IDA

Presentazione e proiezione del film di Paweł Pawlikowski. A seguire dibattito con Maria Gabriella Pediconi, Docente di Psicologia Dinamica all’Università degli Studi di Urbino e Joseph Weiler, Presidente EUI (Istituto Universitario Europeo). Introduce Letizia Bardazzi, Presidente AIC (Associazione Italiana Centri Culturali).

 

LETIZIA BARDAZZI:
Buonasera a tutti, ben arrivati grazie per essere qui. Farò una brevissima introduzione e poi lascerò alla visione del film, a seguire il quale i nostri ospiti di stasera vi intratterranno in un dialogo fra loro. Ida è un film del 2013, diretto da Pawel Pawlikowski, di produzione principalmente polacca, è stato scritto dal regista stesso e da Rebecca Lenkiewicz. Nel 2015 ha vinto il premio Oscar per il miglior film straniero e ha avuto molti premi in nomination, è stato anche segnalato dalla CEI come un film per l’anno della misericordia. In un’intervista al London Film Festival, Pawlikowski dice che a creare Ida sono stati tanti elementi, innanzitutto ha avuto in mente due personaggi che si rifacevano alle due protagoniste principali in cui lui si era imbattuto personalmente. Inoltre, ha detto che lui voleva che il film fosse una riflessione su fede e identità, perché la domanda che lui si portava addosso era: come fa la fede a conquistare una vita? E questa conquista, è una convenzione dettata dalle regole, dall’ambiente, da quant’altro o è una forza vera? il film affronta temi delicati e importanti come quello dell’identità, dei legami di sangue, della fede, del senso di appartenenza che lui stesso ha vissuto in prima persona. E’ un viaggio nelle ferite della storia, nella Polonia misera e deprimente dei primi anni ’60 che racconta il cammino di una giovane novizia alla ricerca delle sue origini e della sua fede, con due protagoniste che – vedrete – lasceranno una traccia in noi. Vi dico subito che per me l’adesione a questo film è stata la scoperta che niente vale di più di un sì libero detto alla verità, pur nel dramma della libertà e della ragione, con tutta se stessa. La protagonista giunge al compimento di sé, questa è la mia personale lettura: vi sottolineo l’apprezzamento della critica internazionale alla fotografia che è eccellente e ha un’impaginazione in bianco e nero che ci fa pensare ai grandi maestri del cinema, in particolare a Bergman, Tarkovskij, e nel particolare la chiusura con Bach. Questo è tutto, vi introduco solo brevemente i nostri ospiti di stasera così che, al termine della visione, saliranno sul palco e inizieranno il dialogo. Sono il professore Joseph Weiler: grazie a lui abbiamo deciso di vedere questo film perché ha caldeggiato vivamente la proposta di questa visione. Come sapete, è Presidente dell’Istituto Universitario Europeo, giurista di grande fama internazionale, grande amico del Meeting da tanti anni. Con lui, la professoressa Maria Gabriella Pediconi, docente di Psicologia Dinamica presso l’università degli Studi di Urbino. La professoressa unisce all’insegnamento la ricerca in campo psicologico, psicoanalitico e delle scienze sociali: io farei un primo applauso ai nostri due ospiti stasera. Vi auguro una buona visione.

Video

JOSEPH WEILER:
Buonasera, sono le dieci e mezzo, finiamo alle undici? Un anno fa, proprio al Meeting, ho parlato con la Emilia e le ho detto: “Guarda, secondo me può essere interessante al prossimo Meeting far vedere il film Ida e discutere un po’”. Lei mi ha detto: “Che cosa è questa Ida?”. L’ho spiegato e la reazione di Emilia è stata: un film polacco, in bianco e nero, non penso. Le ho detto che valeva la pena di vederlo ed eccoci, siamo qui. Si dice un film in bianco e nero ma in realtà non è in bianco e nero, è grigio, e anche il film stesso è grigio, pieno di ambiguità e di tanti profili diversi. Vi darò alcuni esempi: da una parte c’è la Madre Superiora che ha una coscienza religiosa, profonda e nobile, del fatto che la scelta di Ida debba essere fatta con piena coscienza della sua identità. Le dice che non potrà prendere i voti fino a che non incontrerà la zia che prima non voleva vederla: dopo spetterà a te decidere se vuoi o non vuoi essere suora. Giovanni Paolo II, prima ancora di essere vescovo, quando era prete a Cracovia, ha trovato tanti ragazzi ebrei tipo Ida e li ha salvati: dopo la guerra, molti di loro sono stati anche battezzati in buona fede. Il governo israeliano li aveva cercati a Varsavia per portarli in Israele e farli crescere come ebrei. Allora i genitori erano andati da Giovanni Paolo II dicendo: “Cosa dobbiamo fare?”. Amavano questi ragazzi come fossero i loro figli. La sua risposta fu di una squisitezza morale, etico-religiosa non paragonabile. Disse: “Ognuno di voi deve pensare cosa avrebbero voluto i genitori dei figli”. Quasi tutti sono finiti in Israele: la stessa nobiltà mostra la Madre Superiora. D’altra parte, il prete nel paesino dove erano stati assassinati i genitori, il figlio della zia, è un complice silenzioso, o perlomeno tenta di coprire il crimine terribile che è stato commesso.

