GIOVANI Vs CRISI. UN CAFFÈ CON GLI STARTUPPER: GAMES

Partecipano: Franco Gonella, Founder dPixel Srl; Alberto Onetti, Chairman di Mind The Bridge Foundation; Andrea Postiglione, CEO and Co-Founder di Mangatar Srl. Introduce Santiago Mazza, CEO di Fotonica Srl.

 

GIOVANI Vs CRISI. UN CAFFÈ CON GLI STARTUPPER: GAMES
Ore: 13.45 Sala Mimosa B6
Partecipano: Franco Gonella, Founder dPixel Srl; Alberto Onetti, Chairman di Mind The Bridge Foundation; Andrea Postiglione, CEO and Co-Founder di Mangatar Srl. Introduce Santiago Mazza, CEO di Fotonica Srl.

SANTIAGO MAZZA:
Buongiorno a tutti, grazie di essere qui oggi nuovamente; è un ciclo che stiamo portando avanti questa settimana, dove stiamo parlando appunto di start-up, quindi giovani, giovanissimi, versus crisi. Vedo tantissimi giovani, qualche meno giovane, è bello vedervi qui. Ieri abbiamo incontrato alcuni amici startupper, dove grazie alla loro testimonianza abbiamo visto che ci sono delle speranze, delle possibilità concrete per poter uscire dalla grave crisi che stiamo attraversando e che si accentra in un’emergenza uomo. Ieri abbiamo visto come ragazzi giovani, alcuni anche meno giovani, attraverso il proprio talento e il proprio lavoro, sono in grado proprio di ridestare una identità di persona, perché soltanto se sai chi sei puoi veramente essere una persona disposta al dialogo sincero con te stesso ed a un confronto costruttivo con la realtà. Abbiamo anche apprezzato come questi ragazzi, gli startupper, stiano cambiando, facendo ogni giorno il proprio lavoro, mettendosi in gioco, dove il lavoro appunto non lo cercano, ma se lo creano, in alcuni casi con l’ambizione di cambiare il mondo intero. Se pensiamo ad alcuni esempi che sentiamo mediaticamente, e ad alcuni strumenti che usiamo quotidianamente, per esempio Google, dove due ragazzi, Larry Page e Sergey Brin, dopo sedici anni da quando hanno creato Google, oggi occupano 36 mila persone al mondo, con una media di assunzione di quattro persone al giorno, quindi se confrontiamo questo anche con altre realtà, in qualsiasi altra parte del mondo, in un momento così difficile, ci accorgiamo che è un esempio interessante, nonostante la grande e grave crisi che stiamo vivendo. Abbiamo visto che per sviluppare una nuova impresa con un forte connotato innovativo, devi essere disposto al sacrificio, al confronto, disposto anche a sbagliare e nuovamente ricominciare. Dove l’obiettivo primario non è quello di fare i soldi. Quindi ogni startupper, dopo sentiremo anche qualche testimonianza con i nostri ospiti, non ha per obiettivo quello di fare i soldi, anche se chiaramente economicamente i soldi servono per mandare avanti un’impresa. Ma l’obbiettivo non è quello. L’obiettivo primario è vedersi gratificati operativamente, e apportare e adoperare la tecnologia per cambiare il mondo in cui viviamo. È vero che i soldi servono, ma non sono appunto il fine. Di esperienze positive in Italia ne abbiamo tante, tantissime, e anche negli ultimi anni, grazie ai nostri amici, si sta portando avanti questo cambiamento. Pensiamo ad esempio ad Andrea Vicari, laureato in Ingegneria informatica al Politecnico, che attraverso un lavoro al MIT di Boston, dove indagava personalmente sui comportamenti e i sentimenti delle persone attraverso la tecnologia digitale, ha l’idea di sviluppare una piattaforma che unisca i social network con la localizzazione delle persone, consentendoci di trovare potenziali amici in ogni luogo. Nel 2011 la sua piattaforma era pronta. Aveva ormai speso tutti i suoi soldi, si era ridotto a dormire in uno sgabuzzino quando, nel 2012, la sua start-up viene acquistata da Facebook, per una cifra che si aggira tra i 5 e i 15 milioni di euro. Questo ragazzo qua è un ragazzo made in Italy, nel senso che è un italiano come lo siete voi. Questo è Andrea il giorno dopo. La cosa curiosa è stata che il giorno dopo che è avvenuta questa grande soddisfazione, anche economica, era a lavorare a Facebook, il giorno dopo. Quindi, ecco come anche in quel caso lì il lavoro in sé non ha come fine quello di fare i soldi. Il 2012 è stato ricco per gli startupper made in Italy. Vito Lomele ha fondato la sua azienda, JobRapido, nella sua cucina di casa. Dopo sette anni la sua start-up viene comprata da un gruppo inglese per circa 30 milioni di euro. Così come RedMatica, che fa musica e si trova tra l’altro anche vicino, in Emilia, dove il terremoto ha colpito l’anno scorso. Questa azienda qua, made in Italy, fa parte di Apple. Sono tutti esempi insomma che indicano che il nostro dna non ha niente da invidiare a quello che è il Dna delle persone che si trovano in Silicon Valley. In qualsiasi parte, in Argentina, da dove vengo io, quindi in qualsiasi parte del mondo, veramente ci sono delle opportunità che questa crisi pone davanti per crearci il nostro lavoro. Non tutte le start-up sono destinate a essere cedute a grossi player esteri: ieri abbiamo visto con la start-up CEO Lab, che anche in Italia si possono fare delle aggregazioni, si possono fare degli exit. Le start-up, non so sinceramente se cambieranno il mondo e ci tireranno fuori dalla crisi che stiamo vivendo in questo momento dal punto di vista economico, però son convinto che possono aiutare molto voi giovani a capire chi siete, a ridarvi e a ridarci quella che è la nostra identità di persone. Potrebbe sembrare una favola, ma a chi non piacciono i giochi? Il tema centrale che abbiamo oggi sulle start-up è i Games, come dalla passione per i giochi, nel riconoscere il proprio talento, si può sviluppare una grande start-up. Andrea, la tua start-up si chiama Mangatar, grazie per essere qui con noi, oggi. Ti chiedo di raccontarci da dove nasce la tua idea. Oggi siamo qui al Meeting di Rimini ad Agosto del 2013: a che punto è il tuo progetto, da dove sei partito qualche anno fa e oggi a che punto sei? Grazie.

