I CAVALIERI DI COLOMBO: UNA STORIA AMERICANA

Partecipa Carl A. Anderson, Supreme Knight of the Knights of Columbus. Introduce Chris Bacich, Insegnante.

Il testo dell’incontro è pubblicato nel libro “La conoscenza è sempre un avvenimento”, edizioni Mondadori Università.

 

CHRIS BACICH:
Buon pomeriggio a tutti. Oggi abbiamo proprio la grazia, direi, di avere con noi un grandissimo amico, Carl Anderson. Il signor Anderson è laureato in filosofia in Seattle, Washington, poi in legge a Denver, Colorado. E’ stato una figura cruciale nella fondazione del “Centro per la famiglia” di Giovanni Paolo II, in Washington D.C. e dal 2000 è Cavaliere Supremo dei Cavalieri di Colombo. E’ autore di un libro Una civiltà dell’amore: ciò che un cattolico può fare per trasformare il mondo, ma soprattutto, come ho detto all’inizio, è una amico, un amico nostro, un amico anche di Julián Carrόn, e allora, con grande calore, siamo contenti di sentire quello che dirà lui, adesso, di questo importantissimo movimento in America.

CARL A. ANDERSON:
Grazie, grazie tante. Sono estremamente onorato di essere con voi oggi. Papa Giovanni Paolo II parlava di una nuova primavera del Vangelo. Il lavoro do don Giussani è proprio uno dei grandi frutti di questa primavera, quindi è un particolare piacere e privilegio, per me, trovarmi qui con voi e contribuire anche soltanto in minima parte al successo di questo Meeting.
Due anni fa, papa Benedetto ci ha invitato a vivere la speranza con opere di carità, perché la speranza, come la fede, si dimostra attraverso l’amore. Proprio l’amore, l’amore per il prossimo, che esprime sia fede sia speranza è parte anche della storia dei Cavalieri di Colombo.
Quando il nostro fondatore, Venerabile Servo di Dio, padre Michael McGivney, ha fondato i Cavalieri di Colombo nel 1882, lo ha fatto proprio come pastore, pastore preoccupato dei più emarginati della società. Vedove e orfani, nel XVII secolo, in America, non avevano una rete di sicurezza sociale. Se il capofamiglia moriva, la moglie e i figli si trovavano davanti a una vita di povertà e anche, probabilmente, alla disgregazione dell’intera famiglia. Infatti, i bambini sarebbero stati affidati a parenti in grado di sostentarli, o ancor peggio, inviati a istituzioni di Stato proprio per gli indigenti. A peggiorare ulteriormente le cose, nel Connecticut, dove sono stati fondati i Cavalieri di Colombo, c’era proprio un anticattolicesimo molto profondo, che discriminava, per esempio, gli immigrati cattolici del tempo.
Il problema, però, non era soltanto un problema astratto per Padre McGivney, ma era una cosa di cui si occupava molto direttamente, e quando si parla di carità, la componente personale l’incontro tra noi e Cristo, nelle vesti degli emarginati, se posso così parafrasare Madre Teresa, è spesso più convincente delle statistiche. Padre McGivney lo sapeva di prima mano, quando all’inizio del 1882 mise a disposizione il denaro necessario per crescere un ragazzino di nome Alfred Dawnz (?) e la sua famiglia. Il padre di questo ragazzo era deceduto, lasciando una vedova e i figli in piena povertà. Soltanto l’aiuto di McGivney ha salvato il ragazzino Alfred, che non è stato strappato dalla mamma e non è stato messo in istituto. Davanti a queste esperienze personali possiamo ben comprendere come mai queste prete fosse la stessa persona che, più avanti nell’anno, avrebbe formalmente costituito una organizzazione per aiutare le vedove e gli orfani, cioè i Cavalieri di Colombo.