MARIA GABRIELLA PEDICONI:
Chi è il complice?

JOSEPH WEILER:
Il prete, perché sapeva. Gli hanno dato la figlia e lui ha fatto finta di non sapere nulla: ecco un esempio dell’ambiguità del grigio. Da una parte, la madre superiore, di una nobiltà squisita, dall’altra parte il prete, con un ruolo molto più ambiguo. Prendiamo la stessa zia, una personalità in un certo senso tremenda, sanguinosa, rappresenta la giustizia del popolo comunista che era tante cose ma non giustizia, una vita che quasi non rispetta nessuna norma. Ma è proprio per questa sua durezza che è l’unica che con insistenza scopre la verità di quello che è successo. Senza di lei, una persona con questa personalità, non sarebbero rimaste tracce di quello che è successo. Vi è un terzo esempio di questo non bianco e nero ma grigio nel film: è sempre la zia, perché ci sono due protagonisti principali, Ida e sua zia: da una parte, è una persona repellente, dall’altra, quando scopriamo che ha lasciato il proprio figlio per andare a combattere i tedeschi come polacca, e mentre combatteva i tedeschi come polacca gli stessi polacchi hanno ammazzato sua figlia, almeno cominciamo a capire meglio la sua personalità, le sue azioni. E poi dico una cosa che può sembrare dura: lo stesso assassino, il figlio del padre, mi fa pensare alla Bibbia, libro I, cap. 21. C’è una delle frasi più famose della Bibbia che il profeta Elia dice al re Acab: “Hai assassinato e anche ereditato”. Nel momento terribile in cui si scoprono le ossa delle sue vittime si capisce che anche questo atto di ambiguità morale: se i tedeschi avessero scoperto che suo padre nascondeva ebrei, avrebbero fatto fuori tutta la sua famiglia. Ha salvato la ragazza ebrea perché aveva un aspetto polacco e non era circoncisa. In questo assassino c’è un’ambiguità morale: chi può dire con certezza che non avremmo fatto la stessa cosa? Almeno possiamo capire che era in gioco una scelta morale difficile. C’è Ida, c’è questo atto nobile della Madre Superiora, Ida che esce e scopre l’identità ebrea, si confronta con la realtà di essere ebrei, va a seppellire i propri genitori in un cimitero ebreo e dice: “Ma non ci vuole un prete?”. E la zia dice: vale la pena che tu provi l’alternativa. E allora prova l’alternativa: balla, fa l’amore, beve, si veste con abiti civili e alla fine prende la decisione in piena coscienza e torna alla sua vocazione come suora. Questa è la lettura classica. Un giorno con la professoressa Pediconi avevamo parlato del film: io ero molto colpito perché lei aveva colto alcuni elementi fondamentali che sfidano la lettura classica. E ho deciso che sarebbe stato molto interessante e fondamentale anche per noi, per capire il film in piena coscienza, ascoltare anche queste interpretazioni alternative. Sono due gli elementi che mi hanno colpito. La prima è la prova: Ida ha provato la vita alternativa che le aveva suggerito la zia o era una prova finta, falsa, superficiale? Perché, se non era una vera prova, non possiamo dire che in piena coscienza ha esercitato la libertà sapendo cosa significava.

