ESSERE FELICI SI PUÒ. TESTIMONIANZE

Essere felici si può. Testimonianze

Essere felici si può. Veronica Cantero Burroni

Partecipano: Veronica Cantero Burroni, Scrittrice, Autrice de “Il ladro di ombre”, Argentina; Paola Cigarini, Responsabile del Centro Educativo João Paulo II a Salvador De Bahia, Brasile. Introduce Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione per la Sussidiarietà.

 

Ore: 15.00 Salone Intesa Sanpaolo A3
ESSERE FELICI SI PUÒ. TESTIMONIANZE

Partecipano: Veronica Cantero Burroni, Scrittrice, Autrice de “Il ladro di ombre”, Argentina; Paola Cigarini, Responsabile del Centro Educativo João Paulo II a Salvador De Bahia, Brasile. Introduce Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione per la Sussidiarietà.

GIORGIO VITTADINI:
Buongiorno, il titolo dell’incontro di oggi ci dice già di cosa vogliamo parlare: “Essere felici si può. Testimonianze”. In molti incontri con i giornalisti in questi giorni molti hanno manifestato perplessità sul titolo del Meeting: «Come fate a dire che rendono l’uomo felice, ma chi può pensare che l’uomo è felice, e poi mettiamo anche che uno nel suo piccolo, nella sua intimità percepisca un significato a questa parola, le forze che muovono la storia sono diverse, la storia va male, guardate che casino che c’è in giro, che disastro, violenza, guerra, male, insoddisfazione, lamento, rancore». La parola che il Censis ha detto che gira più in Italia adesso è la parola rancore. Allora un po’ strano questo titolo: che cosa vuol dire essere felici, e che cosa vuol dire che la storia viene, diciamo, toccata, cambiata, mossa da questa felicità che tocca il cuore dell’uomo? Abbiamo sentito ieri da Carrón, all’incontro su Giobbe, che la risposta al dolore, perché il dolore e il male sono la grande obiezione a tutto questo, sia nella vita personale che nella vita pubblica, sta nel fatto che il dolore non ha neanche da Dio una spiegazione. Dio si fa compagno, prima dialoga e poi si fa compagno. Dio sceglie il metodo della presenza, della compagnia. Allora come possiamo rispondere all’obiezione dei giornalisti, ma anche alla nostra obiezione? Diciamo la verità, anche noi sotto sotto la pensiamo così, tante volte. Possiamo rispondere non facendo una lezione sul dolore – questo è importante, possono farlo i filosofi, discuterne – ma facendo vedere dei luoghi, delle presenze, delle persone, delle testimonianze in cui si veda come la corrispondenza al cuore per qualcuno sia un inizio di vita nuova, un segno, un modo diverso, come il cuore dell’uomo sia più profondo di qualunque male, di qualunque dolore. Per questo abbiamo pensato oggi di mettere di fronte a tutti, con questa pretesa, due testimonianze che ci vengono dal Sudamerica, la prima è di Veronica Cantero Burroni. Veronica ha 16 anni, vive a Campana con sei fratelli e i genitori, e frequenta il quinto anno di scuola superiore presso l’istituto S. Tommaso d’Aquino. Lei oltre ad amare lo studio, la letteratura, la chimica, la biologia ama scrivere e leggere. Lei dice: «La lettura e la scrittura mi aiutano a conoscere e partecipare alla felicità del mondo che mi circonda». Ha cominciato a scrivere dall’età di sette anni, ha scritto cinque libri, quattro romanzi e una raccolta di racconti, e l’ultimo romanzo di intitola Il ladro di ombre, e ha vinto il premio Elsa Moranti ragazzi 2016. È stata poi insignita nel 2017 dalla Biennale di Alpi con un riconoscimento che premia le persone con disabilità che si sono distinte in attività di interesse pubblico. La seconda testimonianza invece è di Paola Cigarini, che salutiamo con un applauso. Originaria di Maranello, vive da 14 anni a Salvador de Bahia, ha studiato lingue, è laureata in Scienze dell’educazione, sta facendo un Master sullo sviluppo umano ed è responsabile del centro educativo Giovanni Paolo II, situato nella periferia di Salvador all’interno di una distesa area di favelas, chiamata Suburbio ferroviario. Il centro educativo Giovanni Paolo II accoglie ogni giorno 500 tra bambini e ragazzi attraverso attività di tipo scolastico, educativo, culturale e sportivo. Quindi anche da lei sentiremo una risposta a queste domande. Allora cominciamo con Veronica ma prima di farla parlare abbiamo un video che presenta qualcosa della sua vita.