ANDREA POSTIGLIONE:
Grazie a te, grazie innanzitutto al Meeting per l’opportunità di raccontare un po’ quella che è la nostra esperienza. Non è un caso, e non credo nel caso, che sono qui con Alberto Onetti e con Franco Gonella, che rappresentano due punti di svolta essenziali nella nostra storia di startupper; perché il nostro percorso inizia poco più di due anni fa, più o meno nel periodo in cui stava per nascere la mia bambina, che è qui ad ascoltarmi, e anche questo non è un caso, perché per me questo è stato un percorso contemporaneamente di crescita personale e professionale. Circa due anni fa, abbiamo deciso, con un progetto che era ancora in nuce, era ancora veramente in uno stato primordiale, non era ancora una start-up, a dire la verità, di fare il passo che ha significato anche lasciare la propria occupazione, reinventarsi, fare una scommessa di tipo imprenditoriale. E abbiamo pensato di partecipare alle selezioni di Mind the Bridge, dove siamo selezionati per partecipare a quello che si chiama boot camp, che ci ha dato la possibilità di riconoscerci, di identificarci finalmente in società..

SANTIAGO MAZZA:
Cos’è il boot camp, così magari…

ANDREA POSTIGLIONE:
Boot camp… quella di Mind the Bridge è stata un’iniziativa di un paio di giorni, in cui c’è stata la possibilità, per progetti come il nostro start-up nascenti, allo stato embrionale, di confrontarsi con persone che portavano il loro contributo di esperienza, di professionalità, fornendoci strumenti innanzitutto per misurarci, per capire dove eravamo arrivati, e soprattutto quali erano gli strumenti per intraprendere questo percorso. Per cui grazie ad Alberto, Charles Versacci, Marco Marinucci, insomma altri interventi molto illuminanti, in quei due-tre giorni ci siamo resi conto di qual era il nostro vero percorso. Ricordo che la svolta c’è stata nel viaggio di ritorno da Torino. Allora eravamo ancora a Salerno, il nostro gruppo nasce a Salerno, anche se ormai siamo milanocentrici, ma durante il viaggio di ritorno ci siamo resi conto del percorso che stavamo per intraprendere e del fatto che ci saremmo dovuti dedicare al gaming con tutte le energie possibili. Questo percorso ci ha portato avanti sia attraverso Mind the Bridge, sia altri eventi delle competizioni che faccio. Quindi la possibilità di andare in giro per l’Italia a conoscere idee, ragazzi, team di persone motivate, è essenziale per creare una cultura di impresa.
SANTIAGO MAZZA:
E la vostra idea poi qual è stata?

ANDREA POSTIGLIONE:
E’ stata quella di realizzare un gioco, un gioco di carte ambientato nel mondo del fumetto giapponese, il Manga. Abbiamo portato anche un video, che può dare un’idea di quello che è il Manga, come l’abbiamo sfruttato e come ci siamo presentati dopo Mind the Bridge al mondo. Magari lo vediamo un attimo, se è possibile.

“Video”

SANTIAGO MAZZA:
Complimenti.

ANDREA POSTIGLIONE:
E questo è proprio il video che realizzammo per la finale di Mind the Bridge di Milano, che rappresenta bene quello che noi stiamo portando come progetto. Il nostro è un team di cinque persone, dove ci sono sviluppatori di software, ci sono illustratori, io mi occupo dell’esperienza utente, quello che i giocatori incontrano durante il gioco. Noi fondamentalmente abbiamo portato dei singoli talenti in un progetto più complesso. Questo percorso poi è andato avanti, abbiamo partecipato a diverse competizioni, che ci hanno permesso da un lato di avere visibilità, dall’altro di affrontare il tema fondamentale, che poi un’azienda come la nostra deve affrontare, cioè come ci si finanzia? E qui entra in gioco il ruolo degli investitori: è importante, perché è un modo diverso, innovativo, rispetto ad altri.

SANTIAGO MAZZA:
E’ molto interessante, perché sei molto giovane, come sei partito, quindi come ti presenti là, davanti, con un’idea in mano, con un video in mano, a chiedere dei soldi a un finanziatore che deve rischiare con te, qualcuno che ti dà comunque dei soldi in mano per portare avanti il tuo progetto. Come hai fatto?

ANDREA POSTIGLIONE:
Si fa in un modo che abbiamo scoperto proprio attraverso questo percorso. In Italia siamo abituati a vedere dei progetti farraginosi, con centinaia di pagine, business plan verbosi. Sono utili, ma fondamentalmente non ti permettono di catturare l’attenzione degli investitori. Lo strumento principe per parlare con gli investitori è quello che si chiama pitch, cioè la possibilità di raccontare il tuo progetto, la tua idea, il tuo team, le tue aspettative per il futuro in meno di cinque minuti, attraverso magari qualche slide. Ad esempio io ho portato le nostre slide, giusto per darvi un’idea, e noi in cinque minuti dobbiamo raccontare che cos’è un’azienda come la nostra, quindi di che cosa ci occupiamo. È un’azienda che produce videogiochi, e lo fa in un determinato campo, quindi, ma anche social, sul web e sul mobile. Noi facciamo giochi che sono sul web, fondamentalmente. Qual è il contesto? E’ ambientato nell’universo del fumetto giapponese, come stavo dicendo prima. Quale risultato abbiamo ottenuto fino adesso? Noi abbiamo realizzato un primo gioco che è Mangatar Saga, col quale abbiamo raggiunto e superato i 60 mila utenti, qui riporta ancora i 55 mila ma è di qualche mese fa, raggiungendo un pubblico molto vasto. Un’azienda di giochi, anche se nasce in Italia, è globale dal giorno uno.