MARIA GABRIELLA PEDICONI:
Ringrazio il professor Weiler e anche il Meeting che mi ha invitato qui a prendere la parola. Ti ringrazio anche di questa presentazione, perché così sapete già che io non confermerò affatto l’interpretazione classica. Io stessa sono stata interrogata da questo film vedendolo più volte e la prima cosa che ho pensato, o meglio mi sono chiesta, è se lei davvero ha fatto la prova oppure no. La mia risposta è no. Adesso proverò a dirvi sulla base di quali elementi io ritengo che la prova di Ida sia quanto meno insufficiente: non possiamo dire che non ha provato niente ma chiediamoci se ha concluso la prova oppure se l’ha lasciata a metà. Per rispondere a questa domanda, ripercorrere brevissimamente alcuni passaggi del rapporto tra Ida e la zia, perché il contesto della prova, il contesto segnalato anche dalla Madre Superiora, è proprio il rapporto con la zia: “Vai, hai una zia, non la conosci”. Lei chiede: “Ma è necessario?”. Ecco la prudenza della tradizione della Chiesa nei secoli: “Sì, vai a conoscere tua zia”. L’incontro è subito pregnante perché la zia le rivela che i suoi genitori erano ebrei e dice: “Tu sei la suora ebrea”. Avrete notato, forse ricorderete, che lei risponde subito “Chi?!”. “Sei ebrea. Non te l’hanno detto?”. Oggi il professor Weiler diceva attenzione alla metodologia, anche io vi dico la mia metodologia, tratto il film come un campo di osservazione e tratterò questi individui, i protagonisti di questo film, come degli individui di cui si possono osservare pensieri, parole, opere e omissioni. Torniamo alla zia che dice: “Non te lo hanno detto?”. Guardate, questa sottile domanda può sembrare da niente, di fatto la zia getta un’ombra sulle persone che si sono occupate di Ida fino a quel momento, cioè le suore che l’hanno allevata e a cui lei era affezionata, legata. Lei pensa per la prima volta che le suore non le hanno detto qualcosa. Eh, già, ma noi pensiamo: chi ha detto che glielo dovevano dire le suore? Non poteva essere forse lei, la zia, a recarsi dalle suore, che tante volte l’avevano invitata, per dirglielo? Ma Ida viene a sapere di questa sua identità ebraica con questa sfumatura, con questa ombra. Le due si conoscono in macchina, ricorderete che la zia dice a Ida: “Ti chiami Ida”. Da questo momento noi dimentichiamo che il suo nome, il primo nome con cui è stata chiamata, è Anna, anche per noi diventa subito Ida. C’è questo passaggio, shiftiamo anche noi su Ida. La zia le dice: “Sei bella, sei molto carina – è la prima volta che Ida probabilmente se lo sente dire -, gli uomini impazziranno”. “Pensieri peccaminosi?”, lei, vedete, non è una sprovveduta. Ida: “Sì, a volte”. “Amore carnale?”. “No”. “Mmm, dovresti provare, altrimenti che rinuncia è la tua?”. Anche qui, attenzione, perché questa frase della zia contiene una istigazione a provare: “Dovresti provare, altrimenti che rinuncia è la tua?”. Ma Ida potrebbe non aver pensato fino a quel momento che rinunciava, non è detto che l’avesse pensato nei termini di una rinuncia, quindi la zia le prospetta una soluzione, quella di prendere i voti, in perdita. Questa perdita per Ida, fino a quel momento, non è detto che si fosse configurata, anzi, secondo me non si era configurata affatto. Anche qui corro, corro. Succedono molte cose, scoprono i fatti di cui ci ha parlato Joseph, notiamo che Ida ritorna in convento riaccompagnata dalla zia, in quel momento di saluto lei per la prima volta ha una lacrima, forse l’avete notato. In convento, vediamo gli effetti di questo passaggio dalla zia, non è più quella di prima Ida, Anna, Ida, Anna.

JOSEPH WEILER:
Anna.

