ENZO. Un’avventura di amicizia

Presentazione del libro di Emilio Bonicelli (Ed. Marietti 1820). Partecipano: l’Autore, Giornalista; Giuliano Barbolini, Senatore della Repubblica Italiana. Introduce Alberto Savorana, Portavoce di Comunione e Liberazione.

 

ALBERTO SAVORANA:
Come vedete non sono Giancarlo Cesana che, per problemi di salute, questo agosto non è potuto essere qui con noi. Proprio oggi ha la visita di controllo che dirà se potrà venire nei prossimi giorni, per gli altri momenti ed incontri con lui. Oggi presentiamo un libro che ha scritto Emilio Bonicelli, giornalista del Sole 24 ore, dedicato ad una persona cui tanti di noi sono legati per amicizia e per storia, che è deceduta nel 1999, esattamente dieci anni fa. E che ha segnato la vita di tanti. Di sicuro ha segnato la mia, perché io debbo alla iniziale irruente e imprevista entrata di Enzo nella mia vita l’aver preso una strada che mi ha portato dove non immaginavo e senza la quale io, oggi, non sarei a questo tavolo a parlare. Perché l’entrata di Enzo nella mia vita ha voluto dire l’entrata di un modo di vivere il cristianesimo che mi ha letteralmente, prima travolto e poi conquistato. Io, che venivo da una formazione cristiana, e di più, da bravo giovane di CL, avevo fatto tutta la mia storia, prima al liceo e poi all’inizio dell’università, e che pensavo in qualche modo di sapere cos’era la vita e il cristianesimo. Ma quando lui è capitato a Bologna e io ho cominciato ad imbattermi nella sua persona, ho dovuto pian piano rendermi conto che quello che pensavo di conoscere mi era totalmente sconosciuto. Attribuisco questo ad una posizione che lui ha sempre giocato con chiunque, che si ritrova anche in alcune pagine del libro biografico che Emilio ha scritto. In particolare, io ho fissato due affermazioni di Enzo, con cui poi vorrei iniziassimo il dialogo con i nostri ospiti, che dicono, mi pare, in che cosa la sua persona era eccezionale, era trascinante. Non per la forza di un discorso, non per un vigore di convincimento, e lui pure ne aveva. Non era secondo a nessuno nell’energia con cui parlava di quello in cui credeva. Ma perché in qualche modo lui aveva già fatto il percorso che ci proponeva, che ci offriva come amicizia e come strada. Perché in lui il cristianesimo era precisamente l’unica strada per guardare in faccia e risolvere il suo problema di uomo. Lui, che aveva vissuto una stagione nell’estrema sinistra, animato da un ideale di giustizia sociale, di giustizia umana nei rapporti, e che aveva identificato una certa tradizione ideologica, una certa compagnia ostile al sistema alle regole stabilite. Ecco, in lui l’incontro con l’esperienza cristiana ha voluto dire dare nome a quello per cui aveva speso gli anni giovanili in lotte, in battaglie politiche, e in qualche modo pacificare, non come un arrendersi ma come l’aver trovato finalmente il segreto della vita, il bandolo del groviglio, della matassa della sua umanità. E’ il 14 maggio 1999. Di li a dodici giorni Enzo muore in un incidente sull’Autostrada del Sole, di ritorno da Milano. L’arcivescovo di Ferrara, l’allora monsignor Caffarra, oggi arcivescovo di Bologna, che per uno strano gioco della sorte, complice don Giussani, aveva stretto amicizia con Enzo, era solito ogni tanto invitarlo a parlare ai giovani della città. E questa fu l’ultima volta. Ovviamente, cronologicamente, anche l’ultimo intervento pubblico di Enzo. “La posizione cristiana è la posizione umana nel senso vero del termine. Al di fuori del cristianesimo, l’uomo non è compiuto. Non starei nell’esperienza cristiana se non fosse per questo. Mi ribellerei anche solo – quando sentite leggere che Enzo diceva “mi ribellerei”, dovete mettervi dal suo punto di vista: è una ribellione non intellettuale ma fatta di carne e sangue, che esprimeva anche col suo tono – al pensiero che essere cristiani significhi essere, come tanti pensano, uomini un po’ meno degli altri e con qualche problema in più. Se ho scelto di stare nell’esperienza cristiana è perché qui trovo me stesso, quello che ho sempre cercato”. Questa è una rivoluzione rispetto alla mentalità comune, per cui essere cristiani è essere un po’ meno uomini. Desiderare le cose di tutti, amare le cose di tutti ma un po’ meno, perché certe cose i cristiani non le possono fare. Certe cose i cristiani non lo possono dire. Ecco: uomini un pochino meno, un po’ dimezzati. Era una cosa che a Enzo faceva ribollire il sangue nelle vene. Perché quando l’umanità è tutta tesa al desiderio incolmabile del proprio cuore, della propria umanità, non si può accontentare di niente che non sia all’altezza di quel desiderio. E il cristianesimo dimezzato era un abominio, era una contraddizione in termini. Lo dice anche in un altro incontro: “Io sono un ateo diventato cristiano per caso, perché vengo dal posto dove l’ateismo è nato: la bassa emiliana. Per cui il fatto cristiano è stato come una scommessa, e se sono nel fatto cristiano è perché c’è dentro una sfida. La sfida è che il cristianesimo non significa che l’uomo è un po’ meno degli altri perché ha qualche obbligo in più, ma significa la vera umanità”. Questa era una delle note dominanti della sua persona ed è una delle cose che a me ha affascinato di più, fin dall’inizio della mia amicizia che poi è diventata più che una amicizia, è diventata figliolanza. Perché incontrare Enzo ha voluto dire per me imbattermi in una promessa di vita che era infinitamente più grande e carica di positività, di bellezza, di interesse della vita, pur bella, che avevo fatto fino ad allora e in cui io mi ero in qualche modo accomodato e sistemato. Ma qualcosa mancava. Me ne sono accorto quando ho visto lui – e il paragone è stato immediato -, che lì c’era una vita infinitamente più desiderabile di quella che io stavo conducendo. E io, come lui diceva, ho scommesso su questo. Anche se non avevo il suo temperamento, ero un bravo ragazzo, tranquillo nelle mie cose. Ma fu come una scossa che mi ha costretto anche ad attraversare in un istante, fin da quel giorno che ricevetti la telefonata dalla Magda per un invito a cena all’allora “Carovana”, che era nell’estrema periferia a sud di Modena. Avevo tanti motivi per dissentire, per non essere d’accordo, perché io sapevo in qualche modo già cos’era il cristianesimo, la fede, CL. Ma su quella promessa che era la sua persona io ho giocato la mia vita. E da allora è stato un filo che mi ha accompagnato. La cosa che mi ha sorpreso è che io ero così piccolo e diverso da Enzo e lui non mi ha più mollato. Anche l’hanno in cui sono stato in America – ho vissuto per un anno e ho lavorato a New York nel 1988 -, non c’era settimana, ma che settimana!, giorno, in cui non ricevessi la telefonata. Una telefonata da amico, che rendeva presente in quell’istante tutta la grande compagnia che avevo lasciato perché ero andato da solo a vivere in un paese lontano. Venne anche, ricordo, a trovarmi, e abitò con me per una settimana, nel divano letto della mia casa. Abbiamo vissuto nello stesso letto per una settimana, ed è sorprendente il gioco di questa vita condivisa. Stare con Enzo voleva dire essere messi a nudo nella propria vita. Ma messi a nudo non da uno che ha il problema di metterti in castagna, di coglierti in fallo, da uno che ti vuole bene e, volendoti bene, non può non essere interessato al tuo futuro, alla donna che vuoi sposare, al tuo lavoro. Potrei parlare per giorni di Enzo. Ricordo questi episodi: lavoravo a Milano da sei mesi, era il 1985. Io sono andato a lavorare a Milano perché quello che poi, appunto, sarebbe stato il mio datore di lavoro mi propose questo. Il mio datore di lavoro si chiamava don Luigi Giussani. Cosa potevo desiderare di più? Mi ricordo che, dopo sei mesi, un giorno Enzo, che veniva a Milano tutte le settimane, mi prese nella mia stanza, in via Copernico, vicino alla stazione, e mi disse: “Cosa c’è che non va?”. “Come? Va tutto bene!”. “No, no, c’è qualcosa che non va, dimmelo!”. Io dico: “No, va tutto bene”. “Io lo so cosa c’è che non va: tu fai questo lavoro ma non è il tuo. Lo fai perché te lo ha detto don Giussani, e così si vede. Sei un po’ triste, sei già stanco dopo sei mesi, anche se sei al centro, sei nel posto dove ognuno, ogni bravo ciellino potrebbe desiderare di essere. Ma se quello che ti ha proposto don Giussani non diventa tuo, ti logorerai, non vedrai l’ora di andartene via”. Per me fu un terremoto, in un istante vidi crollare tutto il disegno che avevo fatto sulla mia vita futura. Lui un po’ ci aveva messo del suo, ma in un istante ho visto che si apriva la breccia di una strada nuova, che finalmente quello che facevo perché qualcuno mi aveva detto di farlo poteva essere mio, poteva essere una strada che io abbracciavo e brandivo, per essere io protagonista. Quell’episodio mi ha fatto scoprire un’amicizia con Enzo infinitamente più profonda, fino alla confidenza delle cose più intime, che uno in certi casi non direbbe neanche a se stesso. Mi fermo. Abbiamo qui il senatore Barbolini di Modena, che ha una lunga carriera amministrativa e politica alle spalle come assessore regionale e sindaco di Modena: ora è senatore della Repubblica, impegnato in alcune iniziative politiche molto importanti per quello che chiamiamo il bene comune. Una fra tutte: è relatore della legge sul 5 per mille, che in tanti sappiamo quanto sia importante per la vita sociale e per la possibilità che qualcosa di libero possa esistere senza avere sempre la spada di Damocle della chiusura. La cosa interessante del senatore è che non ha mai incontrato Enzo. Infatti, lui diceva che quando lo hanno invitato si è un po’ stupito. Anch’io pensavo che si conoscessero, ma la cosa è molto interessante e sono curioso di ascoltarlo, perché ho pensato questo: in fondo il senatore è come la prima generazione di coloro che sono vissuti dopo gli anni di Gesù Cristo, che non hanno visto, che non l’hanno incontrato per le strade della Galilea, che non gli hanno parlato, non lo hanno sentito parlare. Ma cosa è capitato loro? Hanno incontrato, conosciuto, visto agire, sentito parlare quelli che lo avevano conosciuto, e quindi hanno cominciato a conoscere quell’uomo attraverso la testimonianza di quelli che lo avevano conosciuto. Don Giussani chiama questo “conoscenza per fede”, cioè conoscere e ritenere come vera una cosa, non perché la si è toccata e vista con gli occhi, ma perché si è incontrato e toccato qualcuno che è stato raggiunto da quella cosa. Allora a lui che ha letto il libro di Emilio e ha incontrato e frequentato amici, persone che hanno vissuto con Enzo, che idea si è fatto di quest’uomo.