SANTIAGO MAZZA:
Questo comunque perché vivi il digitale…

ANDREA POSTIGLIONE:
Perché vivi il digitale: questo è un fattore di cui, chi intende intraprendere la start-up del digitale, deve essere consapevole. Quindi una grande attività di relazione sui social, la possibilità di poter dialogare con utenti in diverse parti del mondo: noi abbiamo moltissimi utenti dall’America Latina, dagli Stati Uniti, dalla Spagna, dalla Francia, dalla Thailandia, dal primo giorno. Grazie poi all’incontro con il nostro investitore, siamo riusciti a maturare, abbiamo sviluppato un secondo gioco che si chiama Dengen Chronicles, che è questo qui, che nasce proprio grazie al nostro incontro con dPixel, con Digital Investment, che ha creduto nel nostro progetto, ha creduto nel nostro team, han detto “ok, avete realizzato un prototipo, avete dimostrato di riuscire a raggiungere un gran numero di utenti con forze molto limitate, noi crediamo in voi, con questo budget ci poniamo dei nuovi obbiettivi”. E questo strumento serve fondamentalmente per raccontare che direzione si vuole prendere, che direzione si vuole dare alla propria iniziativa, raccontando un modello di business, come si fanno soldi con la start-up. Perché è vero, non è l’unico fine, però è chiaro che è fondamentale saperlo raccontare, rendersi conto di qual è la propria identità, sia come progetto, sia come capacità del team, sia anche come obiettivo di impresa. Nel nostro caso noi facciamo dei giochi gratuiti, si chiamano Free to Play, cioè è possibile iscriversi e giocare gratuitamente. Tutti ci chiedono: dove li fate i soldi? Li facciamo fondamentalmente vendendo degli elementi di personalizzazione, cioè arricchendo l’esperienza dell’utente, e attraverso delle microtransazioni, che è un po’ la chiave di volta dell’economia digitale da qualche anno a questa parte, cioè la possibilità di rivolgersi ad un pubblico molto vasto e di ricevere delle transazioni anche molto piccole di uno, due, tre euro, che permettono di creare un business sostenibile. Attenzione, noi stiamo parlando comunque di un mercato molto vasto, il mercato del gaming genera oltre 14 miliardi di dollari globalmente, è un mercato dove esistono dei competitors affamati e agguerritissimi, con cui bisogna confrontarsi tutti i giorni, anche quelli più grandi, però il bello di questa cultura digitale è che si può provare a competere con colossi come Zynga e anche con progetti nati nel famoso garage dei nostri sogni.

SANTIAGO MAZZA:
Qui in Italia diciamo i bar…

ANDREA POSTIGLIONE:
E la prova è che se andiamo a vedere la classifica dei giochi più utilizzati su Facebook, tra i principali, i primi venti, una decina di giochi nascono dalle grandi major dei colossi, e altri diesi sono indipendenti, quindi c’è spazio, c’è la possibilità di competere su questo mercato, che mi sembra interessante.

SANTIAGO MAZZA:
Wow, complimenti. In quanti siete oggi nel team?

ANDREA POSTIGLIONE:
Oggi siamo cinque, ve li voglio un attimo far vedere nella versione Manga, per farvi capire che sotto c’è una grande passione, fondamentalmente una passione per il gioco, una passione per il fumetto, che è un po’ quello che è all’origine, ma anche una competenza, nel senso che tra noi ci sono tre sviluppatori, uno in particolare è dedicato al mondo del mobile che è un po’ la nuova frontiera, ci sono io e c’è un illustratore, o un Mangarca, come si dice in gergo tecnico, un vero maestro del Manga.
SANTIAGO MAZZA:
Che obiettivi avete per il prossimo futuro?

ANDREA POSTIGLIONE:
Abbiamo degli obiettivi ambiziosi, non faccio fatica a dirlo, perché bisogna essere ambiziosi. Intendiamo innanzitutto raggiungere dei grandi numeri con questo gioco, e lo stiamo facendo. Abbiamo da pochissime settimane lanciato questo nuovo gioco, Dengen Chronicles, che ha già raggiunto nella versione beta quasi tremila utenti. In tre settimane, non è male, soprattutto perché non abbiamo ancora la versione mobile, e, notizia proprio di questi giorni, Microsoft e Nokia ci hanno selezionato per un programma che si chiama AppCampus, che ci vedrà impegnati ad Helsinki per tutto il mese di settembre, per la realizzazione dell’applicazione mobile in esclusiva per Windows Phone, a cui seguirà poi la versione per iPhone e per Android, che credo che ci darà una visibilità e una capacità sicuramente più interessanti.

SANTIAGO MAZZA:
Complimenti! Colgo l’occasione anche per farti un’ultima domanda in merito alla tua esperienza all’estero. Adesso andrai a fare sicuramente col tuo team quest’esperienza nuovamente fuori rispetto a quello che hai già fatto anche con Mind the Bridge: cosa significa per te personalmente, e mi metto anche io nei tuoi panni visto che anche io sono papà da cinque anni e mezzo, qual è la responsabilità, oltre che chiaramente per la tua impresa, anche per la tua famiglia in qualche modo, da neogenitore, quindi cosa significa per te e per la tua famiglia andare all’estero?

