Il tempo e il tempio

Hanno partecipato: Stefano Alberto, Docente di Introduzione alla Teologia presso l’Università Cattolica del “Sacro Cuore” di Milano; Giancarlo Cesana, Docente di Medicina Preventiva presso l’Università Statale di Milano.


Alberto: Il tempo e il tempio è una raccolta di quattro meditazioni, svolte tra novembre del 1994 e maggio 1995, tenute ai Memores Domini, ed una lezione tenuta invece agli universitari di Comunione e Liberazione.

Don Giussani, nella breve introduzione che precede le quattro meditazioni, che sono ordinate cronologicamente, ci richiama all’importanza di questi testi, che rappresentano una breve sintesi ideale di quanto in questi anni ha inteso comunicare ai giovani, condividendo con loro bisogni e attese. Le riflessioni contenute in questo testo non sono un discorso teologico nel senso tradizionale, professorale, accademico del termine, pur presentando una teologia nuova e originale. Nascono da una vita, dalla condivisione dei bisogni umani, del bisogno umano fondamentale che è esigenza di significato della vita, dell’azione, del tempo, del destino dell’uomo.

Il tema centrale di questo testo è l’idea di vocazione, non intesa in un senso ristretto, ecclesiastico, e neppure identificabile immediatamente con una forma specifica — il matrimonio o la consacrazione verginale —. Vocazione è innanzitutto la vita dell’uomo che è colpito dall’iniziativa di un Altro, e dunque la vocazione è la vita che diventa risposta all’iniziativa di un Altro, che entra nella vita in un incontro storico e che si rivela attraverso circostanze di spazio e di tempo, con una pretesa di significato e con una promessa di felicità e di pienezza per la vita dell’uomo toccato.

Nella seconda lezione, Riconoscere Cristo, si sottolinea l’originalità dell’avvenimento cristiano rispetto a ogni altro tentativo, sia pur nobile e grande, che l’uomo fa per immaginarsi il rapporto con il Mistero. L’originalità, l’unicità, e quindi la novità permanente dell’avvenimento cristiano è che il Mistero stesso ha fatto irruzione nella storia, nel tempo e nello spazio, in un momento del tempo, dentro l’esistenza dell’uomo.

Mi permetto di richiamare brevemente i termini di questa novità.

Per l’uomo di oggi e quindi anche per tanti di noi, prima di essere gratuitamente raggiunti da questo avvenimento, valeva e vale la frase drammatica di Kafka con cui inizia la meditazione agli universitari: “Esiste un punto di arrivo — è proprio della ragione dell’uomo riconoscere di essere fatta per qualche cosa di più grande —, ma nessuna via” (p. 39). Don Giussani osserva: “Quello che Kafka dice: nessuna via, non è vero storicamente. È vero, paradossalmente si potrebbe dire, teoricamente, non è vero storicamente”. Il Mistero non si può conoscere, grida Kafka, ed è l’inizio della disperazione dell’uomo moderno, che arriva a diventare negazione, non solo di Dio, ma della realtà tutta, di ogni possibile positività o felicità. È la tragica opzione del nichilismo di oggi. Ma dire così è una teoria, una pura opzione, perché il Mistero è entrato nella storia, si è coinvolto con l’uomo, è nato da donna, è diventato un uomo tra gli uomini, compagnia al destino dell’uomo, perché l’uomo potesse raggiungere il suo destino, la sua felicità non attraverso un suo sforzo, non attraverso una sua coerenza morale, non attraverso una sua immaginazione, ma aderendo stupito a quell’uomo. Si tratta, sinteticamente, della novità del Cristianesimo: è un fatto storico accaduto, l’irrompere di quella presenza, di quell’uomo che Giovanni e Andrea hanno incontrato in riva al Giordano alle quattro del pomeriggio e hanno guardato parlare. Un uomo che è facile riconoscere.