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VERONICA CANTERO BURRONI:
Prima di iniziare voglio ringraziare i miei amici dell’Argentina, gli amici italiani che sono qui e anche tutte le persone che non sono riuscite a venire qui ma che a distanza mi accompagnano. Cosicché quando ero in piazza S. Pietro aspettando l’inizio dell’udienza, avevo sul tavolino della mia sedia a rotelle una copia del Ladro di ombre. El ladron de sombras è l’ultimo libro che ho scritto, pubblicato giusto nel 2016 e avevo la speranza di poterglielo regalare. Finalmente ci fu l’opportunità di assistere all’udienza di quel mercoledì primo giugno. Tra tutto il viavai e l’emozione arrivò il grande giorno, ma ancora non avevo scritto una dedica. Ormai in piazza San Pietro, a lato della scalinata dove mi avevano portato gli aiutanti del Papa, incominciai a pensare a ciò che dovevo dire a lui, al Papa. La prima cosa che mi venne in mente fu un “Grazie”. Ma grazie perché? Cos’era concretamente ciò di cui volevo ringraziarlo? Allora rammentai il discorso ai giovani, quello dell’occhio dì vetro, della prospettiva di vita che Dio mi regalava per avermi creato con due occhi.
E così mi venne da scrivergli queste parole sul frontespizio del libro che mi ero portata per dargli: «Caro papa Francesco ti dedico questo libro per ringraziarti di tutto ciò che mi hai insegnato. Mi hai insegnato ad usare il mio occhio di vetro e il mio occhio di carne, perché questo è un sogno per me, un sogno che oggi vivo…».
Addirittura, nello stesso discorso al giovani cubani il Papa parlava anche di sognare, diceva che «nell’obiettività della vita deve entrare la capacità di sognare, e un giovane Incapace di sognare è rinchiuso in se stesso. Ognuno sogna a volte cose che non accadranno mal. Ma sognale, desiderale, cerca orizzonti, apriti, apriti a cose grandi!».
A me sembra che sognare, così come il Papa ha utilizzato l’idea, è lo stesso che desiderare. Egli diceva al giovani di Cuba che la cosa più cara che abbiamo è la capacità di desiderare, desiderare cose grandi per le nostre vite e per le persone che cl circondano.
Il Papa in quello stesso discorso disse anche: «Sogna che il mondo con te (grazie a te) può essere diverso. Sogna che se tu metti il meglio di te stesso, puoi far sì che questo mondo sia diverso, sia più bello».
Lo penso sempre riferito alla mia vita. Qual è il mio modo di contribuire perché il mondo sia diverso? Come posso farlo se ho questa limitazione motoria? La risposta l’ho trovata nella scrittura, perché se io non avessi questa limitazione sono assolutamente certa che non mi sarei dedicata a scrivere. Credo di poter dire che la mia condizione fisica mi permette di essere più attenta alla realtà; grazie ad essa sono capace di osservare negli altri con maggiore profondità di sguardo i movimenti che io non posso fare. Perciò dico sempre che essere sulla sedia a rotelle non è tanto la mia croce quanto piuttosto la ragione, la condizione di grazia che mi spinge a dedicarmi senso, perché fa mia famiglia mi ha insegnato fin da piccola che a Dio non sfugge nulla, che non vi sono casualità. Lo scrittore più famoso del mio Paese, Borges, una volta ha detto: «Qualsiasi destino, per vasto e complicato che sia, consiste in realtà di un solo momento: il momento in cui l’uomo comprende per sempre chi è». È proprio profonda questa frase: «Qualsiasi destino, per vasto e complicato che sia, consiste in realtà di un solo momento: il momento in cui l’uomo comprende per sempre chi è».
Allora, tra i dieci e gli undici anni ho cominciato a chiedere a Lui, Dio, non il perché, ma piuttosto per quale fine mi aveva regalato questa condizione; ed Egli mi disse: «lo ti do questo dono affinché attraverso di esso tu possa mostrare alle persone che in qualunque circostanza loro possono essere se stesse».
Uno del personaggi del Ladro di ombre si chiama Massimo. È a scuola, e gioca con la sua ombra durante l’ora di ginnastica, vedendo divertito come il suo specchio oscuro, la sua ombra, imita ogni suo movimento con estrema precisione. Guarda, anche, cosa riflettono gli specchi degli altri, ma guardando attentamente si accorge che molti del suoi compagni non hanno ombra. Come poteva succedere ciò? Si incamminava verso la porta con quella domanda in testa. Così inizia tutto, osserva che un compagno esce alla fine della scuola con qualcosa, un panno oscuro o qualcosa di simile, che pende dallo zaino che porta in spalla…
Bene, io mi sono dovuta mettere nei panni di Massimo per descrivere ogni movimento nella classe di ginnastica e posso affermare che in quel momento io mi muovevo con lui, ripetevo i suoi movimenti, li inventavo, gli davo movimento.
Il Ladro di ombre ha ricevuto un premio importante in Italia, il premio Elsa Morante a Napoli, e questo piccolo racconto è diventato molto noto in Argentina. È così che spesso sono invitata a incontri con ragazzi della mia età oppure anche più piccoli. Faccio di tutto per incontrarli, mi piace rispondere alle loro domande, sul racconto, sul personaggi e pertanto sulla vita.
Cerco di comunicare che anche loro sono nati per essere felici. Ognuno di noi ha un dono nascosto che deve scoprire o permettere ad altri di mostrarcelo. Ancor più, propongo loro di non avere paura e di avere il coraggio di lottare per ciò che tanto desiderano, cosi che anch’essi possano vedere la vita con l’occhio di vetro e affrontare con fede, forza e speranza le avversità che li toccano, giorno dopo giorno.