ANDREA POSTIGLIONE:
Innanzitutto è una grande responsabilità mia nei confronti della mia famiglia, perché chiedo dei sacrifici. Ne ho chiesti in questi due anni e spero di ripagarli, certo ho la fortuna di fare un lavoro bellissimo, perché una delle motivazioni che ci portano a fare questo percorso e a fare start-up è anche quello di realizzare un sogno, per cui c’è la soddisfazione di fare qualcosa di molto bello e la responsabilità che si sente di dover realizzare qualcosa di concreto per la famiglia, per gli investitori, per chi ti ha aiutato agli inizi, i famosi amici che ti sostengono nei primi mesi, e in parte anche un dovere sociale, quello di riportare qualche cosa a casa. Noi abbiamo avuto la fortuna di fare questa esperienza a San Francisco, l’anno scorso, a Mind the Bridge, bellissima; i ragazzi sono stati entusiasti e hanno riportato davvero uno spirito che noi stiamo cercando di utilizzare tutti i giorni nel nostro ufficio: facciamo finta di essere in Silicon Valley, lo dico proprio senza mezzi termini.

SANTIAGO MAZZA:
Su questo tema qua faccio un piccolo inciso. Ho avuto anch’io la fortuna di fare l’esperienza in Silicon Valley, non come te di start upper, ma di visitatore insomma di altri amici e devo dire che lo stesso spirito, lo stesso ambiente, denotato chiaramente sul digitale o sulla tecnologia, che si vive la in Silicon Valley, si respira in questa settimana qui al Meeting di Rimini. Voi siete ragazzi realmente vivi, vi ponete delle domande, andate al fondo delle questioni, partecipate a delle mostre e a dei convegni. In Silicon si percepisce proprio questa atmosfera, questo clima vivo, pieno quotidianamente, quindi capisco quando ti riferisci a quello che hai visto.

ANDREA POSTIGLIONE:
Sì, è proprio uno stato mentale evidentemente e la stessa cosa la vogliamo fare adesso con questa bellissima opportunità di crescita che ci viene data da AppCampus. Ci confronteremo con un mercato, la Finlandia, che è uno dei luoghi dove i giochi più importanti sono nati negli ultimi anni e ci sono degli esempi clamorosi come Clash of Clans, che è nelle classifiche da mesi e mesi su iPhone e che riesce ecco, ritornando al dato finanziario, riesce a generare qualcosa come due milioni e mezzo di euro al giorno. Angry Birds, che penso un po’ tutti avranno sentito, nasce lì, perché lì c’è una cultura del gioco e noi speriamo di andare a pescare a piene mani in questo tipo di cultura e poi riportare, dare qualcosa al nostro Paese, che è anche il motivo per cui io ho pensato e accettato con grande piacere quest’invito. Uno degli impegni che chi fa start-up e chi fa start-up in Italia da un paio d’anni come noi si deve porre, è quello di restituire qualche cosa al sistema, parlando della propria esperienza, cercando di coinvolgere ragazzi e noi lo continuiamo a fare. Parlavo di Salerno prima, perché parte del nostro team viene dall’università di Salerno; abbiamo avuto la fortuna di incontrare dei docenti molto interessati al nostro progetto e noi cerchiamo in ogni occasione di restituire qualche cosa ai ragazzi che vogliono intraprendere questo percorso. Anche nella provincia italiana, a Potenza per esempio, c’è moltissimo fermento e chi ha fatto questa esperienza fa bene a raccontarla e eventualmente anche a dare qualche consiglio, visto che ci ha già sbattuto la testa.

SANTIAGO MAZZA:
Complimenti veramente. Ci fa onore di averti qui con noi, perché questa filosofia del give-to-back, è fondamentale. Quindi grazie veramente.
Ieri abbiamo incontrato qui, nel nostro panel, Gianluca Dettori, che saluto, che ci ha presentato un po’ la sua azienda, il suo venture che si chiama dPixel, insieme alla strategia che stava portando avanti con il Barcamper. Franco, che insieme a Gianluca hai creato questa iniziativa, dal venture al Barcamper, tu vedi quotidianamente tantissimi ragazzi, cosa vuol dire ascoltare seriamente un ragazzo e i suoi progetti? Cosa guardi in questi ragazzi qua?