Lo stesso Padre McGivney aveva diversi obbiettivi quando ha fondato l’organizzazione, prima di tutto la tutela del benessere spirituale e temporale dei suoi parrocchiani. Dal punto di vista spirituale, gli uomini della sua parrocchia avevano bisogno di un gruppo cattolico, una rete di fedeli cattolici, con cui unirsi per rafforzare la loro fede. Padre McGivney sapeva che molti dei suoi parrocchiani erano tentati di aderire ad altre confraternite, alcune delle quali addirittura erano anticattoliche. Quindi Padre McGivney riteneva che i Cavalieri di Colombo fossero una vera e propria risposta autentica per aiutare coloro che avevano bisogno. Quindi, i Cavalieri si sono organizzati per tutelare l’integrità della vita familiare cattolica e anche i più emarginati e vulnerabili della società, le vedove e gli orfani.
I Cavalieri sono un esempio vivente di ciò a cui ha fatto riferimento Papa Benedetto nell’Enciclica Deus caritas est quando ha scritto che la parabola del Samaritano conduce soprattutto a una importante chiarificazione. Fino ad allora, il concetto di prossimo era riferito essenzialmente ai connazionali e anche agli stranieri che si erano stanziati nella terra di Israele. In altre parole, il Papa si riferisce alla comunità solidale di un paese e di un popolo. Questo limite viene adesso abolito da Cristo, scrive. Chiunque ha bisogno di me e io possa aiutarlo è il mio prossimo.
Inoltre, nel scegliere la denominazione Cavalieri di Colombo, la scelta non è stata casuale. Colombo è stato scelto come nostro patrono, proprio perché è stato uno dei pochi cattolici, apertamente riveriti e considerati come eroi nella storia americana del tempo, e abbiamo scelto di legare la nostra organizzazione a un eroe patriottico, questo per evidenziare il fatto che un uomo poteva essere contemporaneamente un buon cattolico e anche un buon patriota, un buon cattolico e anche un buon cittadino americano. Come gruppo impegnato per il benessere spirituale e temporale dei propri membri, l’Ordine dei Cavalieri aveva come principi fondatori la carità, l’unità e la fraternità. Il primo principio è stato quello della carità, che sarebbe poi diventato la caratteristica più distintiva dei Cavalieri di Colombo che hanno cominciato ad aiutare i loro preti, i loro parroci come aveva fatto Padre McGivney. Hanno raccolto denaro, per esempio, per la famiglia dei deceduti appartenenti all’Ordine.
Alla fine ci siamo trasformati anche una delle più apprezzate compagnie assicurative degli Stati Uniti. Sono diventati una colonna in tutto questo lavoro, e successivamente, quando i cattolici irlandesi irlandesi e italiani sono stati emarginati e discriminati dalle leggi americane sull’immigrazione, che li escludevano, i Cavalieri di Colombo tennero testa per attaccare pubblicamente questo fanatismo in modo da avere l’uguaglianza per gli immigrati cattolici. Ogni qualvolta c’era mancanza di considerazione per il benessere spirituale e temporale delle truppe cattoliche nell’esercito americano i Cavalieri di Colombo si sono sempre fatti avanti. Abbiamo anche istituito dei centri per i soldati cattolici, in modo tale che non dovessero, per esempio, rivolgersi a centri protestanti dove c’era un’attività di proselitizzazione affinché abbandonassero la fede cattolica.
Lo slogan dei Cavalieri era “tutti sono benvenuti, tutto è gratuito” proprio per testimoniare la carità cristiana autentica. Di fatto, anche se la tolleranza razziale, per non parlare poi dell’uguaglianza razziale erano ancora lontane di parecchi decenni negli Stati Uniti, i Cavalieri di Colombo sono stati applauditi, dopo la Prima Guerra Mondiale, i nostri programmi non contenevano discriminazioni degli afroamericani.
A livello spirituale, poi, i Cavalieri di Colombo hanno messo a disposizione cappellani cattolici alle truppe, integrando quelli forniti dall’esercito. Difatti, oltre 50 cappellani sono stati messi a disposizione dai Cavalieri di Colombo. Questi coraggiosi preti hanno rischiato e si sono sacrificati molto. Molti sono stati uccisi o anche feriti nel corso della guerra, tra cui anche Padre William David (?), del Massachusetts, che è stato l’ultimo americano a morire nel primo conflitto mondiale l’11 novembre 1918, anno in cui è finita la guerra.