Quando scrivo non ho nessun tipo di limite, mi basta soltanto dare via libera all’immaginazione, connettermi con i personaggi e rispettarli. Sì, rispettarli, perché una volta presa vita, crescono e interagiscono con me. Sembra strano, ma mi è capitato di sentire che a qualcuno di loro non piace far parte della storia o svolgere il ruolo che gli ho assegnato. Quando ciò accade, apro liberamente la porta perché un altro personaggio entri e resti a vivere nella mia piccola casetta fino alla fine della storia.
Per essere più precisa, ruberò un’idea a Dacia Maraini, la presidente del premio Elsa Morante. Nel suo libro Quando un personaggio bussa alla mia porta, rivela che quando un personaggio nasce, bussa alla porta dell’immaginazione; lei apre; il personaggio si siede e chiede un caffè e intanto racconta la sua storia.
Quando finisce, chiede la cena e anche un letto per andare a riposare. Una volta che il personaggio alloggia comodamente nella casetta della mia immaginazione, io capisco che ho una storia da raccontare al mondo. Il personaggio mi racconta ciò che sente e io lo ascolto attentamente, piano piano diventiamo amici e cominciamo a costruire un altro mondo insieme. Sebbene i personaggi nascano dalla mia immaginazione, arriva il punto in cui maturano e si sviluppano per conto loro, in modo indipendente. Quando arriva quel momento, devo imparare a rispettare le loro decisioni, proprio perché a volte mi fanno capire che sono a disagio con il ruolo assegnato e allora li devo lasciare andare. Un altro scrittore latinoamericano, colombiano di nazionalità, Nicolas Gomez Dàvila, ha una frase straordinaria: «Come può vivere qualcuno che non si aspetta miracoli?»’. Questo scrittore ha scritto molto poco, ma questo aforisma è un tesoro: «Come può vivere qualcuno che non si aspetta miracoli?». I miracoli non implicano che qualcosa di materiale cambi forma o luogo all’improvviso, o cose strane così.
Cosa significa essere aperti, sperare miracoli? Quando l’ho sentita, sono rimasta stupita, perché mi sono resa conto che amo le parole perché mi danno la possibilità di contemplare ogni cosa per quanto minuscola essa sia, come il miracolo che è di fatto. È ciò che mi mantiene viva, il fatto di poter osservare e dare valore ad ogni dettaglio di questo mondo e scoprire i segreti che nasconde.
Un miracolo è anche quello che mi è accaduto poco tempo fa, poco prima di ricevere l’invito di venire in Italia al Meeting.
Ho appena fatto un intervento alla colonna vertebrale; prima ancora, uno all’anca e poi altri. Davanti a una nuova e faticosa sfida, com’è l’intervento alla colonna vertebrale, non ho potuto fare a meno di iniziare a chiedere che accadesse un miracolo e mi liberasse da questa lotta che non potevo credere che ancora una volta portasse il mio nome, e che ancora una volta dovessi affrontare proprio io. Ero certa che questa circostanza era una prova che Lui poneva sul mio cammino per verificare la mia fiducia e che poi dopo tanta insistenza, Lui sarebbe venuto a soccorrermi una volta di più.
Ma il tempo scorreva e la risposta non era altra che: «Ti devi operare». Sì, certo, mi ha fatto male accettarlo. Ma dal primo istante la mia famiglia e i miei amici non hanno smesso di abbracciarmi, mi hanno fatto notare ed essere certa che ciò che stava per succedere era buono, perché avrebbe sviluppato le mie possibilità di guadagnare cose nuove. In più, mi hanno ricordato che Dio non ti abbandona mai.
Quando sono tornata ad avere la certezza che Lui non mi aveva abbandonato, che non si dimenticava di me, ho iniziato a scrivere le mie preghiere personali. In loro ho riversato fino all’ultima goccia di dolore, i dubbi e la paura che mi portavo dentro. Gli ho chiesto soprattutto che mi donasse cinque cose: forza, speranza, fiducia, pazienza e pace. È stato realmente incredibile!
All’improvviso Dio si è trasformato in un amico inseparabile cui non potevo smettere di raccontare ciò che accadeva ogni giorno. A mia volta io gli chiedevo e tuttora gli chiedo: «Cosa vuoi? Cosa ti aspetti da me? Cosa attendi, cosa speri da me domani?».
Con il trascorrere dei mesi, l’intervento era sempre più vicino e reale e io mi sono convinta (con allegria) che il tre aprile 2018 mi aspettava impaziente il mio “amico bisturi” come lo chiamiamo io e mio fratello Francisco, anche lui sulla sedia a rotelle. Ma quando avevo già depositato tutta la fiducia che mi è stata donata, quando già non avevo paura di guardare la sfida dritto negli occhi, Gesù mi ha stupito e «mi sembra che tu ti stia dimenticando di una cosa, mi ha detto. Che ne dici se ti dico che aspetto fino all’ultimo momento per stupirti?». «Cosa? Cos’è questo? Perché me lo dici solo adesso? È ciò che ti ho chiesto dall’inizio o è mille volte meglio?». Glielo chiesi con una commozione mai provata prima. «Ah, non saprei; è una sorpresa! Rompi l’incarto di questo regalo con pazienza e vedrai!».
Il giorno dell’intervento arrivò e terminai di svolgere l’incarto. Non è stato facile, ha implicato molto sacrificio, ma attraverso questa circostanza Dio mi ha dato l’occasione di immedesimarmi con la sua croce portando anche la mia per poi resuscitare con Lui (per me anche questo conta come miracolo, perché significa che chiunque può vivere oggi ciò che Lui ha vissuto più di duemila anni fa). Con questo voglio dire che essere felice non significa avere un cielo senza tempesta, un cammino senza ostacoli o un lavoro senza fatica. Essere felice è trovare la forza e la speranza nelle battaglie. Quella forza e quella speranza trovata nell’abbraccio invisibile ma incredibilmente potente di tutte le persone che hanno pregato e continuano a pregare per me da allora; grazie a questo abbraccio e nonostante il dolore che mi tocca affrontare a causa della mia disabilità, sono stata e sono felice! E quindi posso dire con molta certezza che le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice! Grazie!