FRANCO GONELLA:
Grazie a voi. Domanda difficile. Intanto magari faccio un passo indietro e racconto un attimo il nostro mestiere, cosa facciamo come investitori. Noi siamo un team che di professione fa scouting di idee imprenditoriali nel mondo digitale. Abbiamo fatto investimenti in società che fanno software per il risparmio energetico nei data-centers, abbiamo fatto investimenti in una società come quella che c’era ieri, se non sbaglio, che faceva CEO SM. Non siamo specializzati in nulla per definizione, quindi non siamo degli imprenditori, ma siamo quelli che aiutano l’imprenditore a crescere. Cerchiamo delle idee e dei talenti imprenditoriali. E questa forse è la parte più difficile del nostro lavoro perché, come dicevi giustamente tu, da noi vengono giovani, meno giovani, che spesso hanno soltanto un PPT, hanno un video di presentazione, hanno del materiale, hanno un sogno e ce lo presentano. Allora forse qui è importante che spieghi un attimo quali sono i criteri per noi, per gli investitori, e per tutti quelli che fanno questo mestiere. Intanto bisogna distinguere fra alcune componenti che sono più di business da altre che sono più di carattere personale. Riguardo al business, quando si deve giudicare un progetto imprenditoriale, vediamo una serie di cose classiche: il settore in cui l’azienda compete, se ci sono degli altri competitors, se il progetto imprenditoriale può scalare o meno. Pero mi volevo soffermare sul tema invece della persona, su che cosa cerchiamo nella persona. Cerchiamo una domanda o cerchiamo un team? Questa è la prima riflessione che porterei al pubblico che ci ascolta, perché in realtà l’imprenditore spesso non ha tutte le competenze per fare tutto e quindi magari c’è chi è molto bravo nella parte di marketing, però è meno bravo nella parte di sviluppo, perché magari uno viene da economia mentre l’altro ha fatto informatica, c’è chi è bravo a fare il web designer, insomma, chi vuole portare avanti un’idea imprenditoriale, chi vuole fare impresa non la fa da solo, ha bisogno di qualche compagno che insieme a lui cerchi di costruire questo sogno. Quindi una delle cose che guardiamo sicuramente è la completezza del team imprenditoriale, anche se valutiamo anche persone singole. Quello che cerchiamo è anche che ci sia una completezza nel tema imprenditoriale. Venendo invece alle caratteristiche imprenditoriali, una cosa abbiamo amaramente scoperto ed è stata la cosa più importante. Non so chi di voi è un po’ familiare con il mercato del venture capital. Che cosa succede? Succede che viene una persona che ha un’idea, questa viene finanziata e questi finanziamenti hanno degli ammontare diversi. Ci possono essere degli investimenti molto piccoli di ventimila o venticinquemila euro, ci sono tipicamente degli investimenti un po’ più sostanziosi, cinquecentomila euro o un milione, e poi ci sono quelli che vengono chiamati di classe A da due o tre milioni fino alla classe B da dieci milioni e oltre. Da noi vengono quelli allo stadio iniziale, chi non ha ancora ricevuto finanziamenti, finanziamenti piccoli, tipo family and friends e che si avvicina per la prima volta a un fondo. Che cosa guardiamo quindi noi nelle persone? Come vi dicevo prima, abbiamo scoperto che la cosa forse più importante sono intanto la resistenza al dolore, perché fare l’imprenditore è una cosa bella, entusiasmante, ma come detto prima è una cosa dolorosa, perché bisogna pensare a tutto, bisogna essere sempre sul pezzo, non ci si può arrendere, le difficoltà sono continue, nuovi competitori, il prodotto che è in ritardo, il mercato che non risponde, il bisogno di cambiare la grafica eccetera. Quindi il tema della resistenza al dolore è fondamentale. Non basta l’entusiasmo, bisogna avere proprio la volontà, come avevano i nostri padri, perché non è tanto diverso fare l’imprenditore via web da quello che hanno fatto i nostri padri, magari facendo un’azienda meccanica. La resistenza, la fatica, le difficoltà sono uguali, cambia soltanto il contesto in cui ci troviamo a farle. Quindi questo per noi è fondamentale. Ma c’è anche un lato oscuro, quello dei rate off, quello del fallimento. In Italia è visto male, negli Stati Uniti è un evento normale della vita. Da cosa sono stati causati? Sostanzialmente non tanto da problemi di business, ma proprio dal fatto che il team non era quello che ci aspettavamo. E’ normale il fatto che ad un certo punto le cose non possano andare bene. Dobbiamo cercare di impegnarci per fare tutto nel migliore dei modi possibili, però non possiamo prevedere tutto. Noi mettiamo dei soldi all’interno di aziende che possono anche chiudere dopo sei mesi o dodici mesi. Anche se è una eventualità che non ci auguriamo, però fa parte del nostro lavoro. Allora tornando alla tua domanda, cerchiamo appunto delle qualità umane a trecentosessanta gradi. Persone che non abbiano soltanto una competenza tecnica, ma che abbiamo voglia, entusiasmo e resistenza. Una cosa ci piace: incontrare delle persone che coniughino un certo strabismo, che abbiano visionarietà e capacita di fare execution cioè di lavorare il giorno dopo. È difficile questo, perché vuol dire essere grandi imprenditori, avere grandi visioni che però da sole non bastano. Non basta dire: adesso voglio rivoluzionare il settore dei videogames. Va bene, ok, ma come lo fai domani? Ecco, la capacità di coniugare queste cose non è facile. Noi abbiamo fatto investimenti in persone anche molto giovani, credo che forse il più giovane su cui abbiamo investito avesse ventun anni, non era ancora laureato, ci ha portato un’idea molto brillante, un’idea anche di difficile realizzazione. Perché abbiamo scelto lui o anche altre persone che erano meno giovani? E’ difficile per noi valutare se poi veramente la persona abbia le caratteristiche che ci aspettiamo, ovviamente il tutto avviene attraverso una serie di incontri, che spesso hanno una contenuto altamente professionale. Dopo che ci viene presentato il pitch e dopo che vediamo che l’idea e il team imprenditoriale possono essere interessanti, inizia purtroppo un processo abbastanza snervante, di cui Luca è stato testimone, in cui iniziamo a vedere tutti i problemi di tempo e di soldi.

ANDREA POSTIGLIONE:
Volevo fare soltanto un inciso che credo che sia importante. È snervante perché va a fondo delle cose ed è giusto che sia così, ma è sempre meglio che aspettarsi che le cose cadano dall’alto. Si tratta di fare concretamente le cose, di dimostrare concretamente che si vuole realizzare qualche cosa. Io preferisco mille volte fare un processo snervante in cui mi si vengono a contare i peli in testa, per sapere se sono un imprenditore degno di fiducia, piuttosto che fare processi di finanziamento pubblico che non finiscono mai, che portano alla fine a realizzare progetti di respiro piccolissimo. Scusate, ma è uno sfogo personale, che credo rappresenti bene perché stiamo facendo questo tipo di approccio. Scusami.