GIULIANO BARBOLINI:
Grazie e buongiorno a tutti! Savorana mi ha messo in una posizione che vivo con una qualche inquietudine. Prima di svolgere il compito che mi è stato richiesto, apro e chiudo una parentesi per una cosa che credo sia davvero per il bene comune e di interesse comune. Per un’iniziativa che è stata presa dall’Intergruppo parlamentare per la Sussidiarietà, io sono relatore in senato, per la Commissione finanza e tesoro, della legge che dovrebbe, nelle intenzioni, stabilizzare il 5 per mille, cioè rendere il 5 per mille un meccanismo automatico, al quale il contribuente può fare affidamento nelle sue libere scelte di destinazione di una quota per il gettito, il pagamento che deve corrispondere allo Stato, perché possa essere destinato alle finalità di liberalità e di sostegno al volontariato e al non-profit che voi tutti conoscete. Sapete che in questi anni il 5 per mille ha avuto una grande risposta dal punto di vista delle aspettative e delle disponibilità delle persone: tuttavia si è spesso dovuto scontrare con le burocrazie, con l’ipertrofia delle macchine e soprattutto con un problema. Siccome è legato allo stanziamento che ogni anno si fa con la legge finanziaria, subisce gli andamenti congiunturali della crisi dell’economia e quant’altro. Stabilizzare il 5 per mille sarebbe un’ottima cosa. E’ un’iniziativa assolutamente bi-partisan, trasversale, merito dell’Intergruppo parlamentare per la Sussidiarietà, quindi potrebbe essere una di quelle cose che si materializza velocemente. Avevamo addirittura sperato che potesse essere fatta in sede deliberante in due commissioni, sia al senato che alla camera, prima dell’estate. Non è successo così, e adesso c’è un po’ il pericolo che, di slittamento in slittamento, non solo non si faccia entro il 2009 ma che vada a rischio anche il 2010. Allora, lo dico senza alcuno spirito di polemica, ma siccome parliamo di una persona di cui ho capito che aveva una grande forza, una grande tensione, una capacità di credere e di costruire in funzione di quello in cui credeva, e siccome so che voi siete un mondo di grande ricchezza e di grande sensibilità, dato che credo che venerdì venga qui il ministro dell’Economia, scaldategli il cuore sulla questione del 5 per mille, scaldategli il cuore. Enzo Piccinini: è vero quello che diceva Savorana, anche se io sono un po’ più vecchio, di 5 o 6 anni, però sono nato a Modena e ho studiato a Bologna. Quando sono rientrato a Modena, Piccinini faceva attività professionale a Bologna: sono storie parallele che non hanno mai trovato, credo, l’occasione e la possibilità di incontrarsi direttamente. Io ho scoperto la persona sentendone parlare da un gruppo di amici modenesi, persone legate all’esperienza della Carovana, di Comunione e Liberazione, che sono venuti a parlare con me quando avevo la responsabilità pro tempore di sindaco della città, per sostenere la forza, l’intenzione, la tensione, la qualità di un progetto. Era un progetto educativo, legato al fatto di fare crescere, dare solidità e sostanza all’esperienza educativa della Carovana, che Enzo Piccinini aveva contribuito a sviluppare. Io non sono una persona cerimoniosa e non faccio complimenti, però c’era una semplicità nell’approccio, ma al tempo stesso una convinzione, una determinazione, e anche uno spirito, lo spirito di costruire qualcosa che fosse bene comune – bene in particolare per una comunità che già usufruiva di quel servizio, ma bene comune nel senso che si inscriveva nel tessuto dell’offerta della rete dei servizi educativi della città e quant’altro -, che meritava di essere accompagnata e sostenuta. L’amministrazione comunale non ha fatto gran che, ha fatto quello che si deve fare in questi casi: ha aiutato a individuare l’area, ha facilitato i meccanismi e le procedure, ha facilitato il rapporto con soggetti privati come le Fondazioni, che hanno nella loro missione istituzionale di finanziare progetti educativi. Insomma, il Comune è stato un facilitatore, il sostegno di un’esperienza che era valida, dal mio punto di vista, perché si portava dietro non solo una qualità intrinseca ma un valore aggiunto di bene comune e di interesse generale per una comunità e per un territorio. Noi viviamo nelle nostre comunità rischi di tensione, di corporativizzazione, di segmentazione, di egoismo, contro cui bisogna combattere quotidianamente per ricostruire identità, senso di appartenenza, senso di coesione delle comunità, eccetera. Quella esperienza, secondo me, nella sua individualità e nella sua originalità, era una ricchezza non solo per chi la praticava, era una ricchezza che poteva contribuire ad arricchire la comunità nel suo insieme. E quindi io l’ho seguita con passione: insomma, ho cercato di fare il mio dovere. Poi ci sono altre cose che i miei amici modenesi fanno e che secondo me sono meritorie. C’è un’esperienza legata all’accompagnamento dei ragazzi in difficoltà nello studio, e altre cose che esprimono anche un valore di civismo, come aiuto a chi nella comunità vive un momento di incertezza, di difficoltà, e incontra un’opportunità, un’occasione, la ricchezza e la qualità umana di persone che nel dialogo e nell’interlocuzione creano un fatto, un evento, qualcosa che molto spesso segna la vita di tante altre persone e di tanti altri interlocutori. Questo è semplicemente il mio vissuto, la mia esperienza, e forse ciò che sta alla base di un rapporto. Leggendo il libro di Enzo, ho trovato elementi che non solo qualificavano il profilo di una persona, la ricchezza umana e la forza di una esperienza di vita, ma ragioni di fondo, ispirazioni che mi hanno aiutato a comprendere il valore e l’impegno dei ragazzi che lavorano nella fondazione Piccinini e di chi prosegue in quella testimonianza di vita. Da questo libro e dall’esperienza che se ne ricava, viene il senso di una forza, di una capacità di tensione, di generosità, di amore che hanno radice, nella scelta di fede, nel valore della lezione di Cristo, che si traducono in comportamenti e in atti che segnano in maniera profonda le traiettorie della vita e dell’esperienza. Nel libro si dice a un certo punto che nella sua esperienza di vita e di rapporti familiari, Enzo fu il primo promotore dell’opera educativa della Carovana, quella che venne costituita il 2 maggio del 1979, che ne dettò l’impostazione e ne indirizzò le scelte fondamentali. C’è un riferimento ad un ricordo della moglie che dice che all’inizio erano tre o quattro bambini che si avviavano alle scuole elementari: i locali erano poca cosa, pochi spazi. Un’esperienza assolutamente, micro, nel momento in cui nasce. Ma in quella scelta, in quella intuizione c’è una forza e una grandezza