GIORGIO VITTADINI:
Ora parte il video di presentazione del centro educativo João Paulo II di Salvador de Bahia.

VIDEO

PAOLA CIGARINI:
Salve a tutti, io mi chiamo Paola, sono italiana, e lavoro e abito da quattordici anni a Salvador, che è la capitale dello Stato della Bahia, che si trova nella regione del Nord-est del Brasile. Il Brasile, dal punto di vista politico, è una confederazione di stati, tipo gli Stati Uniti, ed ha una estensione territoriale continentale, cioè è un Paese enorme: considerate che la sola Bahia è grande due volte l’Italia. La Bahia, dove siamo noi, si trova nel nord-est, che è assieme al nord (cioè la regione amazzonica), la parte più povera del Brasile. Il nostro clima è tropicale, quindi è estate tutto l’anno. Io sono arrivata a Salvador attraverso un progetto di cooperazione internazionale italiano, che era realizzato dall’organizzazione italiana Avsi. Si trattava di un intervento di tipo sanitario ed educativo allo stesso tempo, per combattere e prevenire la denutrizione infantile, che all’epoca aveva degli indici altissimi, tipo il sessanta per cento della popolazione. Per farvi capire il perché della nostra presenza e del nostro lavoro devo spiegarvi come sono nate le grandi metropoli del Brasile, e di quella realtà che è comunemente chiamata “favela” – in altre lingue, tipo in inglese, “slum”, in francese “bidonville” – ossia le grandi periferie urbane che si sono create nei cosiddetti paesi in via di sviluppo. In Brasile, negli anni Settanta, è cominciato un flusso considerevole verso le capitali da parte della popolazione più povera che viveva nelle zone di campagna, che si trovavano totalmente senza nessun tipo di infrastruttura, senza nessun servizio. Per una serie di motivi, che non approfondisco adesso, le città si sono trovate impreparate a ricevere questo flusso enorme di gente, per cui le persone hanno cominciato a costruirsi la casa in modo autonomo, occupando gli spazi che trovavano vuoti. Questo è avvenuto generale in tutte le metropoli, e così è stato a Salvador dove, nell’area in cui lavoriamo noi, la gente, non avendo più terreno da invadere, si è costruita le case sotto forma di palafitta lungo il litorale della regione. Quindi, io sono andata lì perché in quel momento era in corso un grosso programma di riqualificazione urbana di quell’area, che aveva come intenzione, diciamo, di debellare le palafitte. E lo ha fatto e l’ha voluto fare in un modo particolare, senza spostare in massa la popolazione, perché questa era la forma usata dai governi che quando intervenivano per cercare di risolvere il problema abitativo, prendevano in massa la gente e la spostavano verso altre aree. In questo caso fu fatto un intervento che ha avuto come finalità quello di mantenere la gente in questa comunità, perché comunque per loro quella era la loro casa, sono nati lì, quello è il loro luogo, è la loro comunità. Attualmente, le condizioni dal punto di vista urbanistico a Salvador, sia nella nostra area, sia in generale, sono migliorate; però, esponenzialmente, negli ultimi anni, è cresciuta tantissimo una realtà molto forte che è quella della violenza. Considerate che in una città come Salvador un quaranta per cento è considerato la città “formale”, cioè una città costruita con i parametri che abbiamo in mente noi, cioè palazzi, strade, numeri civici, fogne ecc. Mentre il sessanta per cento della città è nata in questo modo disorganizzato, spontaneo. Quindi diciamo che il sessanta per cento della città è, tra virgolette, “favela”. Questo termine, inizialmente, alcuni anni fa, era sentito in modo molto dispregiativo da parte delle persone che abitano queste comunità, mentre oggi è diventato quasi un tratto di riconoscimento “difensivo”: ad esempio i miei ragazzi usano questo termine, “eu sou favela”, come per riscattarsi, come per riconoscere una propria identità. Adesso vi spiego un po’ meglio perché si crea questa dinamica. La realtà di avere vicino, vivendo lato a lato, due mondi così diversi genera spesso tensioni. Infatti in uno diciamo che lo stile di vita è quello degli Stati Uniti, grandi palazzi, grandi anche possibilità economiche, quindi la vita gira su certi ritmi, mentre di fianco ci sono queste comunità in cui la maggioranza degli adulti, per esempio la maggioranza dei genitori dei nostri ragazzi vivono di espedienti, cioè di lavori informali (alcuni sono lavori informali fissi, alcuni sono lavori informali che cercano continuamente), ma pochissimi hanno un lavoro regolare. Quindi è un modo di vivere totalmente diverso. Queste due realtà sono concomitanti. Per questo si creano tensioni molto forti. Vi passo alcuni dati dell’ultima ricerca della sicurezza pubblica, con dati del 2008, che è uscita il mese scorso: sono stati rilevati 63880 morti violente nel 2017, che significano 175 morti violente al giorno; oltre a questo, 82684 persone sono scomparse e si può presumere che molti di queste siano forme di omicidi che accadono dentro le comunità. Noi, nel nostro quartiere, più o meno abbiamo una media di due omicidi alla settimana, e la maggioranza delle vittime sono ragazzi giovani, dai 14 ai 28 anni. Come è apparso anche nel video, purtroppo si sta realizzando un eccidio di ragazzi di colore che vivono nelle favelas di questa fascia d’età, dai 14 ai 24 anni, appunto coi numeri preoccupanti che sono apparsi: 