FRANCO GONELLA:
No no, ma figurati, anzi, mi ha fatto piacere. Questo processo può durare, quando siamo velocissimi, tre mesi. Normalmente dura sei mesi ed è un processo diciamo di fidanzamento, perché poi a un certo punto cosa succede? Vengo a svelare il finale: si firma un contratto di investimento, in cui noi diciamo che mettiamo dei soldi all’interno di quest’azienda per avere una quota azionaria all’interno di Mangatar, per esempio, e l’imprenditore si deve impegnare a fare determinate cose. Diciamo che in questo periodo, prima che si firmi il contratto di investimento, c’è questa specie di fidanzamento: ci si vede, ci si incontra, si parla, si analizza, si contratta. Allora, si può conoscere veramente il gruppo imprenditoriale in tre mesi, in sei mesi? Forse sì, forse no, diciamo che però quello è un periodo molto importante, su cui io voglio invitarvi a fare una riflessione. Quindi diciamo che ci devono essere, se vi posso riprendere lo stimolo che mi è stato dato all’inizio, alcune caratteristiche: la prima, bisogna avere questa capacità di creare un pitch che sia interessante, che sia bello, che esprima una bella idea imprenditoriale. Questo è il primo momento su cui voi dovete lavorare. Ci sono delle occasioni, come ha detto lui prima, che sono fondamentali, che sono quelle dei concorsi, che sono quelle delle occasioni pubbliche in cui si fanno appunto delle presentazioni di idee imprenditoriali. Però quello non basta, perché poi, dopo essersi fatti conoscere, inizia il periodo appunto di fidanzamento. Che cosa fai tu con i 100 mila euro che io ti do domani? Quali sono le privazioni? E quindi questa capacità di fare avanti indietro fra avere una visione e dimostrare di sapere comunque fare i primi passi è fondamentale. Però questo è difficile da trovare. Allora, se devo giungere al succo della cosa, quello che cerchiamo è un po’ questo mix fra queste due caratteristiche, difficili da trovare in un contesto. C’è poi una parte che tu non mi hai chiesto, ma che mi permetto di dire che è fondamentale riguardo ai giovani ed è quello che viene fatto all’interno dell’università. C’è questa leggenda che negli Stati Uniti molte delle aziende le han fatte dei drop out, perché Steve Jobs è un drop out, quindi gente che non ha concluso l’università. In realtà noi siamo molto agnostici su questo. Quando uno è molto giovane, avere un curriculum di studi impeccabile dal punto di vista universitario ma essere solipsistico, incapace di relazionarsi con gli altri, non è un punto a favore. E’ meglio uno che abbia una votazione di laurea più bassa, però dimostri di avere voglia, di essere un leader rispetto a chi magari ha un curriculum del tutto impeccabile. Se posso dare un consiglio alle persone più giovani, secondo me, quello che è fondamentale, è capire – cosa che in Italia non è facile – se tu vuoi fare il ricercatore o se tu vuoi fare l’imprenditore, oppure se vuoi collaborare a un progetto imprenditoriale non facendo l’imprenditore, ma essendo colui che è dentro un’impresa perché ha un know-how, ma è un altro o sono altri quelli che hanno il ruolo di leader. Questa è una riflessione che credo l’università italiana purtroppo non aiuti ancora molto a fare, perché ha un curriculum tipicamente volto alle cose da imparare, non alle cose da fare. E invece, quando uno va a parlare di un’azienda che deve fare, è vero che c’è un insieme, un set di conoscenze che deve avere, ma poi deve fare delle cose. Allora su questo, visto che ho un pubblico di giovani che mi sta ascoltando, pensateci bene: volete andare su un campo che è più teorico, più di ricerca? Va benissimo, apprezzatissimo, potete anche collaborare con un imprenditore, avere delle quote nella società, ma non essere il leader; se vi sentite invece più portati sulla parte del fare, potete fare un’azienda, usando le conoscenze di altri.

SANTIAGO MAZZA:
Grazie, grazie per quello che fa dPixel, grazie per quello che fai tu, grazie per quello che fa il tuo team, il vostro team, perché oggi l’Italia veramente ce la può fare, ce la può fare, eccome se ce la può fare, quindi, come dico io sempre ultimamente: avanti tutta, cioè, ci siamo, avanti, mettetevi in gioco, datevi da fare, mettetevi veramente, veramente in gioco voi stessi, ragazzi, è il nostro momento, veramente sta a noi far sì che l’Italia cambi, non aspettatevi niente da nessuno, proprio da nessuno, ma proprio da nessuno, fatelo voi e possiamo farlo, si può fare, vedete qua persone che danno tutto quello che hanno, sotto ogni punto di vista, quindi esperienza, capacità e anche soldi, quindi avanti. Vi racconto una mia piccola storia personale. Dal mio accento sicuramente si percepisce che non sono italiano, sono nato in Argentina, vivo a san Marino, sono felicemente sposato con Elisa e mia figlia Zose, che sono qui presenti, sono onorato di avervi qui, a dicembre la famiglia aumenta. Mio nonno, quando aveva 18 anni di età, nel dopoguerra, ha preso la valigia, al porto di Genova ha preso una barca, la prima che ha trovato, senza sapere neanche dove andava, ed è finito in Argentina, a diciott’anni di età, senza sapere la lingua, senza sapere nemmeno quali motivazioni aveva. Mio padre e poi io siamo nati lì. Il legame con la terra di origine, con l’Italia, con san Marino, rimane sempre, questo grazie a un’identità che i miei genitori mi hanno dato e che dimostra il fatto che io oggi sono qui nuovamente a san Marino, in Italia, da 22 anni, ma quando ero in Argentina comunque il legame era molto, molto, estremamente forte. Quindi questo mio racconto personale è l’anno scorso ci è venuto a trovare Marco Marinucci che, insieme a te e ad Alberto, con la fondazione Mind the bridge, fate il ponte: Marco in Silicon Valley, tu in Italia.