Dopo la Prima Guerra Mondiale, i tempi di pace hanno presentato diverse sfide. Dopo la guerra, i Cavalieri di Colombo hanno continuato l’opera di carità dando per esempio formazione lavorativa e assistenza alle truppe che ritornavano in patria. Durante questo periodo, il Vaticano ci ha chiesto di incominciare anche un’opera di carità a Roma. Negli anni ’20 i Cavalieri di Colombo hanno incominciato a organizzare campi sportivi e gare atletiche a Roma, dove c’erano praticamente cinque campi atletici per i ragazzini poveri di Roma, e tutto questo gratuitamente.
Uno dei gruppi più emarginati della società americana con cui ha cominciato a lavorare strettamente il nostro Ordine dei Cavalieri di Colombo, negli anni ‘60, è stato il gruppo di coloro che avevano disabilità cognitive: sin dall’inizio abbiamo cominciato, per esempio, a coinvolgerci nelle “para olimpiadi”, oltre 40 anni fa, quando questa organizzazione è stata fondata dalla fu Units Kennedy Scraiber (?) e dal marito, era Sargent Scraiber (?), anche lui membro dei Cavalieri di Colombo. Tutta questa attività continua anche oggi.
Abbiamo anche lavorato per costruire una cultura della vita, sfidando l’aborto, siamo stati tra le prime organizzazioni negli stati uniti a fondare, a supportare negli anni ‘70 il movimento per la vita, però quello che abbiamo trovato nella nostra lotta all’aborto è che il movimento per la vita non può essere unidimensionale, ecco perché i Cavalieri di Colombo hanno sempre lavorato per sostenere le madri che scelgono, optano per la vita. Lavoriamo con le sisters of life, cioè una nuova congregazione religiosa, fondata dal fu cardinale John O’Connor, di NY e abbiamo anche contribuito ad un nuovo centro per aiutare le donne non sposate, le donne che hanno gravidanze difficili, centro che si chiama Villa Maria Guadalupe. Abbiamo anche lavorato per lenire il dolore dei genitori, sia madri che padri che hanno avuto una esperienza di aborto. Oggi 127 anni dopo la nostra fondazione nel Connecticut, la nostra capacità di applicare il principio di carità è cresciuta tremendamente. Soltanto l’anno scorso, i Cavalieri di Colombo, hanno donato 150 milioni di dollari in beneficenza e hanno erogato oltre 68 milioni di ore di servizi caritatevoli. Per esempio, adesso forniamo ecografi ai centri che si occupano delle gravidanze difficili, in modo da aiutare la donna a vedere la vita del bambino nel suo grembo, per aiutarla a scegliere la vita per quel bambino. Sappiamo che il 90% delle donne che prendono in considerazione l’aborto, una volta che vedono il bambino in grembo, scelgono invece la vita per il bambino. E quindi, semplicemente l’idea di mettere a disposizione un ecografo, per queste donne, può salvare migliaia di vite, e questo soltanto per una manciata di dollari. Siamo anche divenuti una compagnia assicurativa di successo, e cerchiamo di gestire questa compagnia secondo principi cattolici. E cerchiamo di gestire la nostra attività sulla base della dottrina sociale della Chiesa. Quindi cerchiamo di trattare i nostri clienti, i nostri dipendenti con equità. Le nostre regole per gli investimenti ci impediscono di investire in aziende che violano l’insegnamento cattolico per quanto riguarda l’aborto oppure la ricerca sulle staminali o la contraccezione, oppure la pornografia. Eppure il nostro dipartimento, quello per gli investimenti, costantemente ottiene risultati migliori rispetto agli indici standard epurs o rassels della borsa. E quindi si può effettivamente essere un buon uomo d’affari cattolico e contemporaneamente essere un buon uomo d’affari cattolico di successo.