Ritornano spesso questi aggettivi: facile, semplice. Perchè è stato facile per i primi riconoscerlo? Perchè è semplice riconoscerlo? Perchè da quell’uomo traspariva una eccezionalità senza paragone. Io ho davanti un uomo eccezionale senza paragone. L’eccezionale fa colpo perché corrisponde alle attese del cuore, per quanto confuse e nebulose possano essere, in modo inimmaginabile ed imprevedibile. Non c’è nessuno come quell’uomo. C’è una frase che è sintetica della dinamica con cui Cristo si è presentato uomo all’uomo: “L’eccezionale è paradossalmente l’apparire di ciò che è più naturale per noi. Che cos’è più naturale per me? Che quello che desidero avvenga. Più naturale di questo, che quello che desidero di più, avvenga. Questo, questo è naturale”. È semplice riconoscerlo, proprio perché è eccezionale, è questa eccezionalità che colpisce il cuore, che crea una corrispondenza inaspettata, inattesa ma reale. Era ed è facile aderire a quell’uomo, basta aderire alla simpatia profonda, simile a quella vertiginosa e carnale del bambino con sua madre, che è simpatia nel senso intenso del termine. È una affettività umana, pienamente umana. Umana perché è simpatia a questa eccezionalità imprevista, imprevedibile, eppure così concreta, così carnale, così influente, decisiva per il tempo, per l’istante, quindi per la storia. Non un’idea, non una immaginazione, non un ideale frutto di un’immagine umana, ma innanzitutto il riconoscimento stupito, carico di questa simpatia profonda della sua presenza.

Ma la grande questione che viene sollevata e sviluppata attraverso queste quattro meditazioni, il punto più originale, più nuovo della riflessione di don Giussani, risponde alla domanda: questo irrompere del Mistero nel tempo e nello spazio, nell’umano, come permane, come raggiunge l’uomo 2000 anni dopo quell’incontro alle quattro del pomeriggio che Andrea e Giovanni hanno fatto? È qui che nasce l’idea del Tempio.

La parola Tempio viene sviluppata e ripresa con accezioni e formulazioni diverse, ma sinteticamente essa esprime la grande legge del dinamismo attraverso cui Dio investe il tempo e lo spazio, e permane nella storia attraverso il fluire di giorni, di anni, di secoli: è la legge della elezione. Dio sceglie uomini nel tempo e nello spazio, e li chiama a vivere in luoghi fisici, visibili, concreti, in cui Lui, il Signore, sia riconosciuto come il Signore di ogni cosa: del tempo, dello spazio, degli affetti, dell’amicizia, del lavoro, della gioia e del dolore, della vita e della morte, del vegliare e del dormire. Il coinvolgimento di Dio con l’uomo: questa è la genialità del metodo del Signore. E questa, mi permetto di dirlo, è la genialità di don Giussani, che questo metodo ci rende vivo, esistenzialmente persuasivo davanti agli occhi e nella nostra vita.

Il coinvolgimento di Dio con la vita dell’uomo si attua sempre in un punto preciso, carnale, nel tempo e nello spazio. Un punto carnale in cui il Mistero irrompe, di cui il Mistero è Signore: questo è il Tempio. Il primo Tempio di carne che Dio si è scelto è stata la Madonna. Poi, Dio ha scelto quel flusso di uomini che è nato da quei primi dodici e che ha investito la storia di generazione in generazione, e che acquista un nome, un volto: la Chiesa. Ma il Tempio acquista una capillarità ancora più grande. I terminali capillari di questo luogo sono la famiglia, il convento, il monastero, la casa. Luoghi fisici, definiti dal tempo e dallo spazio, in cui chi vive è chiamato a essere profeta (il termine profeta deriva da pro-femi; che significa dire davanti, gridare davanti, gridare al mondo che il Signore è tutto). È vivendo in questo luogo, è accettando una forma fisica definita da particolari, da circostanze di spazio e di tempo, che la vita dell’uomo preso da Cristo, diventa strumento e segno della Sua presenza.

La vita dell’uomo che accetta l’iniziativa di Cristo nel tempo e nello spazio, in un luogo, in una forma, è una vita che inizia a diventare drammatica e nel contempo esaltatrice dell’umano, perché il dramma è ciò che esalta i fattori dell’umano, è solo la tragedia che li annichila. “Il nichilismo porta alla tragedia”, scrive don Giussani. L’incontro con Cristo porta nella vita il dramma, perché il dramma è il rapporto vissuto tra un io e un tu. È quello che è successo a Pietro, che ha risposto al Signore: “Signore, io ti amo. Non so come, so che è così”. Nasce un sentimento nuovo della vita, una coscienza nuova di sé, una nuova moralità, non come un insieme di leggi da osservare o come una analisi minuziosa di ciò che è stato e che poteva essere altrimenti. Questa non è l’idea della moralità cristiana: la moralità è invece il sì di Pietro, è il sì che nasce dallo stupore profondo e dall’attaccamento originale a quella Presenza, dal riconoscimento di quel Tu. La moralità inizia dall’incontro storico con la Sua presenza nel tempo e nello spazio; la morale inizia come il riconoscimento dell’opera di un Altro.

