorarci un altro mese, poi vediamo, dopo ne riparliamo. Questo noi, a distanza di 4 mesi, poi l’abbiamo assunto, abbiamo assunto anche questo e adesso è un nostro collaboratore ormai da un anno. Vi racconto l’ultima. L’ultimo invece è un signore che abbiamo incontrato, io lo chiamo signore perché è più vecchio di me, poi da 40 anni questo davvero fa il carrozziere, la sua azienda ha chiuso circa un anno e mezzo fa, una carrozzeria piccolina, però insomma quello che è, viene da me un anno fa e mi dice: ascolta mi assumi? Allora gli ho detto no, non mi va bene, perché le condizioni che mi poni non mi piacciono. Ritorna dopo un anno e mi dice: sai, hanno licenziato anche mia moglie, sono un po’ in difficoltà ecc…, insomma ha abbassato un attimino il tiro e io da imprenditore dico: a questo punto posso assumerti. Questo ormai è da noi, è una cosa fresca, da noi da due mesi, a questo signore quelli della cooperativa portano il pacco, non so come dire, è uno che viene aiutato. Quest’anno io sono andato a fare le ferie con la ragazza che porta il pacco a questo signore, lo porta ormai da un anno, e mi dice: guarda sembra molto contento, è stupito dal fatto che tutti i giorni gli chieda come sta, come si trova e poi, mi dice, mi sembra di lavorare in una fabbrica del sorriso. Allora io, non per insegnare niente a nessuno, ma sono molto contento di questa cosa, questo tipo di esperienza almeno a me ha gratificato tantissimo. La nostra azienda sta crescendo con questa gente. Un giorno il responsabile dell’azienda DuPont, che ci fornisce la vernice, mi dice: visto che hai fatto questa impresa, che sei passato da una officina di 600 metri a una di 1300 metri, sei cosciente di quello che fai e di quali prospettive hai? Ma, gli rispondo, guarda, non lo so, però ti faccio un esempio: non pensavo di sposarmi, mi sono sposato, non pensavo di avere dei figli, ne ho avuti quattro, non pensavo di mettermi in proprio, mi sono messo in proprio, eravamo in tre adesso siamo in venti. Non so cosa dirti, domani si vedrà. Per cui l’idea di fare l’imprenditore oggi è la possibilità di insegnare qualcosa a qualcuno. Io spero davvero che nella nostra impresa, nella nostra azienda, ci siano tanti Tommasino nel corso degli anni.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie! È sempre sorprendente constatare come la gratuità, a un certo punto, paga, in tutti i sensi. Più dai, più ricevi, anche in un modo veramente sorprendente. Io non volevo aggiungere assolutamente niente, non fare nessun tipo di sintesi; io voglio solo dire, in due parole, ciò che mi ha colpito. E’ evidente che in un contesto del genere le imprese sempre di più dovranno diventare luoghi di educazione; di fatto lo sono, non è che dobbiamo scegliere se sì o no, lo sono di fatto sempre di più. Abbiamo sentito quattro testimonianze che ci aiutano a rispondere a questa esigenza che si pone oggettivamente; ma cosa deve fare l’imprenditore? Deve diventare psicologo, parroco, insegnante, papà, zio, nonno? No, deve fare l’imprenditore. Perché, cosa succede? La cosa che mi ha sempre colpito, è che lui, facendo, rispondendo attraverso il suo lavoro, alle richieste oggettive, mette anche i ragazzi che vengono con lui di fronte alla oggettività della realtà, perché, per la maggior parte dei ragazzi, il lavoro è la prima volta in vita loro in cui incontrano qualcosa di reale. C’è qualcosa in più, non lavorativamente parlando, ma umanamente parlando; cioè l’imprenditore, come loro, trasmette un interesse per loro, direttamente e indirettamente, perché tutti questi ragazzi sono cresciuti perché hanno incontrato qualcuno che li ha messi di fronte alla realtà. E hanno scoperto che questa realtà è positiva che c’è qualcuno che crede in loro, nelle loro capacità. La cosa che mi colpisce spesso, è vedere dei giovani che hanno tanti talenti ma che sono completamente abbandonati a se stessi, perché non c’è nessuno che crede in loro. Quindi questa è la passione che, tra l’altro, nella piccola e media impresa è viva, spesso molto viva in chi si impegna, perché per fare e l’abbiamo sentito anche qui stasera, per intraprendere, hai bisogno comunque di un interesse nella vita, altrimenti non lo fai. Perché altrimenti è più facile vivere di rendita e di possibilità ce ne sono a bizzeffe. Allora, perché ti metti in pista? Perché hai un interesse; è questo che si comunica. Quindi l’imprenditore deve fare veramente l’imprenditore fino in fondo, è questo che colpisce i ragazzi. E quindi, l’esperienza lavorativa vera, non quella fittizia, ovattata, irrealistica, illusoria, fuori dal mondo, fuori dal mercato, quella vera, diventa poi la prima esperienza di se stessi per i ragazzi. Loro fanno esperienza di sé o, per stare sul titolo di questo Meeting, cominciano a conoscere se stessi e capiscono che è più vero per loro, più conveniente, più buono, più appropriato giocarsi fino in fondo, perché è in questo che loro non hanno mai creduto. Ultimissima osservazione: colpisce spesso i tanti ospiti del Meeting che ho l’occasione e il privilegio di incontrare, che la Compagnia delle Opere sia fatta di profit e non-profit, perché per loro questi sono due mondi completamente distinti, se non separati. Io penso che la cosa interessante di questa sera sia anche questo: che per raggiungere il bene comune dobbiamo collaborare su questo, perché il profit e il non-profit sono due modalità della stessa imprenditorialità che vibra dentro di noi, perché intraprende il desiderio di ognuno; se lo fa nella modalità profit lo fa nella modalità profit, se lo fa nella modalità non-profit lo fa nella modalità non-profit. Ma ambedue le modalità contribuiscono al bene comune. Io ho fatto un incontro con imprenditori profit qua, in questa sede, alcuni giorni fa, dov’è diventato stra-evidente che anche una impresa fatta bene è un contributo al ben comune. Non abbiamo raggiunto livelli come questa sera, dove c’è addirittura una dedizione ulteriore a ragazzi perché incontrino se stessi e il mondo attraverso il lavoro, mettendo a disposizione la propria impresa, il proprio tempo, la propria energia e soprattutto la propria pazienza. Non dappertutto è così, ma esiste, in ogni intraprendenza umana, uno scopo di bene comune. Per noi non esiste un iato fra il bene di sé, il bene dell’impresa e il bene comune. Per noi è una cosa sola e questa sera sono molto grato che questo sia stato testimoniato in questa immediatezza, in questa sincerità e spero che ci saranno altre occasioni dove potremo incontrarci di nuovo su questa esperienza. Grazie mille.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

28 Agosto 2009

Ora

19:00

Edizione

2009

Luogo

Sala Tiglio A6
Categoria
Focus