E questo è appunto il grande servizio che papa Benedetto quest’anno, con la sua enciclica ci ha reso, perché ha posto le fondamenta per ristabilire, diciamo, una maggiore moralità nel condurre gli affari ed è proprio responsabilità dell’uomo d’affari cattolico dimostrare che il magistero della Chiesa è vero. Io credo che sia importante per tutti quanti noi, insistere come datore di lavoro, ma anche come dipendenti, investitori, consumatori, che le aziende abbiamo appunto una bussola morale che si basi sull’equità. Le aziende devono proprio agire a livello etico; prima di tutto dobbiamo insistere sul fatto che l’aspetto etico sia costante nella nostra vita, sia che ci troviamo a casa, in Chiesa, oppure sul lavoro. E proprio dovremmo sempre mirare ad un comportamento etico, non accettare nulla che sia al di sotto al comportamento etico e dobbiamo pretenderlo anche da coloro che lavorano per noi.
In secondo luogo, dobbiamo investire il nostro denaro nelle aziende con cui decidiamo di lavorare, ma sempre in maniera etica seguendo principi etici.
Siamo davanti alla crisi economica peggiore degli ultimi tempi. Dobbiamo quindi ricordare che il peggio della natura umana, cioè l’avidità, è stata diagnosticata come fattore responsabile proprio di questa crisi. Molti hanno di fatto perso di vista l’importanza dell’unità, l’importanza della comunione con il proprio prossimo e non hanno capito che questo faceva parte della soluzione. Un modello aziendale che si basa sulla comprensione della dignità di ciascuna persona e sulla responsabilità rispetto il prossimo, può essere un modello etico. Dobbiamo prendere l’esempio del buon samaritano in ogni aspetto della nostra vita, soprattutto nei rapporti di lavoro. È soltanto in questo modo, e il Papa lo chiarisce nella sua enciclica Caritas in Veritate, sarà possibile sviluppare le aziende sostenibile nel tempo. È anche importante per noi dare testimonianza alle altre organizzazione del bene che si può fare quando si serve il prossimo.
Lo scorso anno siamo stati in grado di organizzare un vertice sul volontariato in risposta alla crisi economica negli stati uniti. Abbiamo condiviso insieme ad altri il bene che possiamo portare alle nostre comunità quando decine di organizzazioni si uniscono assieme.
In questi casi, ed in altri casi, quello che riusciamo a fare per i bisognosi, può essere messo in pratica indipendente dal fatto che questo bisogno sia temporaneo o permanente. Io credo che i cattolici, le organizzazioni cattoliche, i movimenti cattolici abbiano un’opportunità eccellente, abbiano anche la responsabilità di rivolgersi ad altri cattolici, non solo, ma anche al mondo in generale testimoniando la carità. Come cristiani Cristo, appunto, ci ha chiesto di amarci gli uni con gli altri, e dare l’esempio in questa dimensione può essere veramente la forza più profonda che porta al bene. Questo tipo di cooperazione o comunione, chiamatela come volete, nell’ambito della Chiesa, con la Chiesa e con organizzazioni all’esterno della Chiesa che cercano di fare del bene, è, secondo me, il modello principale per i modelli cattolici, per i movimenti cattolici che cercano di trasformare il mondo incoraggiando la gente a dire sì a Cristo. Diciamo che il volto della Chiesa risulta molto attraente proprio quando noi abbracciamo apertamente il prossimo; ogni incontro con i bisognosi è un’opportunità per creare una civiltà d’amore. Alle volte però le statistiche, e semplicemente, il bene può essere difficile da visualizzare. Un’organizzazione come la nostra che lavora da oltre 127 anni, si basa sul fatto che ogni evento, ogni incontro avviene tra un membro dell’organizzazione e il suo prossimo. Sicuramente è uno scambio molto profondo, e forse più profondo per chi dà aiuto che per chi lo riceve. Come ci dice Papa Benedetto non sono i milioni donati, non sono il numero dei progetti, non sono le ore che si donano, non si tratta di numeri, è questione di dire sì a Gesù Cristo servendo il nostro prossimo, è vedere il volto di Cristo in tutti coloro che hanno bisogno del nostro aiuto.