che a me è sembrato di recuperare. Non c’è solo, credo, il convincimento interiore, il riferimento al Rischio educativo di Giussani, a quella lezione… Certamente ci sono questi elementi, però vi si intravede anche la forza di una personalità. Assumere la sfida di un progetto educativo nel 1979, dopo quello che era successo a Bologna nel 1977 (Modena è sempre stata una realtà diversa, non trasferibile), in un contesto di quel tipo, con l’originalità legata all’interpretazione della lezione di don Giussani, nella realtà modenese significava avere un bel fisico, essere una persona che non si spaventava di fronte a niente. In una realtà come quella modenese in cui, per diversi profili, l’investimento sull’educazione, sulla scuola, sull’infanzia è ricco, sia sul versante istituzionale dei servizi pubblici, comunali, sia su quello delle scuole private cattoliche, avere l’idea di un progetto che si proponeva un elemento di innovazione, di traduzione di principi, di riferimenti valoriali in un percorso educativo concreto, lavorare alla sua costruzione, è un fatto che segnala la grandezza di una figura e di una personalità, la forza, la ricchezza e l’ambizione di un pensiero e di un progetto, la tensione anche umana che si accompagnava a quello sforzo. Se valutato a distanza di trent’anni, il risultato di quel percorso rende merito e onora una persona e un impegno, non solo dal punto di vista ideale, valoriale ed esistenziale, ma anche dal punto di vista delle sue realizzazioni concrete. Da quell’origine, la realtà che oggi la Carovana rappresenta a Modena è una straordinaria ricchezza. Devo sottolineare un altro elemento che emerge alla mia formazione di amministratore. Ho sempre pensato che la realtà modenese sia tale che alla più ampia presenza di servizio pubblico e di offerta pubblica corrispondesse anche una straordinaria ricchezza di protagonismo sociale, di soggetti di volontariato e di non profit. La mia idea è che le due cose si sono reciprocamente influenzate, nel senso che in passato hanno anche svolto una funzione competitiva e concorrenziale: non escludo che nell’idea originaria di Enzo Piccinini, se penso a qualche riferimento che viene fatto nel libro, ci fosse anche un’idea di sfida, la volontà di marcare un elemento identità. Però questo elemento, interagendo con un tessuto sociale, alla fine ha prodotto, secondo me, la ricchezza di un incontro che si è dipanato nel tempo, che in realtà è cresciuto e si è modificato. Si è modellato diversamente il modo di concepire la logica del rapporto tra servizio pubblico e valore della sussidiarietà, in una realtà come quella modenese, la capacità d dialogo e di interlocuzione con i soggetti altri. Credo però che anche l’esperienza del gruppo della Carovana, nel rapporto con l’amministrazione comunale, col progetto educativo complessivo, abbia fatto sì che ci sia una capacità di sviluppare insieme un’autonomia di profilo, di disegno, di progetto formativo ed educativo, stando dentro una rete, un sistema, dentro la costruzione di un modello di reticolato sociale che innerva nella società riferimenti esistenziali e valoriali che ne corroborano la capacità di tenuta e ne aiutano anche i processi di crescita virtuosa e di trasformazione. Spero di avervi dato il senso di quello che per me è un elemento che, giudicato dall’esterno e sull’esperienza diretta di chi ne interpreta il messaggio, dice dello straordinario valore e qualità di una persona che si è spesa con generosità, con grande passione e determinazione su un terreno di incontro con l’altro. L’altra cosa che mi interessava mettere in evidenza, perché è di grande qualità, è il riferimento all’esperienza professionale di Enzo Piccinini come medico e come chirurgo. Ho avuto la fortuna di fare un’esperienza come assessore regionale alla sanità dell’Emilia Romagna, conosco il sistema sanitario, so che ha straordinarie performance e che complessivamente è un sistema molto avanzato. Tuttavia, senza far torto ai tanti operatori che ci mettono passione e impegno, quel senso di interpretazione del suo lavoro professionale come vicinanza a chi si trova in una condizione di debolezza perché malato, la ricerca del dialogo, l’onestà intellettuale, la trasparenza della comunicazione, che dice le cose per quello che sono e che in questa maniera rispetta l’altro ma al tempo stesso gli dà una mano nel momento della difficoltà, lo accompagna nella sua esperienza, è una gemma dal punto di vista della qualità e della ricchezza, non solo umana ma anche professionale e medica, che credo sia una risorsa e un modello da prendere a riferimento per come deve funzionare al meglio la sanità, per essere sempre più umanizzata, per essere sempre più un sistema di servizi che si orienta all’uomo e al bene delle persone e che rifugge da quelli che sono i rischi, l’eccesso di tecnicalità, di specialismo. Sono elementi che tolgono anima, significato, qualità anche ad un agire professionale che può essere ineccepibile dal punto di vista dell’approccio e del comportamento. Questa cosa mi ha molto coinvolto, anche perché queste esperienze personali, questa testimonianza, questo metterci di sé nel costruire ciò che si vuole incarnare e rappresentare, lascia dei sedimenti e dà dei frutti. Dà dei frutti, certamente, sotto il profilo delle scelte personali, della ricerca di fede, ma anche per il sistema delle istituzioni. Interpreto lo sforzo che è stato fatto nelle politiche sanitarie dell’Emilia Romagna, su come affrontare e innovare il sistema delle cure oncologiche, soprattutto su come ci si è posti il tema dell’accompagnare l’ultima fase, l’esperienza terminale della vita delle persone, nella ricerca del rapporto con la territorialità e le famiglie, come il riflesso e anche una conseguenza di quella ricchezza, di quel patrimonio umano di relazioni, di motivazioni, che traspare per esempio dal modo in cui Enzo Piccinini interpretava la sua professione di medico, di chirurgo e di persona impegnata in un’esperienza di fede. Mi fermo qua. Vi ringrazio dell’invito, è stata davvero l’occasione per andare alla scoperta delle caratteristiche di una persona che meritava di essere conosciuta. Devo dire che mi ha aiutato ad apprezzare ancora di più il lavoro di qualità che fanno quelli che, nel suo nome, continuano a sviluppare quelle idee e quei progetti. Penso che il lavoro che la Fondazione intitolata ad Enzo Piccinini sta sviluppando sia un modo giusto di dare senso, onore e merito a un’esperienza di vita che sicuramente ha tanto da insegnare, non solo a chi ha un patrimonio di ricchezza di fede ma anche, più genericamente, a chi si preoccupa dell’interesse del bene comune della popolazione.