Questo riconoscimento è l’origine di una responsabilità, di una risposta in cui la vita diventa offerta, offerta di ogni istante, diventa un io nuovo che vive l’istante, che vive i rapporti, che vive tutto non più per se stesso, non più nel breve respiro della sua misura, ma per un Altro. È il per chi si vive che cambia, non più per se stesso, ma per Colui che è morto e risorto per noi, come grida Paolo nella seconda lettera ai Corinti, al capitolo V. La vita diventa l’offerta di ogni istante, e l’istante acquista una densità prima sconosciuta.

Ci sono due grandi parole che definiscono questo vivere la carne delle circostanze per un Altro, totalmente investiti dalla sua presenza: innanzitutto, la verginità. La verginità è la stoffa dell’esistenza dell’uomo investito da Cristo, di ogni uomo investito da Cristo. La vita vissuta così esprime — ed è la seconda parola — una fioritura nuova. Come l’alba, come un crepuscolo di una nuova giornata. È la grande promessa che diventa realtà nel tempo delle nostre giornate; è il centuplo come fioritura nuova, insperata ma reale e concreta, che investe i rapporti, il modo in cui uno guarda la moglie e i figli, il marito, i colleghi di lavoro, gli amici… il modo in cui uno guarda se stesso, le cose, tutto.

L’avvenimento del Tu di Cristo nel tempo e nello spazio, rende utile il tempo e lo spazio; la vita come vocazione consiste proprio nel riconoscere a Cristo la capacità di salvare il presente del tempo. Non guardare al prima e al dopo, come davanti alla tentazione che porta a voler afferrare le cose e i rapporti da sé. Ma più afferri, più stringi, più le cose, i rapporti, la persona che tu ami ti sfuggono. “Prendere come voglio — scrive don Giussani — questa persona o non prenderla come voglio, è un futuro, è un domani, è un dopo, è tra un minuto, tra un secondo. Quando la prendi, se cedi, sei insoddisfatto, tanto è vero che stringi i denti, stringi impotente una cosa che ti sfugge tra le dita adunche, mordi una cosa che ti sfugge dai denti. Guardiamo al prima e al dopo, e ci struggiamo per ciò che non c’è. C’è soltanto il Tu. Quel che c’è è soltanto il Tu dell’essere, di questa presenza, della tua presenza o Cristo, di cui quella persona è espressione. E il sacrilegio che io commetto nel mordere con i miei denti, nello stringere con le mie mani, anche con le mani e i denti della fantasia, questo sacrilegio che io commetto, dimostra che ciò che ho aspettato dal dopo, non è più nel presente, già, non è più nel presente”.

Questa è la novità di vita che fa irruzione nel riaccadere del riconoscimento di Cristo, della semplicità che nasce da questa simpatia profonda al Tu riconosciuto nell’istante. La vita rivela allora una fecondità nuova. Il riconoscimento della oggettività della scelta di un Altro è l’inizio di una fecondità, l’inizio di un nuovo popolo che vive nel presente e nella storia per la gloria di Cristo.

La gloria di Cristo è un termine del mondo presente, riguarda la storia, non avviene nell’al di là, ma nell’al di qua. La vocazione, lo ripeto, consiste nel riconoscere a Cristo la capacità di salvare il presente del tempo. È l’emergere di una fecondità nel tempo e nello spazio, di un protagonista nuovo, di un io nuovo, di un popolo nuovo nella storia, capace di valorizzare tutto il bene presente in ogni particolare, il briciolo di verità presente in ciascuno. L’io nuovo che vive della fede, del riconoscimento amoroso di questo Tu che lo costituisce, l’io nuovo che riconosce di essere scelto, l’io nuovo che vive questa certezza — non una sicurezza psicologica, ma la certezza che nasce dalla fede — che vive l’oggettività, è il principio di una cultura nuova. Don Giussani chiama questa cultura nuova ecumenismo. Dove c’è chiarezza della verità suprema che è Cristo, del volto di Cristo, guardando questo volto tutto ciò che si incontra rivela qualcosa di buono, molto di più di una indifferente tolleranza. L’ecumenismo è amore al riverbero di verità che si trova in chiunque. Esso è fattore di pace, costruzione di una dimora umana, di una casa, di un Tempio che possa anche essere rifugio all’estrema disperazione. È potenziamento di tutti in funzione di tutti. Perciò comporta sempre un giudizio chiaro anche sui compagni di strada, perché l’abbraccio sia unitario, potente, senza residui e tutti abbiamo a camminare insieme verso il Regno Celeste, che come dice Jacopone da Todi, “Compie omne festo che il core ha bramato”.