Alcuni anni fa mi trovavo a Città del Messico e ho aiutato nella distribuzione di sedie a rotelle ai disabili di quella città che erano troppo poveri per comprarle da soli. L’esperienza di dare mobilità ad una persona che precedentemente doveva trascinarsi attraverso il cemento e la sporcizia è un’esperienza veramente indescrivibile. Il contributo alla dignità della persona che in questo modo sostentate e supportate è un contributo ineluttabile. Una delle persone a cui ho dato una sedia a rotelle era una ragazza di nome Fanny. Successivamente mi ha scritto una lettera, in cui chiama i Cavalieri di Colombo i suoi tesori più preziosi, i suoi angeli. Quando io e mia moglie Dorian l’abbiamo sollevata per metterla sulla sedia, il nostro dono a favore della sua dignità era chiaro, palese, però lei anche era il nostro tesoro prezioso, era lei un angelo per noi. È meglio dare che ricevere perché nel dare riceviamo molto di più che nel ricevere. Una delle cose che abbiamo ricevuto è il fatto che anche se questa ragazzina vive al Città del Messico e noi viviamo nel Connecticut quel giorno e da allora siamo sempre stati vicini, prossimi l’uno all’altro. Questo è il tipo di esperienza che i nostri membri hanno milioni di volte, quando appunto raggiungono il prossimo e lo servono. I nostri membri attraverso la fede e il lavoro per il prossimo sottolineano proprio le parole di Papa Benedetto cioè che la comunione sempre e inseparabilmente ha sia un senso, una dimensione, verticale sia orizzontale, la comunione con Dio e la comunione con i nostri fratelli e sorelle. Ecco, se prendiamo i nostri due principi nei Cavalieri di Colombo, l’unità, cioè la comunione che abbiamo gli uni con gli altri, con la parrocchia, con il vicinato, con la Chiesa, e in questo modo anche con Dio e il secondo principio, cioè quello della carità dove incontriamo Cristo e ci diamo appunto a Lui insieme ai nostri Cavalieri fratelli. Non soltanto incontriamo in quelli che aiutiamo, ma in questo modo rafforziamo anche la nostra unità, e in questo modo forniamo ai nostri membri una formazione molto più forte in comunità attraverso le opere di carità. L’esperienza, l’esperienza di tutta la nostra opera di beneficenza chiarisce quello che ha scritto papa Benedetto quando dice che non c’è alcun ordinamento di Stato capace di eliminare il bisogno di un servizio dell’amore. Chi vuole eliminare l’amore si prepara ad eliminare l’uomo come tale. Ci sarà sempre sofferenza, sofferenza che chiede disperatamente consolazione ed aiuto, ci sarà sempre solitudine, ci saranno sempre situazioni di bisogno materiale, dove l’aiuto sotto forma di amore concreto per il prossimo risulta indispensabile. I nostri membri vedendo Cristo nel prossimo e cercando la comunione con Lui sono quindi attivi in quello che il Papa proprio ha sottolineato come Caritas in Veritate, un dono di sé autentico, qualcosa che va oltre il lavoro sociale puro e semplice che può essere svolto da uno stato. Rafforzati dall’Eucaristia e in comunione con la Chiesa la nostra carità ci porta in comunione con Cristo. In tutte le sue manifestazioni anche le più dolorose. È fede in moto, in azione, concretamente, non in maniera astratta, e attraverso questa azione incontriamo Cristo stesso nella forma di coloro che vengono considerati come gli ultimi della nostra società. La nostra comprensione dell’avvenimento cristiano, l’evento di Cristo e della partecipazione ad esso, è qualcosa che noi contestualizziamo attraverso la nostra opera di carità. La carità è indispensabile per coloro che danno tanto quanto indispensabile per coloro che ricevono perché ciascun atto di carità parla proprio il linguaggio della fede e della speranza e ogni volta che si parla questo linguaggio serve a costruire una civiltà dell’amore. Grazie tante.