MARIA GABRIELLA PEDICONI:
Torna in convento, nota il corpo, le fattezze della sua compagna, a tavola ride e poi non è pronta. Avrete notato anche che mentre le compagne dicono il Padre nostro lei rimane in silenzio e conclude che non è pronta. Mentre le altre prendono i voti, lei piange. Dopodiché, vediamo il suicidio della zia. Lei torna a casa della zia e questo è il passaggio su cui vorrei che ci fermassimo adesso brevemente. Lei ascolta la stessa musica, butta via le bottiglie, dorme nel suo letto. Poi c’è il funerale: torna a casa della zia, mette le scarpe della zia, si veste con i panni della zia, fuma, beve, balla, si avvolge in questo velo. E’ una scena molto bella, il regista sui dettagli è spettacolare (notare, nei pochissimi dialoghi, i molti dettagli che vediamo). Fa tutto quello che fa la zia, dopodiché cerca di nuovo lui, è lei che lo cerca, fanno l’amore: questa scena è molto espressiva perché lei non prova niente. Cosa prova? È connessa, è disconnessa, è riservata? Appunto, il verbo provare… Lui chiede: “A che cosa stai pensando?”. Lei risponde: “Non penso”. Per il momento, mi fermo qui, perché poi riprenderò ancora questo punto. Questo mettersi nei panni della zia e fare tutto quello che fa la zia può essere un cadere nel tranello dell’istigazione, piuttosto che fare una esperienza. Anche perché fare tutto insieme non prova niente. In questa voracità, che peraltro il regista ci mostra prima, anzitutto, nella zia che mangia, poi sbatte, c’è tutto insieme senza norma come ha detto un momento fa il professor Weiler. Questo sbattere contro gli avvenimenti, questa voracità non è fare esperienza. Per fare esperienza, come abbiamo letto in don Giussani più volte – e mi è tornato in mente vedendo questo film, in particolare un passaggio de Il senso religioso che adesso non mi metto a citare perché non c’è abbastanza tempo -, ci vuole il giudizio sull’esperienza, cioè ci vuole che il soggetto non si tolga, non si sottragga da quell’esperienza ma che dica la sua, che prenda una posizione. Qui Ida si ferma prima, cioè sospende il giudizio. Questa voracità, tuttavia, che vediamo nella zia come in tanti uomini, bere, la sigaretta sempre in bocca, è una rappresentazione molto efficace di una cultura della voracità che oggi va di moda. Mi è venuto in mente un libro che ha sbancato questa estate, Calendar Girl, questo romanzo erotico in cui seguiamo la protagonista in tante avventure, dodici uomini, dodici città… Ma alla fine che cosa resta, dove sta la protagonista? Dice la sua? Non dice la sua, sospende ciò che ha da dire. In questa sospensione non possiamo dire che lei ha fatto davvero esperienza del mondo. Per ora mi fermo qua.

JOSEPH WEILER:
Io rimango attaccato a quella che ho chiamato l’interpretazione classica, però ho dei sospetti. Per esempio, la zia che dice: “Non ti hanno detto niente?”. Non volevano nascondere niente alla ragazza, sappiamo che hanno invitato la zia varie volte a incontrarla. C’è il dilemma dei genitori che adottano un bambino piccolo: anche oggi è molto, molto difficile dirgli: “Tu non sei veramente il nostro bambino, sei adottato”. E’ una cosa che può suscitare crisi di identità. Oggi la tendenza è raccontare la verità ma non serve difendere le sorelle: non l’hanno voluto nascondere, hanno invitato la zia che rifiutava di venire… Sarebbe stata veramente una scelta morale giusta dire a quella ragazza: tu sei ebrea. Ma non c’è nessun contesto per capire cosa questo può significare. Condivido che l’esperienza che fa non è esperienza: la prima volta che abbiamo fatto l’amore abbiamo capito che cos’è fare l’amore. Ma bere una volta un po’di vodka non significa che sappiamo che cosa sia il bere. Però rimango attaccato alla mia idea per due ragioni: prima, la musica. Vi ricordate quando il jazzista le chiede: “Ti piace il jazz?”, e lei risponde: “Sì, mi è piaciuto”?

MARIA GABRIELLA PEDICONI:
Questo lo sa dire.