30000 all’anno. Vi ho passato questi dati solo per farvi partecipi del contesto in cui ci troviamo. Io attualmente lavoro come responsabile del centro educativo João Paulo II, che avete visto nel video, e accogliamo cinquecento bambini e ragazzi tutti i giorni attraverso attività di appoggio allo studio, come avete visto, e poi attraverso attività sportive, ed è un aiuto gratuito che offriamo alle famiglie. Il centro è stato costruito nel ’99, ha iniziato a lavorare nel 2000, quindi ha già una storia grande dentro la comunità. Io credo che uno degli aspetti che rendono questo posto speciale è come è nato, cioè che nasce da un gesto gratuito, nasce da qualcuno che si è commosso e ha dato credito a questa commozione. Io penso che la gratuità sia un terreno molto fertile, perché apre possibilità che il calcolo, la misura, la meschinità, la piccolezza non riescono certamente ad aprire. Già questo fatto di gratuità permette a questa realtà di avere una certa libertà nel modo di muoversi e di poter guardare le cose. Adesso cercherò di dirvi che cosa ho imparato in tutti questi anni, perché credo che io non sono più la stessa di quando sono arrivata là, quindi io sono gratissima agli anni che ho passato là perché ho imparato tantissimo. Io userò una citazione meno alta delle citazioni della Veronica: mi è venuta in mente una frase di una canzone di Jovanotti, che dice «sono nato in una terra che mi ha dato quello che ho, e so che perderò ogni cosa che non difenderò». Questa frase, che ho sentito mentre ascoltavo un cd che mi hanno regalato, l’ho trovata interessante perché quello di cui io mi sono resa conto prima di tutto andando là, è che tutto quello che io avevo ricevuto vivendo normalmente qua tutti gli anni che ho passato dell’infanzia e dell’adolescenza non era per niente ovvio. Il fatto che io ho sempre dormito in un letto con le lenzuola pulite, mi alzavo la mattina e trovavo i vestiti pronti, trovavo la colazione, trovavo qualcuno che mi portava a scuola, la scuola c’era, c’era il professore, c’erano gli amici, c’era un cortile dove potevo giocare, andare in bici: tutti questi fattori – c’era la mamma che diceva a volte sì, a volte no – tutti questi fattori così apparentemente banali, di una quotidianità così apparentemente banale, in realtà non lo sono per niente, perché sono tutti fattori che hanno permesso al mio io di crescere. Inoltre, la maggioranza della gente di questo mondo queste cose non sa nemmeno cosa sono, non vive così. La maggioranza dei bambini con cui lavoro io adesso, che frequento quotidianamente, si svegliano e non c’è nessuno, perché se hanno la mamma, questa è già uscita molto presto; si lavano la loro uniforme da soli; se c’è qualcosa da mangiare, bene, se no escono, se c’è qualcuno vicino, gli chiedono «c’è qualcosa da mangiare?», insomma, hanno già, sviluppano un senso di autonomia molto forte molto presto, perché si devono arrangiare e difendere le cose che gli interessano. Quindi la prima cosa che ho imparato nel tempo, è che la situazione di necessità, o questo fatto di vivere in condizioni dove i fattori sono così instabili incide sul modo di usare la ragione. Perché un giorno tuo papà è lì con te, il giorno dopo se ne va, magari va a vivere tre case lì vicino e dopo tre mesi ha già un’altra famiglia, cosa che accade molto spesso; oppure la mamma è riuscita a trovare un lavoro, si sta bene per alcuni mesi, ma poi non riesce più ad avere lavoro e non si ha più niente improvvisamente; oppure ancora, qualcuno si ammala in famiglia, è la fine, non ci sono risorse per poter affrontare questo fatto. Inoltre, come succede a Salvador e nel nostro quartiere, quando piove molto forte le case si allagano e visto che le case hanno un’infrastruttura molto fragile, a volte l’acqua si porta via tutto. Ebbene, questa fragilità dei fattori esterni, nel tempo, mi sono resa conto che fa sì che le persone usino la ragione in un altro modo, e io questo l’ho trovato una cosa da cui ho imparato tanto. Perché? Perché, mi sono detta, noi europei (tra virgolette), io, abbiamo un modo di usare la ragione un pochino rigido. Veniamo da una storia in cui siamo abituati a manipolare la realtà, per cui pensiamo sei cose alla mattina, diciamo: oggi faccio queste sei cose, normalmente cinque, ci vanno bene, perché la realtà, più o meno, facciamo tre-quattro calcoli, la realtà ci corrisponde nelle cose che abbiamo pensato; se una ci va storta, tutti arrabbiati, «ah, perché è andata così, cosà». Invece questo fatto di vivere una realtà dove i fattori esterni sono così flessibili, rende le persone molto più agili dal punto di vista dell’uso della ragione. Per cui, mentre noi abbiamo solo il piano A per affrontare una cosa, loro hanno il piano A, il piano B, il piano C, il piano D, fino al piano Z: sono molto più liberi di fronte alla realtà. Questa è la prima cosa che ho imparato: a essere più disponibile alla forma in cui la realtà si presenta. L’altra cosa su cui cerco di entrare sono i due punti principali su cui noi cerchiamo di lavorare stando là, che un pochino si vedono nel video: la questione scolastica e la questione della violenza. Sulla questione scolastica, noi a un certo punto abbiamo dato un taglio: il nostro doposcuola sembra quasi una scuola, perché? Perché purtroppo, per come è organizzata la vita sociale in Brasile, essendoci questa