CHRIS BACICH:
Abbiamo del tempo per le domande, allora ne farò due o tre. Prima di tutto, se non mi sbaglio, negli Stati Uniti non c’è una realtà cattolica più numerosa dei Cavalieri di Colombo, è vero? Dato questo fatto e tutto quello che Lei ha detto adesso, c’è una grande questione che si vede soprattutto nella nostra cultura, che è sempre più la cultura del mondo, soprattutto nella cultura dei giovani, che sempre più è la cultura del mondo. La carità non è normale, magari il servizio se sei in una scuola americana, magari fai il volontariato, però la carità, come ha descritto. non è normale. allora volevo chiederle: nei Cavalieri di Colombo, che cosa aiuta i vostri a essere educati a questo gesto, che deve nascere dal proprio io e non può mai nascere da un’organizzazione, se vuole essere carità?

CARL A. ANDERSON:
Grazie, una domanda molto interessante. Credo che per una organizzazione tipo quella dei Cavalieri di Colombo, che esiste da 125 e più anni, cosa importante è proprio osservare il grande rinnovamento che ha luogo nella Chiesa oggi, dove Comunione e Liberazione è veramente un esempio meraviglioso. Dopo di che bisogna interiorizzare, partecipare a tutto questo processo di rinnovamento della Chiesa. Cosa significa, per esempio, essere cristiano oggi, in questa società, in questa cultura? In secondo luogo, tutti noi viviamo in una cultura, la cultura occidentale, che è sempre più secolarizzata. L’Europa forse ha subito questo processo un po’ più rapidamente che gli Stati Uniti, però purtroppo stiamo facendo anche noi del nostro meglio per arrivarci presto. La missione è, secondo me, come si vede nelle tre Encicliche di Papa Benedetto, quella di aiutare i cristiani a recuperare il modo di pensare cristiano, in un ambiente che, invece, ha un modo di concettualizzare le cose oppressivo e molto più secolarizzato. Quindi, appunto, l’Enciclica Caritas in Veritate riguarda “l’amare” la gente, per esempio, non sono solo “parole”. Riguarda la comprensione del prossimo, come la nostra famiglia. Per esempio, padre e madre non possono essere contenti quando il bambino va a letto ancora affamato. Questo è un modo cristiano di pensare, non secolare.
Poi, il Papa ci parla di che cos’è il significato della speranza. Non è un ottimismo psicologico o una fede in un progresso che avviene automaticamente, oppure una rivoluzione di stampo materiale. In Caritas in Veritate si parla del sincero dono di sé nel contesto della vita pratica, quotidiana, dove ci troviamo, quindi anche sul mercato, nel mondo commerciale. Quindi, se ci troviamo nella primavera del Vangelo, allora dobbiamo proprio recuperare questo senso, il senso di essere singolarmente cristiani. L’evento, l’avvenimento di Cristo, cosa ci porta di nuovo?
Papa Benedetto, in Spe salvi, scrive che quelli che hanno speranza vivono in maniera diversa. Quindi, in che modo si manifesta questo essere diverso del cristiano?
Questa è la grande sfida davanti a noi. Si presenta in maniera concreta, negli Stati Uniti, questa sfida. Negli Stati Uniti, la nostra società è giovane, però è una sfida che si presenta anche in società che hanno invece una più lunga tradizione di cristianesimo, e, in certo qual modo, la situazione è un pochino più difficile in Europa, perciò la cosa peggiore che possiamo fare è abbracciare, accettare lo status quo e adottare un atteggiamento conservatore: guardare, un miracolo enorme, quale il rinnovamento della Chiesa che ci passa davanti e lasciarlo passare perché siamo semplicemente soddisfatti.