JOSEPH WEILER:
Questa è un’esperienza. La seconda cosa, mi sembra che Ida abbia una maturità incredibile. Pur essendo giovane, dà l’impressione di una persona molto matura. Quando la zia scopre che hanno assassinato il suo bambino, Ida diventa una madre. Il modo in cui reagisce quando quell’assassino dice: “Ti faccio vedere dove sono sepolte…”, è una scelta matura. Allora mi domando: devo mettere la mano nel fuoco per sapere che non voglio mettere la mano nel fuoco? Oppure basta avvicinarsi, sentire il calore e dire: “Vorrei starne lontano”? Anche se non ha vissuto la vita della zia, può darsi che abbia visto abbastanza per sapere che questo fuoco non le interessa. Non vorrei metterci la mano dentro per sapere veramente che brucia. Però non sono convinto di questa interpretazione e confermo: la bellezza di questo film è l’ambiguità, che su questo fatto è fondamentale.

MARIA GABRIELLA PEDICONI:
Posso aggiungere un dettaglio solo, perché ripercorrendo gli appunti c’era una cosa che non voglio mancare. Questa prima parte del provare. A proposito di Ida matura, io direi che Ida non è mai sprovveduta. A volte è perplessa, riservata, trattenuta, ma è arrivata fino a quel punto avendo fatto un’esperienza: un’esperienza l’ha fatta e il registra ce la mostra attraverso il suo abito. L’abito dà a Ida una sostanza sociale, un ruolo. Arrivata a casa della zia, viene salutata in un modo particolare. La contadina le chiede di benedire la bambina, il figlio sceglie di fare un patto con lei e dice: “Di lei mi posso fidare”. E’ un’esperienza che lei ha fatto, e che ha avuto anche un riconoscimento pubblico. Non trascurerei questo dato.

JOSEPH WEILER:
Allora, passiamo al secondo elemento fondamentale dell’interpretazione classica: alla fine dobbiamo capire che scelta fa nel tornare al convento.

MARIA GABRIELLA PEDICONI:
Esatto, io sostengo o comunque vi suggerisco di considerare anche un’altra possibilità, avendo constatato che il regista lavora con i dettagli in modo pressoché perfetto. Se il regista avesse voluto farci pensare che davvero Ida tornava in convento, avrebbe mostrato il convento, come ha fatto quando Ida è stata riaccompagnata in convento dalla zia. Invece non solo non arriva in convento ma, osservando con precisione quale strada percorre – vi invito ad andarlo a rivedere -, non è la strada del convento. Io sostengo che il finale è aperto. Non si sa se Ida torna in convento, non si sa, finale aperto. Che cosa abbiamo? Abbiamo due limiti: la strada e l’abito. Allora, l’abito: interpretazione classica, torna in convento. Invece io trovo che il finale sia costruito a eliminazione, ovvero il regista ha tolto gli elementi che possono farci capire dove va Ida. Dove va? Non abbiamo gli elementi per dirlo, piuttosto sappiamo da che cosa se ne va, cioè Ida se ne va dai panni della zia, perché li toglie, per il momento non torna in convento, quindi anche quella soluzione è sospesa, e se ne va dalla proposta di lui che, se la ripercorriamo, suona come: abbiamo fatto l’amore, poi lui la invita ad andare al mare e poi i bambini, e poi? E poi i problemi. Verrebbe da dire “splash”. Questo finale aperto mi ha fatto anche chiedere: cosa ci vorrebbe per Ida? Se non sappiamo dove va, sappiamo piuttosto che sta rinunciando a ciò che ha incontrato, alle soluzioni che ha incontrato fino a quel momento, e non senza ragioni. Rinuncia alla zia perché l’aveva vista come una persona depravata. Dunque, non è detto che torni in convento, quindi cosa ci vuole per Ida? E qui mi è tornata in mente la parabola del samaritano. Ho pensato: ci vorrebbe un samaritano. Da notare che nella parabola del samaritano – e qui riprendo una lettura di questa parabola di Giacomo Contri, pubblicata sulla rubrica che Contri ha tenuto su Tracce per tanti anni – c’è il malmenato, passano i tre, i primi due non si fermano, erano uomini di legge, passa il terzo, il samaritano e si ferma, si prende cura del malmenato, lascia i soldi all’albergatore e gli dice che se spende di più, poi torna e gli dà anche il resto. Gesù chiede chi è stato il prossimo, non il prossimo per il samaritano ma il prossimo del malmenato: il prossimo del malmenato è stato l’interveniente, è stato l’offerente, è stato l’assistente. Quindi Gesù ci invita a notare che è prossimo colui di cui si può dire che ci vorrebbe un investitore su Ida, qualcuno che la convincesse a prendere una partnership, ci vorrebbe un amico del suo pensiero, un amico della elaborazione che fa di tutto quello che le è capitato, che ha capito e che ha scoperto.