ALBERTO SAVORANA:
Io ringrazio il senatore Barbolini perché dalle sue parole mi è parso ancora più chiaro, solare, ciò su cui il cristianesimo sta o cade, il grande test. Avrete notato che, parlando di due questioni di rilevanza sociale, l’educazione e la cura, la sanità, ha raccontato l’antefatto, ciò senza il quale le opere, le realtà di cui ha parlato non esisterebbero. E cioè un uomo impegnato con la sua vita, con i bisogni della sua vita: la Carovana, lo racconta Bonicelli, nasce nel 1979, quando la figlia maggiore Chiara avrebbe dovuto iniziare le scuole elementari. Cioè, non una riflessione astratta sulla necessità di riformare il sistema educativo modenese, emiliano romagnolo e italiano, ma un bisogno della propria famiglia: una bimba di sei anni che deve andare a scuola. Quello è il grande antefatto: cosa ci fa capire? Che all’inizio tutto si gioca in un io, in una personalità piena di quello che lui ha chiamato tensione, che riconosce e obbedisce alla realtà: una bimba che deve cominciare a studiare. Per questo, per Enzo, il cristianesimo non era essere uomini “un po’ di meno”, ma era essere uomini nella pienezza della capacità di affrontare la realtà, di viverla. Allora, io chiederei a Emilio che si è cimentato nel lavoro, lui che invece ha conosciuto, frequentato, che è stato amico di Enzo, cosa ha significato per lui cimentarsi in questa impresa, lui che prima aveva scritto già qualche decina di libri. Ma sicuramente, di tutti i libri che ha scritto, compresa la sua storia, la sua vicenda personale, forse, è quello in cui si è dovuto impegnare di più. Cosa ha voluto dire fare questo, e alla fine, cosa ha trattenuto? In che cosa si sente in qualche modo debitore a quello che ha conosciuto, incontrato? E poi, se ci dicesse anche qualcosa dei primi esiti di questa cosa nuova che ha prolungato in varie parti della penisola: o il ricordo, la memoria o la prima scoperta di Enzo e della sua vita.