CHRIS BACICH:
Farei una seconda domanda. Lei ha parlato di “civiltà d’amore” e ha scritto anche un libro su questo tema. Come possiamo, i Cavalieri di Colombo e tutti noi cattolici, partecipare alla nuova evangelizzazione, cioè come possiamo annunciare, come un “american business man” può partecipare a questo annuncio di una civiltà d’amore? Perché chiedo questo? Perché mi sembra che una civiltà d’amore sia più di una civiltà etica.

CARL A. ANDERSON:
Non sono tanto facili queste domande che mi fai! Tornerei al discorso Deus caritas est, Dio è amore. Per comprendere veramente questo punto in maniera profonda, guardiamo il messaggio cristiano, quando per esempio leggiamo in San Paolo che nulla ci può separare da Cristo, e poi guardiamo il crocifisso, una delle modalità più dure, più dolorose di morire: possiamo torturarlo, possiamo ucciderlo, però non c’è nulla che ci possa separare dal Suo amore. Questo è il messaggio cristiano, dopo di che, cercare di amare il nostro prossimo, come lui ha amato noi. Non si tratta di un imperativo etico, si tratta di qualche cosa di molto più profondo. Quindi, se riusciamo a cogliere questo punto, come un seme, allora possiamo afferrare qualche cosa. Se riusciamo a fare questo, allora tutto cambierà. Se si opera, per esempio, a livello commerciale, come si fa a vendere un prodotto che voi in prima persona non comprereste? Oppure come si fa a vendere un prodotto per un prezzo che il venditore stesso non pagherebbe mai? Oppure, come si fa a pagare uno stipendio per cui nemmeno chi lo paga potrebbe mai lavorare? Tutte queste cose sono oggetto di giustizia, però quello che rende possibile la giustizia è l’amore del prossimo. Questa è proprio l’eredità cristiana. Tuttavia, in una società secolarizzata, abbiamo dimenticato tutto questo. Dipende da noi, in certo qual modo, dare testimonianza di questo, e io credo che ciò sia il significato di quello che ci dice Giovanni Paolo II, quando, in Familiaris Consortium, scrive che l’uomo è creato dall’amore, creato per l’amore, e la sua vita non può essere più compresa quando viene separata dall’amore. Perciò la vocazione e il senso stesso della persona è una vocazione proprio all’amore. L’unica forma di comprensione, coerente con la grande dignità della persona, è proprio questa vocazione all’amore. E l’unico luogo dove vediamo rivelata questa vocazione è nella crocifissione. Quindi, quale altra interpretazione si può dare rispetto a questo? A livello politico, sociale, filosofico, quale altra interpretazione si potrebbe dare? Il nichilismo
della cultura postmoderna ha creato proprio un vuoto, un grande vuoto circa quello che è il significato della persona, dell’essere una persona. In questo vuoto c’è il Vangelo. Quindi, anche se il nichilismo della cultura contemporanea è opprimente, allo stesso tempo apre uno spiraglio, delle opportunità, che forse la Chiesa non ha più avuto dai tempi di Costantino o di Sant’Agostino. Quindi, se si prende il comandamento di amare il prossimo, ci si domanda: è un comandamento reale, vero, oppure è soltanto un idealismo? Se è vero, allora, quale altra civiltà è degna della persona umana, se non la civiltà dell’amore, la cultura della vita?