ALBERTO ONETTI:
Io credo che si possa fare, non lo so, io credo che si debba provare, perché uno dei grossi problemi che abbiamo nel nostro Paese, è che molto spesso non proviamo a fare le cose perché non siamo certi di riuscirci. Credo che una delle sfide che con Mind the bridge ci siamo posti, è quella di aiutare delle persone a provare a coltivare in grande i propri sogni. Uno degli altri limiti è che molto spesso noi non abbiamo una grande pragmaticità, che probabilmente fa parte del nostro Dna di essere italiani e che è una dote positiva. Abbandoniamo la possibilità di coltivare progetti importanti, sogni grandi che hanno paradossalmente gli stessi costi fissi di impianto di progetti piccoli. E quindi io credo si debba provare, si debba provare senza avere la paura di perdere pezzi di Italia in giro per il mondo, perché alla fine si parla tanto di fuga di cervelli ma, nella realtà dei fatti, che i cervelli vadano via è un fatto positivo per il Paese, il problema è che non arrivano cervelli in Italia.

SANTIAGO MAZZA:
Marco che è genovese, dieci dodici anni fa migra negli Stati Uniti per lavorare dentro Google, e poi qualche mese fa, un anno fa forse, no, qualche mese fa, lascia Google per dedicarsi pienamente alla vostra attività, a Mind the bridge in pieno. Quindi questo ponte tra Italia e Silicon Valley, e Stati Uniti… Questa famosa fuga dei cervelli esiste, non esiste, è così dannosa e pericolosa?

ALBERTO ONETTI:
Io faccio il pendolare con la Silicon Valley dal 2005. Sono andato là perché avevo costituito, insieme a Fabrizio Capobianco, Funambol, una start-up che fa software e dal 2005 abbiamo raccolto i primi 5 dei 35 milioni di dollari che abbiamo raccolto e da quel momento dovevamo seguire i pezzi dell’azienda che era là e quindi ho iniziato ogni due o tre mesi a fare il viaggio da Pavia a San Francisco e ritorno. Però non faccio testo per le statistiche, non avendo il cervello, non si sa dove mettermi, il problema non si pone. E in questo andare avanti e indietro mi sono incrociato con Marco e abbiamo lavorato insieme su quest’idea molto bella, che era questo ponte, che è un ponte che doveva essere a due corsie, non un ponte a una corsia unica; ponte a due corsie dove dovevamo dare la possibilità a persone italiane con talento, con voglia di fare, di capire cosa c’era dall’altra parte del mondo, cosa c’è in quel posto mitologico che è la Silicon Valley. Silicon Valley ha tantissimi miti ed è l’unico posto al mondo dove son tutti veri quei miti. E’ un posto stranissimo. Per capire che cos’è la Silicon Valley, pensate a un distretto industriale italiano, ne abbiamo tantissimi, che però ha saputo rinnovarsi sei, sette, otto volte. Noi abbiamo creato, abbiamo fatto l’industria in Italia per tantissimi settori, ma questi posti si sono fermati lì, si sono fermati a quello e con quello stanno decadendo, con quello stanno morendo. La Silicon Valley ha fatto cinque, sei, sette ondate successive di innovazione e ne farà probabilmente altre due. Questo è possibile perché è un mondo che ha una grandissima apertura, ha un’apertura culturale verso chi viene da fuori e dà molto a chi viene da dentro. Uno dei problemi dell’Italia non è tanto che i nostri cervelli volano via, è che non ne arrivano di buoni. Ci sono delle statistiche, che sono uscite sabato, che dicevano che un terzo delle città americane quotate nel campo della nuova tecnologia hanno nel founding team almeno un emigrante. Quindi il fatto che la diversità culturale contribuisca a generare il nuovo, è un aspetto che non possiamo oggi trascurare. Noi pensiamo di difenderci dal mondo che avanza chiudendoci, quando invece nella realtà dei fatti ci si difende dal mondo che avanza aprendosi e incorporando il nuovo, facendolo parte di quello che si sta facendo. Questo è un po’ credo l’elemento su cui bisogna riflettere. E’ da un po’ che cerchiamo di farlo con la sfida di Mind the bridge. Abbiamo uno start-up pool che gira quasi una volta al mese, abbiamo graduato 200 ragazzi, adesso faremo un programma per manager e imprenditori di vecchia generazione, perché quello è…

SANTIAGO MAZZA:
Su questo adesso ci arriviamo. Volevo far un’altra domanda. Anche ieri parlavamo a tavola del fatto che in Italia abbiamo sicuramente un problema culturale verso l’apertura, verso il dialogo, verso il confronto sincero e onesto con tutti. Io sono appassionato di uno sport, il rugby, incontro molte volte delle mamme che per far fare rugby ai loro figli, hanno il terrore di mandarlo a giocare a Bologna, a San Marino. Cosa vuol dire questo? Tu hai una posizione privilegiata, riesci a osservare diverse culture, diversi meccanismi di apertura, no..?

ALBERTO ONETTI:
Penso sia sotto gli occhi di tutti. Quanto più una persona fa esperienza lontano da casa, quanto più impara, tanto più più può portare qualcosa di grande e nuovo indietro. Le statistiche sulle start-up sono semplicissime, le start-up sono fondate da gruppi di persone che hanno un’education molto elevata, che è stata fatta molto spesso all’estero, persone che hanno fatto esperienza all’estero, perché andare all’esterno, fare cose diverse, aiuta ad aprire la mente, apre un network di persone, aiuta ad avere opportunità, aiuta a vedere in modo critico quello che succede. Quando un ragazzo viene da noi per tre settimane a fare start-up school, non trova soldi in Silicon Valley, dimenticatevelo che si possono trovare i soldi in Silicon Valley in tre settimane, ma neanche in nove mesi. Funambol: i nostri più di cinque milioni ci sono costati novantasei appuntamenti, visto che ci hanno dato soldi in due, e in novantaquattro ci hanno detto di no. Novantasei appuntamenti, ho tutte le cicatrici sulla schiena. Quindi non si va in Silicon Valley per trovare i soldi, per tornare con un assegno, si va per mettersi alla prova con un contesto che ha una dinamicità, un’apertura culturale così elevata, che ti consente, in un periodo anche breve, di capire che cosa non funziona in quello che stai facendo e cosa potrebbe funzionare. Là si ricevono tonnellate di critiche, ma sono critiche all’americana, sono critiche costruttive. In Italia si fanno critiche distruttive a priori. In Italia una delle cose che mi dà maggiormente fastidio, è quando vedo persone che hanno come professione dominante quella di distruggere quello che gli altri stanno provando a fare, in modo acritico e in modo strutturale. Questa è la cosa che ci demolisce come Paese.