EMILIO BONICELLI:
Innanzitutto, grazie ad Enzo che oggi ci ha messo così numerosi insieme che questa sala non basta a contenerci. Grazie anche a quegli amici che hanno accettato il sacrificio di seguire l’incontro da fuori, al Meeting che ci dà l’occasione di trascorrere questo momento insieme ad Enzo e all’amico Savorana, che sta all’origine di questo libro, con la prima idea che è maturata nel suo studio a Milano, e a Barbolini per la sua presenza e per quello che ci ha detto, anche ripercorrendo i primi passi della Carovana nella provincia di Modena. Essa era allora un segno cosi piccolo da sembrare insignificante, ma aveva già dentro di sé tutta la forza di ragioni e di significato che l’ha portata a diventare quella che è oggi, cioè una scuola con più di 600 alunni ed una struttura nuovissima che però è già diventata piccola e non riesce a contenere tutti coloro che vorrebbero iscriversi. Rispondo quindi alle domande che mi sono state fatte partendo da qui: come nasce questo libro? Nel 1999, come ha ricordato anche Savorana, sono stato colpito da una grave malattia e durante la lunga convalescenza ho scritto il mio testo Ritorno alla vita, per raccontare anche come all’interno di questa esperienza di dolore fosse fiorita la grazia. Nelle primissime pagine di quel libro c’era Enzo, parlavo di lui, dell’ultima volta in cui c’eravamo visti, dieci giorni prima della sua morte, era il 16 di maggio. Avevamo pranzato insieme, con le sue figlie Annarita e Caterina, che iniziavano allora i primi passi alla facoltà di medicina dell’università di Bologna. Nelle prime pagine di quel libro, raccontavo anche di come, poche settimane dopo la morte di Enzo, all’inizio di luglio di quel terribile 1999, mi fecero la diagnosi di leucemia. E il primo pensiero fu: non c’è più Enzo, perché la prima persona da cui sarei corso per condividere, consegnare, portare, raccontare quell’urto violento che era entrato nella mia vita, sarebbe stato sicuramente lui. Invece Enzo c’era. La sua presenza poi si fece sentire con segni molto concreti, durante tutto il percorso della malattia. In particolare, mi ricordo quando eravamo praticamente reclusi in un appartamentino a Milano, vicino all’ospedale Niguarda. E così, in quel libro, ricordavo quel pranzo. Era straordinario vedere come la passione per Cristo penetrasse la sua vita, anche nei gesti più semplici e quotidiani, nel pranzare, nel dialogare insieme, nel discutere di politica o dei problemi dei figli, come avevamo fatto con semplicità quel giorno. C’era, lì dentro, un di più. Lui ti prendeva per mano e ti accompagnava oltre. Apriva dentro di te nuovi orizzonti. E concludevo quella pagina dicendo: ecco un santo. Così nasce questo libro. Da allora, ho sempre avuto il desiderio di riprendere il filo di quelle poche parole, di dilatare quella pagina per renderla più adeguata alla grandezza dell’amicizia vissuta. Un nuovo libro, forse qualcosa di più di un libro, una memoria viva per chi non lo ha conosciuto. Il dono di un incontro per chi, troppo giovane, troppo lontano, perché camminava su strade diverse, non è stato scaldato dal fuoco della sua compagnia. E la sua compagnia era un fuoco, per chi lo ha conosciuto. Ho custodito questo desiderio nella preghiera e nella memoria quotidiana. Cosi, quando dalla Fondazione Enzo Piccinini, per bocca di Savorana, mi è arrivato l’invito a preparare un testo, quasi una biografia, ho aderito di slancio perché portavo quel desiderio nel cuore. Era quello che io stesso desideravo: quel libro è nato così. Non una biografia, non la pretesa di raccontare in ordine rigoroso tutto quello che è accaduto e che è stata la sua vita: sarebbe stato peraltro impossibile. Enzo era responsabile di una realtà in cui c’erano, all’interno della comunità, più di 20.000 amici. E io credo che ognuno di loro abbia da raccontare un momento significativo. Come è accaduto a me recentemente, andando a Foggia per altre ragioni, incontro un amico che mi racconta di quando la moglie fece la torta Sacher a Enzo: quel fatto è rimasto nella storia della loro famiglia. Quindi nasce cosi, con l’idea di mettere insieme, intorno al tavolo, un gruppo di amici, per raccontare insieme quel fatto, momento, episodio, in cui la novità fiorita in Enzo ci aveva colpiti, segnati, educati, e in qualche modo cambiati. Il libro è questo, nasce con questa idea. Scusate il paragone, ma ho pensato un pochino di scrivere questo libro come sono scritti i Vangeli. Non il racconto analitico di tutti i miracoli, ma quell’incontro, quel giorno, quell’ora rimasta impressa nella memoria, in cui ad alcuni è parso evidente che una novità inaspettata, inspiegabile, era entrata nel mondo, li aveva incontrati. Così questo libro è fatto di episodi anche minimi, prevalentemente di episodi minimi, a volte banali, a volte decisamente banali, ma decisivi per questo: provare a raccontare la profezia che Enzo è stato per noi in questo tempo, attraverso episodi come questi, banali come una pedalata in bicicletta nel centro di Modena. Che cosa c’è di più banale e quotidiano? In tutto questo daffare, mentre magari Enzo ti riaccompagnava a casa in bicicletta, all’improvviso arrivava una domanda inaspettata: ma tu, a Cristo, sei disposta a dare la vita? Cosi l’eterno faceva irruzione nella nostra giovinezza. Ho pensato: quanti ragazzi, migliaia di ragazzi, sono stati toccati dal fatto cristiano perché da Enzo, con un coraggio e una trasparenza straordinari, si sono sentiti dire quello che nessuno diceva a loro? E cioè che la vita è una cosa grande e seria, perché è qualcosa che è chiamata a confrontarsi con l’eterno, con un destino buono. Un pranzo insieme, una pedalata in