divisione, praticamente funzionano le cose dove si hanno i soldi. Se tu non hai i soldi, sei messo male. Quindi la scuola pubblica, gli ospedali pubblici sono ambienti in cui in realtà nessuno è responsabile di nulla. È uno sfascio totale. Per spiegarvi come sono le scuole, vi racconto un esempio personale: la direttrice di una scuola che si trova in una comunità che è dall’altra parte del nostro centro – che è forse la comunità più difficile, perché ci sono più problemi di violenza – visto che noi abbiamo abbastanza alunni che sono di questa scuola, mi ha chiamato e m’ha detto: Paola, senti, vieni per dire ai tuoi ragazzi, che sono anche miei alunni, di non distruggere la nostra scuola. Allora sono andata là, entro nella scuola, era il caos, erano tutti in giro, correvano di qua e di là! Quando mi hanno vista arrivare i più piccoli hanno cominciato a dire: «La ven Paola, la ven Paola», che vuol dire «oh, arriva la Paola!». Allora i più piccoli, che ancora hanno un po’ il senso dell’adulto, hanno cominciato a correre verso le classi, e i più grandi invece li guardavano e dicevano «ah, ma non è orario di aula» e mi dicevano: «Paola, ma qua non è come al doposcuola!». Ed erano praticamente tutti liberi di muoversi dentro alla struttura dove letteralmente avevano distrutto tutto, le tegole, le grondaie, le sedie, e i professori erano chiusi a chiave dentro la sala insegnanti. Dopo aver chiacchierato un po’, ho detto alla direttrice: andiamo a fare un giro per la scuola. Io mi chiedevo: «Perché questi ragazzi, che sono i miei, si comportano così qua, e si comportano diversamente là, e perché questi professori hanno così paura? Perché in realtà loro erano chiusi per paura, perché i ragazzi, dicono, li minacciano. Perché qui li minacciano e a noi non ci minacciano?». Solo questo esempio per dirvi la situazione generale delle scuole. E io lì ho capito qual è la differenza: è la questione della presenza. Non è che c’è una formula magica. È una presenza, è che tu ti metti lì col ragazzo e dici: «Senti ma perché fai così?». È tutto un modo di dialogare, di stare insieme, di vedere le cose insieme che cambia, anche la forma come poi tratti le cose. Quindi, sulla parte scolastica, noi cerchiamo di compensare alcune lacune dell’insegnamento della scuola pubblica, cercando già di indirizzare i ragazzi verso un percorso di tipo professionale o di studio. Poi, sulla questione della violenza, della sicurezza, che è un tema che ricorre tantissimo, anche qui vi racconto alcune cose. Io non entro molto in questa dinamica del perché, del percome accadono: ci sono scontri dentro la comunità fra gruppi organizzati e la polizia, o fra di loro, eccetera. Io dico che di fatto ci sono periodi in cui veramente le cose sono pesanti, e dopo un ennesimo episodio di un ragazzo che era stato ucciso mi è venuta questa idea: sono entrata in classe e ho chiesto, in tutte le classi, ai ragazzi, chi aveva avuto qualcuno assassinato in famiglia, e tutti hanno alzato la mano. Quindi è un fenomeno veramente grosso. Io che cosa ho imparato su questo? Noi abbiamo un gruppetto di genitori con cui condividiamo le cose principali che facciamo lì al centro, gli chiedo sempre cosa ne pensano, anche perché il loro punto di vista è il punto di vista di chi vive la risposta che poi noi cerchiamo di dare. E uno mi ha detto una frase che per me è stata una bomba atomica nel mio cervello: «Guarda, Paola, che la forma migliore per difendere lo spazio è includere», che è una frase molto sintonica con quello che dice il Papa, ponti e non muri. A me questa frase mi ha veramente fatto ripensare tutto quello che noi facciamo lì, perché io l’ho trovata veramente geniale. Vi faccio anche qua un po’ di esempi per capire la situazione. È successo una volta che alcuni ragazzi hanno forato una gomma di una professoressa perché volevano una pompa per gonfiare il pallone e la signora che stava al portone non gliela ha voluta dare, quindi come abbiamo affrontato questo fatto? Io li ho imparato che se tu reagisci in modo poliziesco, questo genera odio, ti genera una risposta di odio. Allora cosa ho fatto? Siamo andati con il maestro a cercare questi ragazzi, perché i vicini ci avevano detto chi era stato. Sono rimasta là, per parlare con loro e le loro famiglie e gli stessi miei professori mi dicevano: «Paola guarda che così ti esponi». Però alla fine io mi espongo in ogni modo: non è che tu non corri rischi se non corri il rischio di dialogare. Un rischio lo corri lo stesso, solo che il tuo nemico tra virgolette ti rimane estraneo, mentre invece se tu rischi un legame, tu non hai più davanti un estraneo, hai davanti qualcuno e tu stesso non sei più un estraneo per l’altro. Quindi questo è un esempio banale per dire che tutte le cose che noi facciamo hanno dentro il punto di vista di tutta la comunità in cui noi siamo, dei genitori, del vicino, e il risultato tra virgolette di questo è che per esempio noi non abbiamo nessuna forma di vigilante, che là è molto comune. Avete visto che la struttura è molto bella e quindi noi non ne abbiamo bisogno, nel senso che non abbiamo mai avuto un episodio di invasione dello spazio, neanche quando si chiude per le ferie. Perché esiste una forma di proteggere lo spazio e noi stessi che lavoriamo lì che è della propria comunità, cioè è sentito come un bene per la comunità anche