Cesana: Come ha detto don Pino, il libro è fatto di quattro lezioni di don Giussani. Tre rivolte ai Memores Domini, ovvero a persone che non si sono sposate per dedicarsi totalmente a Dio, e una agli universitari. Anche in questa lezione agli universitari, don Giussani ha parlato della verginità, quindi questo libro in qualche modo è percorso dalla parola verginità. Ma don Giussani non ha voluto farne un libro pio, un libro di meditazioni cristiane, ne ha invece fatto un libro tascabile di una editrice laica, la Rizzoli, che viene distribuita dappertutto, anche negli autogrill. Con questo, voleva intendere che quello che dice riguardo alla verginità, questa vocazione che il mondo sente così strana, è qualcosa per tutti.

Ma la questione centrale del libro non è neanche la verginità: la questione centrale è un’altra, è quella che vien prima, e cioè che Dio, il Mistero che fa tutte le cose, il Signore, il Padrone delle cose, il Padrone della realtà — la realtà non è nostra, perché noi ultimamente non possediamo niente, neanche la nostra vita, che ci verrà tolta — si è manifestato, si è reso presente, si è reso incontrabile. Qui nasce il problema della verginità: per possedere le cose, per possedere la realtà, per vivere la realtà, per gustarla, non posso più fare come voglio io, devo seguire questo Padrone, devo seguire quello che comanda. Le cose non sono mie. Se è così, si capisce perché la verginità è per tutti, non solo per i preti, le suore, i frati. Vuoi possedere la realtà? Allora, la devi trattare non secondo quello che ti viene in mente, ma secondo ciò per cui essa è fatta, secondo ciò di cui essa è costituita. Come vorremmo essere trattati noi, come vuoi essere trattato tu? Secondo la convenienza del tuo datore di lavoro, di tuo papà, dei tuoi genitori? Secondo quello che vogliono da te o secondo quello che desideri tu, secondo il destino per cui senti di essere fatto? Sembra chiaro come si vuole essere trattati! E allora, l’altro deve affrontarti dentro una dimensione verginale, non può far di te quello che vuole, deve avere un distacco. Come quando si legge un foglio: se lo si mette troppo vicino agli occhi le parole si confondono. Devi avere un distacco, cioè devi capire che se vuoi possedere, se vuoi gustare, se vuoi poter vivere, devi distaccarti, non puoi far quello che vuoi, devi seguire il Signore. Perchè l’istintività, l’impulso è solo l’introduzione alla realtà, è qualcosa che ti avvicina — proprio come l’istinto sessuale è solo l’introduzione al matrimonio, e un matrimonio non sta in piedi per l’istinto sessuale — alle cose, ma non ne è il senso.

Si capisce così che la vita — parlo da persona normale, sposata con tre figli —, il matrimonio, il lavoro, sono la strada normale alla verginità, la strada normale attraverso cui uno impara che per possedere le cose deve riconoscere che non sono sue. Perchè in questo possesso delle cose c’è dentro la tribolazione, le prendi, le catturi e ti sfuggono, ti tormentano. Quelli di noi sposati pensino alla loro vita matrimoniale, a quanto c’è in essa di tensione, di contraddizione, alla tribolazione che esiste in ciò che normalmente viviamo, in ciò che noi cerchiamo di possedere, in ciò che noi sentiamo come nostro, così nostro che vogliamo farne quello che ci piace di più.