SANTIAGO MAZZA:
Grazie, grazie: sicuramente come Meeting Rimini daremo un segnale forte da questo punto di vista, perché condivido in pieno quello che ci stai raccontando.
L’ultima domanda, poi andiamo in chiusura: le Pmi. L’Italia è fatta da piccole-medie imprese, al 96%, 95%; vediamo che le nostre Pmi sono tutte in difficoltà, tutte, non ce n’è una che sicuramente possa andare bene. Ecco: di cosa hanno bisogno queste Pmi in questo mondo che sta cambiando? Di cosa hanno bisogno in questo mondo che è globale, veramente, operativamente, non più soltanto nei libri o nei messaggi politici – operativamente vediamo che ci dobbiamo confrontare con la Cina, con tutti i Paesi del mondo -, di cosa hanno bisogno?

ALBERTO ONETTI:
Mah, noi abbiamo tante imprese piccole, e il fatto che abbiamo tante imprese piccole ha sempre portato a dire “piccolo è bello, piccolo è bello”. Perdonatemi, secondo me piccolo è qualcuno che non è riuscito a crescere, e non possiamo dire che statisticamente sono belli tutti quelli che non sono riusciti a crescere. Quindi c’è un problema da qualche parte. Questa assenza di crescita non è stata un problema per parecchio tempo, quando il mondo era ancora molto frammentato e molto spezzettato, e quando questa azienda era portatrice di innovazione, perché un’azienda piccola può ancora vivere in un contesto iniziale, ma poi quando i mercati crescono la scala conta. E oggi questo mondo di piccole imprese sta soffrendo, nonostante al nostro interno ci siano ancora dei gioielli che hanno dei prodotti molto buoni. Quello che io non vedo succedere è che questa ondata imprenditoriale, che ci ha portato a creare questi sei milioni di imprese di cui si parlava stamattina, si è un po’ fermata agli anni Sessanta, Settanta, Ottanta. Ci manca la nuova ondata imprenditoriale. Il fenomeno start-up è sicuramente, oggi, una bolla: oggi tutti start-up, giusto? Quando tutti cominciano a parlare di una cosa, in Italia, siamo vicini al momento in cui bisogna fare un passo indietro e dire: attenzione, questa è una bolla, una moda, forse c’è qualcosa di troppo.
Però c’è un aspetto positivo di questa bolla/start-up: che stiamo riportando i giovani a riconfrontarsi con progetti di impresa, che statisticamente negli Stati Uniti al 90% non ce la faranno, ma a parte il fatto che il 10% magari ce la farà, questi ragazzi che stanno facendo qualcosa di buono, sebbene al 90% che non ce la faranno, si saranno però confrontati con un progetto d’impresa. Adesso il punto di fondo è mettere in contatto questo universo nascente, che è il mondo delle start-up, con il mondo esistente, che esiste, è grosso, è importante, anche se ha perso un po’ la ruota dell’innovazione, ha perso la capacità di innovare, ha perso la capacità di pensare a dei prodotti che abbiano avuto successo, di darli alla generazione successiva. Hanno perso la visione sul mercato internazionale, e quindi bisogna riportarli in uno stato di contaminazione con questo nuovo. A San Francisco, adesso, stiamo partendo con un programma, si chiama Entrepreneurship Program, dedicato a managers, imprenditori di imprese esistenti, appunto per riportarli a pensare a quello che fanno con una mentalità un po’ nuova. Dobbiamo riattivare la ruota dell’innovazione sull’esistente, che è grosso e c’è; perché se reinvento tutto da capo, è un processo molto lungo. E penso che questo mondo esistente debba incominciare ad aprire dei canali di comunicazione col mondo delle start-up, che sta nascendo per portare a casa innovazione, entusiasmo, voglia di fare. Grazie.

SANTIAGO MAZZA:
Grazie, grazie Alberto per il grande ponte reale: è un ponte estremamente reale, e incomincia a diventare veramente solido, perché il numero delle persone che vanno a Mind the Bridge, quindi attraverso questo ponte, sono tanti, e ognuno di loro, secondo la filosofia give-to-back, porta indietro un contributo al nostro Paese. Quindi ragazzi, giovani, avanti tutta! Confrontiamoci, non abbiamo paura del diverso, non abbiamo paura di essere disposti a metterci in gioco. Ogni giorno, in ogni cosa che facciamo, poniamoci semplici domande: per quale motivo vado a studiare?Confrontiamoci: solo attraverso un confronto sincero, franco, ognuno di voi porta a casa qualcosa. E imparate, crescete! Questo è quello che io personalmente, da questo incontro, ringraziando gli ospiti per il loro contributo bellissimo, porto a casa. Vi ringrazio, ringrazio voi per l’ascolto. Ci vediamo domani nella stessa sala e alla stessa ora. Grazie.
Trascrizione non rivista dai relatori

Data

20 Agosto 2013

Ora

13:45

Edizione

2013

Luogo

Sala Mimosa B6
Categoria
Focus