bicicletta. Più che nella sua inesauribile forza, io credo, nell’energia dirompente che lo animava e di cui nemmeno lui riusciva a darsi ragione, come lui stesso diceva, più che nella sua acuta intelligenza, la grandezza e la profezia di Enzo stanno nell’aver donato al mondo e alla Chiesa ciò di cui più il mondo e la Chiesa hanno bisogno. In questo tempo, spesso largamente dominato, come ha ampiamente detto il Papa, dalla “dittatura del relativismo”, dove Cristo è stato ridotto ad una religiosità vaga, un’astrazione, Enzo è stato la testimonianza instancabile che invece Cristo c’entra con il tutto della vita, e che entrandovi lo rende, giorno dopo giorno, più umano e più vero, come se lui avesse riannodato in sé la fede con la vita. All’inizio del libro, e qui termino questo pensiero che volevo donarvi su come nasce e come è fatto il libro, nel I capitolo, non ho messo la sua biografia ma ho messo il racconto dedicato alla sala operatoria, luogo in cui sono andato a scrivere questo capitolo. Sono andato nella sala in cui Enzo operava ed ho assistito ad uno di quegli interventi che lui faceva insieme al gruppo degli amici che ancora continuano a fare quella straordinaria opera che lui faceva. E vi ripeto che, per uno come me, che di mestiere fa il giornalista, è stata una cosa sconvolgente. Dopo tre ore sono dovuto uscire per non svenire a terra: ero esausto ed ho pensato che Enzo operava per otto ore, poi usciva, prendeva la macchina, andava ad incontrare un gruppo di amici, andava a Milano ad un incontro. Non è stata una scelta casuale, mettere lì questo capitolo, ma un modo per far emergere da subito la bellezza di questa profezia. Un modo per far vedere come la totalità della sua appartenenza a Cristo, la totalità della risposta alla modalità con cui dio era entrato nella sua vita, coinvolgeva la sua professione di chirurgo e materialmente la cambiava, così che la sala operatoria era diventata non solo luogo di perfezione nell’impostazione dell’unità chirurgica, dell’operazione, del pre-post, ma anche, quotidianamente, una scuola di nuova umanità. Anche qui c’è una frase piccola, un episodio minimo che mi è stato raccontato da Giampaolo, una frase detta dai suoi pazienti, alla notizia che il chirurgo che li aveva operati e salvati era morto in quel terribile incidente. “Vi chiedo una sola cosa, ho girato molti ospedali, ma un gruppo come il vostro non l’ho mai visto. Spero che ognuno di voi possa andare in una città diversa per far nascere qualcosa di simile a quello che ho trovato qui. Tutti quelli che stanno male dovrebbero infatti poter fare un’esperienza così”. Quando Giampaolo mi ha detto questa frase, a me sono tornate subito in mente le parole del Vangelo, quando il popolo si stupisce di fronte al paralitico che si alza, prende il suo lettuccio e va via. “Non abbiamo mai visto nulla del genere”. Ecco, così Enzo emerge nel libro, così ho voluto raccontare Enzo in questo libro. Così come quel gruppo di amici lo ha raccontato nel suo donarsi a Cristo nella paternità di don Giussani, ed in questa paternità donarsi a noi, come diceva giustamente Savorana, per il nostro bene. Il secondo pensiero che volevo portarvi, per rispondere alla domanda che mi è stata fatta: che cosa è successo dopo l’uscita del libro in aprile? Intanto è successa una cosa incredibile, perché hanno dovuto fare due ristampe. Ma soprattutto, l’uscita del libro è stata per me una sorpresa, uno tsunami di ritorno di gratitudine. Da parte degli amici, di quelli che lo conoscevano. Mi sono appuntato dei messaggini che mi sono arrivati: “Era un libro necessario come una bella giornata di sole che ci ricorda che Dio esiste”. Gratitudine da parte di quelli che non l’avevano mai conosciuto prima: “Incontrare Enzo non lascia indifferenti. Un uomo che guarda i figli chiedendosi che ne sarà di loro, guardando al loro destino che non li fa tuoi”. “Un uomo che ti scuote l’anima con le sue domande: che cosa vivi?, in che cosa speri?, su che cosa fai affidamento?, certamente lascia un segno nel mio cuore”. Un ritorno di gratitudine da parte di quelli che sono stati cambiati dall’incontro di Enzo, attraverso queste parole. Una madre durante una trasmissione a Radio Maria: “Leggendo il libro, è cambiato il modo in cui adesso guardo i miei figli”. Ma poi, in fondo, questo libro che ho scritto ha aiutato a cambiare anche me, e allora vi dico questo episodio. C’è stato un ritorno di gratuità anche da parte di quelli che avevano un pregiudizio, rispetto all’esperienza di Enzo. Nel rapporto iniziale di amicizia con una persona che ho conosciuto perché colpita dalla mia stessa malattia, racconto della mia esperienza in CL e mi sento dire: “Ma voi siete una mafia!”. Un pregiudizio, di fronte al quale la mia prima reazione è stata: lasciamo perdere. Ma poi mi è tornato in mente il modo in cui Enzo è diventato amico di Ludovico Balducci, che fra l’altro avevamo invitato e speravamo potesse essere qui oggi: non è potuto venire perché è in Australia. E’ un noto chirurgo che aveva conosciuto Enzo in Florida, quando lui era stato invitato per presentarsi a un Club come chirurgo italiano. Quella sera, racconta Balducci, cercai di provocare Enzo: “Per ragioni molto personali, ero ostile alla comunità creata da don Giussani e feci del mio meglio per mettere in luce questo disaccordo. Il segno della grandezza umana di Piccinini fu il fatto che, invece di lasciarmi perdere, successivamente mi cercò proprio a causa della mia ostilità”. Di fronte allo stesso pregiudizio, Enzo si è appassionato a lui, si è commosso per lui perché lo vedeva lontano. Per amore di lui, per fargli superare un pregiudizio che lo teneva lontano da una verità, ha cercato di avvicinarlo, è tornato a cercarlo proprio perché era stato rifiutato. Allora ho preso il libro, l’ho messo in una busta e l’ho spedito. Mi è tornata una mail in cui c’erano queste parole:
“Quello che mi regala il tuo Enzo lo impasto con il mare di dati che assorbo dal reale, in un’unica direzione, la spasmodica ricerca di Dio”. Gratitudine anche da chi era lontano. Cosi ho capito che questo libro è per noi, ma soprattutto è per tutti, anche per chi ha un pregiudizio, anche perché la semplice, potente, incontestabile trasparenza della testimonianza di vita di Enzo, dell’unità della sua vita in Cristo, può aiutare tutti a capire che cosa è il cuore del Movimento, che cosa è la nostra esperienza. E allora mi sono fatto questa domanda, e arrivo all’ultimo pensiero, per la conclusione. Perché tanta gratitudine? E mi sono dato questa risposta: la gratitudine è ciò che sboccia di fronte alla gratuità, di fronte a uno che è lì per te, per aiutarti a camminare verso l’ideale. E anche qui mi sono tornate alla mente le parole del Vangelo: “Nessuno ama tanto gli amici come chi dà la vita per gli amici”. Enzo. Con semplicità e commozione ho pensato questo. Ha fatto cosi, fino in fondo, aperto all’eterno, come ci dice quella frase che scrive Caffarra, ricordando quegli ultimi incontri che avevano vissuto insieme a Ferrara. Enzo, concretamente, fisicamente, ha amato il nostro destino più di quanto non abbia amato la nostra vita. Già qui si è accostato ed unito alla perfezione di Dio che lo ha accolto. Da qui, il titolo del libro, “un’avventura di amicizia”, perché questo libro ci dice con semplicità che cosa è l’amicizia. L’ultima cosa che volevo dire, portando anche un breve ricordo personale, parte da quel brano che prima ha letto Savorana: “Sono un ateo diventato cristiano per caso, cioè attraverso un incontro”. Parte dal ricordo di quella rabbia che era fiorita dentro ad Enzo, che era uno che non accettava i compromessi rispetto ad un modo formale di vivere l’esperienza cristiana. Ma era una rabbia tutta piena dell’attesa di Dio. E proprio in quegli anni, intorno al 1968, si era avvicinato a questo gruppo dell’estrema sinistra, che era fiorito a Reggio Emilia, dove facevano questi grandi incontri su Marx, il grande tema di quegli anni. E c’erano anche tre amici che facevano parte di un movimento cristiano, vicino ed ispirato all’esperienza di GS di don Giussani a Milano. Questo gruppo si chiamava “One Way” e questi tre amici partecipavano anche loro. Proprio guardandoli, Enzo comincia ad intravedere che tra di loro c’era un tipo di amicizia che gli piaceva, gli corrispondeva, lo colpiva. E cosi ha cominciato a seguirli. E uno di quei tre amici ero io. E’ da lì che ci siamo conosciuti. Le prime volte che veniva alle recite dei salmi, lo tenevamo fuori perché eravamo preoccupati. Se ne erano accorti anche gli altri che lui veniva, e l’hanno messo di fronte ad un aut aut: o noi o loro. Perché loro hanno un difetto, gli dissero, mettono Cristo dentro a tutte le cose, e questo non va bene. E lì Enzo ha fatto la scelta che gli corrispondeva. Come lui racconta: “Per la prima volta, la parola Gesù Cristo non corrispondeva più per me ad una legge morale o a delle cose da fare, ma a un gruppo di amici che mi piaceva. Di fatto, anche senza saperlo, avevo già operato una scelta”. E poi ci sono due episodi, a conclusione, proprio per raccontare l’incontro e l’amicizia con don Giussani, perché di tutta la vita di Enzo e di tutto quello che ne è nato non possiamo capire nulla se non questa paternità che don Giussani ha vissuto nei suoi confronti. Nel primo incontro, in cui Enzo veniva colpito dal modo con cui si era sentito guardare da Giussani, che lo prese a cuore, “la vita è diventata l’intensità di una sequela, tutta desiderosa di capire, di imitare, di essere simile al grande amico fino ai gesti”. E così la vita di Enzo si è dilatata in modo straordinario. Il secondo episodio è quando Enzo viene nominato visitor, perché questo dice di tutto il rapporto padre/figlio tra don Giussani ed Enzo. Enzo tocca con mano come la responsabilità fosse il contrario del ruolo, ma il luogo in cui emerge un’umanità rinnovata dal rapporto con il Signore. Seguendo quello che aveva visto, una paternità presente, anche Enzo è diventato padre e, come ha scritto Giancarlo Cesana nell’introduzione, “siamo pieni di suoi figli”. Questo incontro di oggi è pieno di suoi figli, di quelli che, attraverso di lui, hanno incontrato la vita, ovvero l’affermazione positiva di un significato positivo per tutto ciò che esiste. Così non è finita affatto, la presenza di Enzo, senza la quale capiremmo molto meno di quello che siamo. La presenza è infatti una comunicazione dell’essere, della sua eternità. Enzo amava ed era riamato molto da don Giussani, ma c’era soprattutto la passione per la scoperta di Cristo, del volto umano di Dio, di Colui che ricostituisce anche la fragilità della carne. E cosi, dieci anni dopo la sua morte, Enzo riverbera su di noi la sua vita in Dio e la pienezza di quello che con noi aveva incominciato a vivere. Questo riverbero avviene attraverso opere di educazione, carità e ricerca, grazie, conversioni: basta citare il lavoro della Fondazione, la Carovana, ecc. Enzo continua a sfidarci, ci sfida come faceva sempre, perché ognuno di noi capisca che quello che aveva trovato posto in lui chiede di diventare vero dentro di noi. E così penso sempre ad una citazione di don Giussani, che Enzo diceva sempre: “Ogni mattina ci alziamo per aiutare Cristo a salvare il mondo con la forza che abbiamo, con la luce di cui disponiamo, chiedendo al Signore di darci più luce e più forza”. Grazie.