Che senso ha questa tribolazione, che senso ha la fatica del vivere? Perchè facciamo così fatica a vivere? Facciamo fatica a vivere perché la realtà non è nostra, la fatica è semplicemente il segno che la realtà non è tua, perché se fosse tua non faresti fatica, faresti quello che ti pare. Invece non è tua, è di un Altro. Allora, bisogna guardare a questo Altro, soprattutto quando questo Altro viene incontro, e bisogna guardare le cose stesse attraverso questo Altro. Come dice don Giussani: “Quando guardi la tua ragazza, al fondo della tua ragazza che cosa c’è? Di che cos’è fatta?” Al fondo di tutte le cose, c’è il Signore. Se vuoi stare insieme alla tua ragazza, devi guardarla così, altrimenti non resisti. Puoi sposare anche Claudia Schiffer e stufarti. Infatti, la gente non riesce più a stare insieme, arriva ad un punto tale che qualsiasi parola che si dice è un pretesto per litigare. Il matrimonio è la strada alla verginità, come la vocazione alla verginità è la strada alla verginità.

Voglio farvi un esempio. Un mio amico collega, chirurgo di Bologna, ha raccontato un fatto agli Universitari della Cattolica. Diceva che una volta don Giussani, mentre era in macchina con lui, gli ha chiesto: “Ma tu vuoi bene a tua moglie e ai tuoi figli?” Lui ha risposto: “Sì, mi pare di sì”. Don Giussani gli ha chiesto: “Fammi un esempio”. Lui, non sapendo bene cosa dire, gli ha risposto: “Quando vado a casa la sera, guardo i bambini, vado da loro, faccio loro una carezza, vedo se dormono…”. Allora, don Giussani gli ha detto: “Non è così. Tu vuoi bene ai tuoi figli quando fai un passo indietro e dici: che ne sarà di loro, qual è il loro destino, per che cosa sono fatti?”. La vita ci è data per imparare questo, perché solo attraverso questa modalità la vita può essere vissuta, può essere piena di senso e di gusto.

La presenza tra di noi di persone che hanno dedicato tutta la loro vita a Dio, e che per questo hanno rinunciato al matrimonio, è la presenza di persone che ci testimoniano che quello che sto dicendo è qualcosa di concreto, di vissuto, non è un’idea. Chi non capisce questo non capisce niente non solo della nostra esperienza, ma non capisce niente neppure del Cristianesimo. Sono i Memores Domini, coloro che si ricordano del Signore, o Gruppo Adulto. Cosa vuol dire adulto? Cosa differenzia un adulto da un giovane? Adulto vuol dire fecondo, generatore. Quindi, i Memores hanno rinunciato a sposarsi per essere fecondi, perché è una fecondità più profonda, più radicale. Gesù diceva che i legami che si stabiliscono tra i Cristiani sono più forti di quelli della carne e del sangue. La carne e il sangue sono solo un’introduzione. Se non ci fosse questo, le cose che ci diciamo non sarebbero neanche immaginabili, oppure magari sarebbero percepibili con la punta del desiderio, perché uno capisce che le cose non sono sue.

Ciò che fa di noi un popolo, nella concretezza della vita, è questa vocazione, la vocazione cristiana nelle sue forme, nella sua diversità, nel suo fascino, in questa strada non verso il rifiuto della realtà, ma, al contrario, verso il riconoscere la carnalità, così tanto da avere speranza nella carne. Possiamo avere anche speranza in ciò che marcisce, o nel tempo: come dice S.Agostino — citato da don Giussani —: “Tutto questo è perché si veda che tipo di popolo sia”. Perchè si veda che popolo siamo sono da fissare, da scoprire, da intuire le cose che noi amiamo e come le amiamo. Quello che ami ti definisce. Come dico anche agli studenti dell’Università che si fidanzano, l’affronto del problema non la psicologia del fidanzamento, il rapporto tra uomo e donna o un certo tipo di sociologia, ma il capire cos’è per il tuo destino. Se stai troppo appiccicato, non sai neanche a cosa sei attaccato!

S.Tommaso dice: “La vita dell’uomo consiste nell’affetto che principalmente lo sostiene, e nel quale trova la sua più grande soddisfazione”. Quindi, per capire che tipo di popolo siamo sono da fissare e da scoprire le cose che amiamo e come le amiamo. Questo è il criterio che definisce un popolo: un uomo e una donna che si sposano, una famiglia, una casa del Gruppo Adulto, un convento di frati, un monastero di monaci, un popolo come quello medievale, o un popolo come quello del Quattrocento, del Cinquecento, del Seicento, dell’Ottocento, del Novecento, un popolo come quello del Duemila, che è scristianizzato come quando Cristo venne. Come quando Cristo venne: noi siamo al livello dello stupore di Andrea e Giovanni, l’inizio.

 

Data

25 Agosto 1995

Ora

11:30

Edizione

1995
Categoria
Incontri