CHRIS BACICH:
Una domanda, adesso, da americano, perché lei ha parlato del fatto che avete scelto un eroe cattolico, Cristoforo Colombo. Ieri ho avuto il privilegio di essere il moderatore dell’incontro col professor Weiler, che ha parlato dell’esperienza di educazione in America, dal punto di vista ebraico. Lui e i suoi confratelli hanno ben presente che è una sfida, come dire, trasmettere una coscienza ebrea negli Stati Uniti e lui apertamente ha detto che più del 90% degli ebrei negli Stati Uniti non è che cercano in qualche modo di seguire la loro cultura e la loro religione. Anche negli Stati Uniti si vede che tante volte uno è prima americano e poi cattolico. Allora, con una così grande fraternità di cattolici, come vede la possibilità di aiutare gli americani cattolici a cogliere sempre di più e personalizzare sempre di più il dono della fede?

CARL A. ANDERSON:
Prima di tutto dobbiamo capire una cosa, che la buona catechesi è necessaria per riuscire ad avere una forte e robusta formazione dottrinale. Tuttavia ciò non è sufficiente. Soltanto se viene interiorizzata e vissuta diventa tale, altrimenti è una astrazione. La risposta della vita cristiana deve quindi essere più dell’articolazione di una dottrina pura e semplice e più dell’espressione di una posizione etica. Deve essere una esperienza vissuta, concreta, che si pone proprio davanti alle sfide quotidiane. Quindi, a quello che dice anche Madre Teresa, quando parla della povertà del bambino e di come, appunto, si viva, bisogna credere, perché lei ha sperimentato in prima persona la vita cristiana. L’esperienza di comunità dev’essere qualcosa di più, qualcosa che va oltre la tradizione culturale, dev’essere proprio un atto della realtà. Secondo me i cattolici, negli Stati Uniti, devono smettere di sentirsi imbarazzati. Devono rendersi conto che hanno la responsabilità di evangelizzare la cultura, la cultura americana. Questo non necessariamente significa che tutti devono andare in Chiesa cattolica, oppure votare soltanto i cattolici quando si devono attribuire delle cariche. Significa che gli ideali verso cui si muove la società, gli obbiettivi, la teleologia, come direbbe magari un filosofo, devono essere basati sui valori e principi cattolici. Cristo sta sopra tutte le culture e attrae tutte le culture a sé. Quindi io penso che gli ebrei abbiano capito quali sono i pericoli del vivere ghettizzati. I cattolici, però, non devono compiere lo stesso errore. Grazie tante.

CHRIS BACICH:
Personalmente sono stato colpito da tre cose che sono venute fuori in questa presentazione e nella nostra discussione. Prima di tutto la sua insistenza sulla necessità di guardare, di guardare i miracoli che stanno succedendo adesso nella Chiesa. Una chiarezza così non si trova dappertutto, la chiarezza nel guardare i miracoli che stanno succedendo ora nella Chiesa. Questa cosa mi ha veramente colpito molto.
La seconda cosa è che, alla fin fine, i miracoli cosa dicono? Perché succedono? Per trasmettere una cosa, per chiarire una cosa, l’amore che uno ha per me. Vedendo questo amore, solo vedendo questo amore, sono cambiato io, perché capisco che è possibile che io cambi, che il mondo cambi. Questa cosa è veramente, veramente spettacolare, e la ringrazio tantissimo.
La terza cosa è che questo cambiamento, se è vero, tocca tutto. Per utilizzare un esempio anche semplice e stupido, ma essendo un insegnante, coi giovani faccio così ogni tanto, se perdo una mano, tutta la vita cambia, no? Se un cambiamento è vero vuol dire che tutta la vita viene toccata, e cioè vuol dire che tutta la cultura cambia, e questo è il cambiamento che porta il cristiano, cosciente di questo amore, perché guarda all’avvenimento dell’amore.
Allora veramente grazie, veramente, da amico, da uno che vorrebbe sempre seguire lei negli Stati Uniti.
Grazie da tutti noi, da tutti gli amici del Meeting. Grazie.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

28 Agosto 2009

Ora

15:00

Edizione

2009

Luogo

Sala A1
Categoria
Incontri