ALBERTO SAVORANA:
Ultima domanda al Senatore Barbolini: emerge come uno dei tratti di Enzo sia una passione per la parola giustizia, tanto che Vittadini dice nel libro che questo era l’aspetto più rilevante in Enzo, una passione per la giustizia come giustizia di Dio. Desiderava cioè che le cose fossero come devono essere, e questo desiderio diventava amore alla persona inteso come la realizzazione di tale giustizia. Che cosa suscita in lei, senatore Barbolini, questo aspetto che emerge potente nella vita di Enzo Piccinini, questa passione per la giustizia e per il bene della vita dell’uomo?

GIULIANO BARBOLINI:
Direi che questo è un terreno fecondo per un incontro di storie e di culture, di sensibilità che possono lavorare a progetti rivolti al bene comune e alla promozione umana.

ALBERTO SAVORANA:
“Enzo fu un uomo che, dall’intuizione avuta in dialogo con me 30 anni fa, disse il suo "sì" a Cristo con una stupefacente dedizione, intelligente e integrale come prospettiva, e rese la sua vita tutta tesa a Cristo e alla sua Chiesa. La cosa più impressionante per me è che la sua adesione a Cristo fu così totalizzante che non c’era più giorno che non cercasse in ogni modo la gloria umana di Cristo”. Questa è la sfida contenuta nelle parole che don Giussani dettò di getto nel giorno della morte di Enzo, e che illumina di una luce misteriosa e reale la vita di un uomo la cui morte, che solitamente coincide con la fine di qualcosa, è stata come l’albore di una cosa nuova, l’inizio di una resurrezione per il rendersi conto che lì, dentro l’umanità, agisce il divino. A dieci anni, è un flusso di vita che ingigantisce come strada e possibilità per tutti. Che abbiamo ad ereditare la sua stessa fede. Questa semplicità genera una personalità travolgente, cosi presente nel reale ed appassionata a tutto e a tutti, che noi siamo ancora colpiti dalla sua passione travolgente. Grazie a tutti.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

24 Agosto 2009

Ora

15:00

Edizione

2009

Luogo

Sala Neri
Categoria
Incontri