JOSEPH WEILER:
Allora, anche qui, secondo me Maria Gabriella è molto convincente sul fatto che non si fa entrare Ida nel convento, non si vede neanche il convento: e siamo d’accordo, allora lascia aperto il finale. Ma lascia aperto significa che è un invito per noi a decidere, perché decido io chi torna. La storia della strada non mi convince perché siamo d’accordo, non rimane nella città, non torna al ragazzo e sta andando a piedi in campagna, perché sappiamo che il convento è fuori città. Questo fa parte dell’invito della regista a decidere allora cosa faccia. Qui abbiamo sensibilità diverse: dal momento che ha messo l’abito, ha rinunciato alla sua identità ebrea, senza alcun dubbio, ha messo l’abito perché la zia rappresentava due cose, un altro tipo di vita – lascia stare questi voti, vivi la vita come bisogna viverla – e, la seconda, sei ebrea, questa è la tua vera identità. Secondo me ha rinunciato alla sua eredità, alla sua identità ebrea, a questo punto, in questo rifiuto dell’identità ebrea, conferma l’altra identità, la sola che conosce, quella che ha nel convento. Deve essere così, penso: se ha scelto di tornare al convento non si sa, dobbiamo deciderlo noi.

MARIA GABRIELLA PEDICONI:
Allora, io intanto mi sono chiesta subito perché ti piace questo film e in particolare questa personalità di Vanda: tu hai detto che rappresenta per Ida la donna ebrea, così inquieta. Che figura è?

JOSEPH WEILER:
Il film mi piace e secondo me non occorre spendere troppe parole, è un film splendido da tutti i punti di vista: gli attori, il tema, ecc, Quando siamo giovani, siamo molto decisionisti, il mondo è più bianco e nero, diamo giudizi. Più s’invecchia, più si vede il mondo grigio, con l’ambiguità morale, l’ambiguità identitaria, ecc. E non conosco film che mostri meglio questa ambiguità di giudizio, di identità, di interpretazione ad esempio della storia polacca. D’altra parte, il padre era nobile. E ci sono più polacchi nominati come giusti rispetto alla gente di qualsiasi altro Paese. Mi piace un film che non ci dà risposte facili. Penso che per il popolo del Meeting sia un film giusto, perché ha questa sfida, l’attrazione, l’affermazione, interpretazione classica.

MARIA GABRIELLA PEDICONI:
E Vanda?

JOSEPH WEILER:
Vanda: sarebbe facile disprezzarla. Il cineasta è molto sottile, superficialmente si può dire che questo è un film filo-ebreo, fa vedere la sofferenza, ecc. Ma anche lì ha fatto una scelta molto ambigua: la sola ebrea che si vede è una persona molto negativa. Se questa è un’ebrea, non so se avrei voluto essere un ebreo. Ha scelto come rappresentante degli ebrei una persona crudele, tu hai usato la parola “depravata”, vero? Ha scelto come ebreo una persona depravata, e io invece ho molta simpatia per Vanda, perché non ha rinunciato alla sua identità ebrea, non la nasconde. Capisco la sua amarezza e quel suicidio, che non può non provocare una tenerezza incredibile. E’ una persona che in un certo modo ha capito che la sua vita non soltanto è vuota. Vi ricordate il momento di tenerezza incredibile in cui dice: non ho mai veramente conosciuto mio figlio, l’ho abbandonato? Per me, Vanda è una persona complessa che, a prescindere dalla sua depravazione, come ha detto tu, mi provoca una simpatia, un’empatia profonda.

MARIA GABRIELLA PEDICONI:
Sarà che io sono meno tenera ma sono d’accordo sul fatto che il regista ha voluto costruire, tratteggiare questo personaggio complesso. Tuttavia notiamo che nella sua condotta, in cui prende tutto subito, vorace, di fretta, una sigaretta dietro l’altra, anche lei ha rinunciato alla soddisfazione fino al suicidio, fino a togliersi anche la possibilità di una qualsiasi redenzione.

JOSEPH WEILER:
Ma tu sei pronta a gettare la prima pietra?