da parte di chi tutti temono. Esiste una forma di protezione, perché è sentito come un bene per tutti. Ci sono mille modalità con cui si è espressa questa formula: “ponti e non muri”. Per esempio noi non abbiamo un orario di ricevimento, i genitori quando hanno bisogno possono sempre venire e sempre c’è qualcuno che dà quell’abbraccio, buongiorno, buonasera, poi non sempre può risolvere il problema in quel momento, ma il fatto che la porta è sempre aperta, e c’è sempre uno spazio per incontrare l’altro, questo ci ha permesso di costruire tanto nel tempo. Quindi sinteticamente io mi sono resa conto che l’incontro apre maggiori possibilità, cioè ti apre possibilità che non pensavi prima, mentre se tu ti difendi e li ci sarebbero tutti i motivi per difendersi, per mettere mura, per mettere vigilanti, crei una distanza fra te e l’altro che non colmi mai. Faccio un ultimo accenno all’attività dello sport che avete visto nel video. Lo sport è un’idea che è nata in un secondo tempo, è nata del 2013 ed è nata da un ragazzino che era un nostro alunno, Paolo, sapete quei ragazzini che nessuno riesce a trattare, era uno insopportabile, ne combinava una tutti i minuti e viveva praticamente nella mia sala e io mi dicevo: «Eppure questo Paolo è intelligente». Ho cominciato a pensare qualcosa che potesse interessare questo ragazzo, considerando che studiare è una cosa necessaria, utile ma non è immediatamente attrattiva. E da lì mi è venuta questa idea: ho preso lui, ho preso il migliore alunno che avevamo in quel momento, li ho messi insieme e praticamente abbiamo organizzato un torneo di calcio per i ragazzi più piccoli. Io da lì sono rimasta impressionata dalla risposta dei ragazzi, dal protagonismo che questo faceva nascere in loro, quindi, dopo, abbiamo avuto anche una certa fortuna nel trovare subito delle risorse ed è partito questo progetto di sport. Dentro questo cammino, mi è piaciuta la frase di Veronica che parlava dei miracoli, sono successe cose, tipo che siamo riusciti a coprire il nostro campo, che era scoperto, quindi l’attività sportiva è cresciuta tantissimo e io sono impressionatissima di come i ragazzi si lascino disciplinare dallo sport e come accettino questo più di mille discorsi su quello che è giusto o sbagliato. Per esempio nella palla mano, se tu rispondi all’arbitro, tu non puoi dire niente all’arbitro, se tu rispondi all’arbitro ti prendi due minuti, cioè devi uscire due minuti. Questi ragazzi che sono così impulsivi, perché la vita in favelas è tutta sull’impulso, sull’urlo, è una vita pubblica, perché si è in strada, tutti sanno di tutto, è impressionante vedere come questi sono dei gentleman, quando ci gioca, come immagazzinano queste forme che sono richieste dalla pratica dello sport. Sullo sport dico anche un’altra cosa che è accaduta, che non era prevista, ed è il fatto che noi abbiamo iniziato a partecipare ai campionati delle scuole private, perché appunto, come dicevo prima, funziona solo quello dove c’è qualcuno che paga. Quindi funzionano solo nelle scuole private. Questo cosa ha voluto dire per noi? Che i nostri ragazzi, che sono tutti della periferia, quindi sono tutti di colore, vanno a giocare in queste grandi scuole dove ci sono, come dicono i miei professori, i figli dei milionari. Quindi c’è un incontro scontro nel senso che è evidente che probabilmente questi ragazzi se non ci fosse stata questa possibilità non avrebbero mai visto neanche questo lato della città, non avrebbero mai incontrato questi ragazzi e questo per noi è diventato una possibilità inaspettata ma molto interessante per dialogare su temi, su situazioni e esperienze che prima o poi i ragazzi devono affrontare, che è il fatto della discriminazione, il fatto del razzismo. Solo che questo come accade? Con una presenza. Diciamo che permette che si possano guardare queste realtà che noi non possiamo cambiare, perché la realtà è questa: saranno ragazzi discriminati, saranno ragazzi che avranno molte difficoltà a farsi un cammino fruttuoso nella vita, quindi questi fattori rimangono, però questo accade con un’ipotesi che gli fa vedere altre sfumature, con una ipotesi diciamo positiva per usare questo termine. Concludo e anche io riprendo un attimo la frase del Meeting «le forze che muovono il mondo sono le stesse che fanno il cuore dell’uomo felice», coincidenza questa perché è l’unica frase che io ho sulla mia bacheca, con la formulazione che sono «le stesse che muovono il cuore dell’uomo». Dinanzi a questa frase mi sono chiesta che cosa voleva dire questo per me e io dico che l’esperienza che ho fatto io della vita finora e di cui sono gratissima, è che è possibile vivere la vita a partire dal cuore. Che non è una cosa da adolescenti, ma al contrario, che vivere, poter vivere la vita con tutta l’ampiezza di quello che il cuore suggerisce, è veramente la cosa più interessante che possa succedere, e che nel tempo cominci a fare l’esperienza che il tuo cuore va allo stesso ritmo della realtà. Non che le cose, come siamo abituati a pensare, in modo dicotomico, siano positive o negative, ma che tutto dialoga con il punto che è il tuo cuore e nulla ti può impedire di posizionarti, di essere presente a quell’istante che ti si presenta. Quindi anche io come Veronica dico sì, è possibile vivere, è possibile vivere all’altezza del cuore in qualsiasi circostanza.