MARIA GABRIELLA PEDICONI:
No, non la getterei perché sono d’accordo con Gesù.

JOSEPH WEILER:
Si può condannare, dopo che ha vissuto quello che ha vissuto, chi vuole vivere la vita in modo vorace? No.

MARIA GABRIELLA PEDICONI:
Si può riconoscere che nel suicidio lei ha fatto un omicidio verso tanti rivolto a se stessa. Ce l’aveva con tanti e ha rivolto questo odio contro se stessa.

JOSEPH WEILER:
Si, è proprio così, ma io sono meno moralista di te.

MARIA GABRIELLA PEDICONI:
Dove lo vedi, il moralismo? È una lettura, abbiamo letto.

JOSEPH WEILER:
Vuoi chiedermi altro?

MARIA GABRIELLA PEDICONI:
Abbiamo visto il film insieme e tu sei rimasto molto ammirato della posizione della Madre Superiora. Allora mi chiedevo come mai ti ha suscitato questa ammirazione e se nell’ebraismo esiste qualcosa di simile.

JOSEPH WEILER:
Devo riflettere, tra le persone nobili, qualche ebreo c’è, ma la mia ammirazione quasi totale va a questa cosa del santo che non si capisce. Ho un’esperienza: quando Wojtyla visitò la Terra Santa, ero lì con i miei bambini, ho forzato tutti e cinque a vedere ogni passo del suo pellegrinaggio. Primo, perché è una cosa storica: “Fra 20 anni potrete dire eravamo lì quando Wojtyla visitò la Terra Santa. E se un giorno vi chiedete che cosa è questa cosa dei santi di cui parlano i cattolici, avete un esempio, se c’è un umano che è santo è lui. Ho sentito questo anche nella Madre Superiora. Nella sua delicatezza, nella sua fermezza, nel suo dirle che deve andare via prima di prendere i voti, ho sentito qualcosa di nobile. Ci sarebbe stata una via molto più facile per lei e più facile per Anna Ida, ma mia figlia si chiama Anna, mia nonna Anna è polacca e mio padre è nato in Polonia e cresciuto in Grecia.

MARIA GABRIELLA PEDICONI:
Come la nonna di Gesù.

JOSEPH WEILER:
Volete sapere una storia personale che fa ridere? Mio nonno, padre di mio padre, era di Riga. Andava in Polonia a Zamosc, una città nel Sud Est della Polonia dove c’era il seminario ebreo più famoso del mondo, con il rabbino più famoso del mondo. Mio nonno finisce per sposare la figlia di questo famosissimo e importantissimo rabbino, una cosa impensabile. Sua figlia poteva sposare due persone, un genio – e mio nonno non era per nulla genio – o uno molto ricco, e mio nonno non era per nulla ricco. Ci sono anche ebrei che non sono ricchi, dai, è una battuta. Allora, come si spiega che si sono sposati? C’è solo un’ipotesi, l’ha messa incinta. La storia non finisce qui perché, venendo da Riga, in quell’epoca c’erano le zone dove gli ebrei dovevano vivere. Se non nascevano lì, non potevano viverci. Con un bambino, dovevano immediatamente tornare a Riga se no non avrebbero fatto entrare mio padre. Sono tornati a Riga e hanno fatto finta che fosse nato lì: in quell’epoca tanti ragazzi nascevano a casa, poi si andava a registrarli. “Questo Mosè è nato qui a Riga” dissero. Ma non finisce qui: quando morì mio padre, sulla sua tomba scrivemmo: nato a Riga 1907, morto a Gerusalemme 2000. Lo zio di mio padre, che aveva più o meno la stessa età, disse: “Ma come, è nato a Riga, lui è nato a Zamosc!”. Mio padre non sapeva di essere nato a Zamosc perché i suoi genitori non glielo avevano mai detto: temevano che a scuola avrebbe detto di essere polacco. Così è finita la storia. Pur essendo nato in Polonia, polacco di Zamosc, ha vissuto tutta la sua vita pensando di esser nato a Riga. Spero che siate d’accordo con me, valeva la pena dire ad Emilia di fare questo film. Ne sceglieremo un altro bello anche per l’anno prossimo.

Data

23 Agosto 2016

Ora

21:00

Edizione

2016

Luogo

Sala Neri CONAI
Categoria
Incontri