GIORGIO VITTADINI:
Allora Giobbe è una leggenda della Bibbia, una vecchia storia dell’Antico Testamento? No perché uno nella vita ad un certo punto, da giovane, da piccolo, da bambino incontra la disabilità, nasce con una contraddizione al desiderio di muoversi. Subito incontra qualcosa che per tutti vorrebbe dire l’infelicità, oppure da una situazione in cui hai tutto, in cui la realtà come per noi è normale ti trovi in una condizione in cui manca tutto, tutto non è normale, il letto, la colazione, la sicurezza, la scuola, i vestiti. Uno nella vita, che lo cerchi o no, trova la contraddizione, il male, e allora perché questo per la gran parte degli uomini porta a dire che il titolo non funziona? Lo abbiamo capito oggi: perché la gran parte degli uomini, tante volte anche noi, non ha “l’occhio di vetro”, abbiamo due occhi normali, che pensano di vedere, ma diceva Saint Exupery che «l’essenziale, ciò che è fondamentale è invisibile agli occhi». Invece “l’occhio di vetro”, mi permetto di parafrasare il Papa, è l’occhio del desiderio, lo abbiamo sentito da Veronica, il sogno che guarda la realtà, ma non è un sogno, è quello sguardo del cuore che vede quello che nella realtà sembra invisibile, è il desiderio. Il desiderio ha a che fare con qualcosa che nel Meeting è molto presente, gli astri, la profondità degli astri, dell’essere. Il desiderio buca la realtà, il desiderio non si ferma al dolore, il desiderio non si ferma alla disabilità, il desiderio non si ferma a quello che uno ha davanti. E allora cosa succede? Che “l’occhio di vetro” ti fa scoprire strade che non pensavi. Hai sette anni, dieci anni e la strada che la realtà ti pone, legata al tuo limite, è lo scrivere, la scrittura, un modo di percepire la realtà che noi non abbiamo, che questo occhio ti fa percepire; hai questa grandezza, questa voglia di muoverti più grande dell’impossibilità di muoverti che ti fa bucare una realtà che ti limita e cominci a muoverti con questa scrittura ed è la realtà stessa di questa scrittura che ti fa comminare, in un mondo che c’è ma che non ti eri accorto di avere, che i ragazzi della tua età non hanno. Oppure qui dentro, in questo disastro, cominci a includere, a guardare il limite, quello che gli altri non hanno come un ponte, come una possibilità, a usare quelli che distruggono la pompa della bicicletta come una possibilità di entrare in rapporto. Chi l’avrebbe detto che la violenza diventa un fattore di possibilità? E allora la realtà stessa, la realtà limitata, la realtà che non funziona, incontrata… Questa parola “incontrata”, sembra normale, ma indica l’incontro come metodo che, dice Giussani, è diverso dall’idealismo, dal far diventare la realtà quello che penso, o da empirismo. Questo incontro vede, fa un percorso, fa un percorso e cosa succede? Succede che la realtà pone la sua cosa più normale, il miracolo. Il miracolo perché la realtà è il miracolo: Giobbe parla della realtà che parte dall’essere quando Dio gli parla e Veronica parlava della realtà di se stessa, di questa disabilità che diventa la scoperta dell’essere donata, il miracolo. Vi ricordate in È mezzanotte dottor Schweitzer di Cesbron, il dialogo tra Schweitzer e l’altro, quando Schweitzer dice: «Non ci sono più i miracoli». Invece i miracoli ci sono, il miracolo è la realtà, dice Olmi ne L’albero degli zoccoli, quando c’è la predica del prete, il miracolo è la forza che l’uomo non ha, il miracolo è lo sguardo alla realtà quando si ha questo occhio di vetro che fa arrivare, camminare, camminare fino a arrivare a percepire che essere felice non significa avere un cielo senza tempesta, un cammino senza ostacoli, un lavoro senza fatica, ma trovare la speranza e la forza della battaglia. Il nome di Dio viene fuori da solo, Dio è un evidenza che è presente, che ti parla, che ti abbraccia, che ti incontra il momento prima, solo il momento prima dell’operazione, che ti sorprende solo lì, che diventa quello che abbiamo visto nel video, gente che magari non saprà mai fino in fondo dire il nome di Dio o usare la parola Cristo secondo tutti i riti che abbiamo, ma Cristo lo ha incontrato, Cristo lo vede. Cristo è lo sguardo di qualcuno che ti fa rispettare persino l’arbitro che noi non rispettiamo pure essendo cristiani, perché la violenza è del nostro essere tifosi, pensiamo cosa succede ogni domenica da noi. Allora capite qual è il percorso? Giobbe è il percorso di ciascuno di noi e questo titolo è un percorso per noi ma noi dobbiamo guardare i testimoni, dobbiamo guardare chi ogni giorno si immerge nella fatica, nella violenza, nel dolore, e ogni giorno, non rinunciando al sacrificio, scopre questa realtà. Ci vuole una scoperta, tutti i giorni, fatta di sacrificio, di dolore, come diceva Veronica, della partecipazione alla croce di Cristo che ci fa scoprire una risurrezione non legata ai riti ma che ci viene dal profondo della realtà. Questo è anche il percorso che continua in questo Meeting. Grazie.

Data

21 Agosto 2018

Ora

15:00

Edizione

2018
Categoria
Incontri