CAMBIANO LE STORIE. Ti racconto chi sono: alla scoperta di cosa succede intorno a noi

CAMBIANO LE STORIE. Ti racconto chi sono: alla scoperta di cosa succede intorno a noi

CAMBIANO LE STORIE. Ti racconto chi sono: alla scoperta di cosa succede intorno a noi

Partecipano: Claudio Burgio, Presidente Associazione Kayros e Cappellano del Carcere Minorile “Beccaria” di Milano; Libasse Fall; Maria Mansi, Direttrice di Casa Sant’Anna di Rimini; Daniel Zaccaro. Introduce Monica Poletto, Presidente Cdo Opere Sociali.

 

Ore: 17.00 Arena Cdo for Innovation A5/C5
CAMBIANO LE STORIE. Ti racconto chi sono: alla scoperta di cosa succede intorno a noi

Partecipano: Claudio Burgio, Presidente Associazione Kayros e Cappellano del Carcere Minorile “Beccaria” di Milano; Maria Mansi, Direttrice di Casa Sant’Anna di Rimini. Introduce Monica Poletto, Presidente Cdo Opere Sociali.

GIGI GIANOLA
É il primo incontro di questa settimana: abbiamo pensato a questa serie di incontri per tanti mesi per cui avevamo voglia di incontrarvi. Finalmente siete qua. Perdonateci se vi usiamo come cavie della parte tecnica, però visto che siete in tanti sarà un test molto probante. Ricordo a chi non riesce a vedere in diretta, che lo schermo qua dietro riporterà esattamente quello che vedono i vostri amici qui davanti. Quindi, senza uscire con il torcicollo, riuscite a vedere anche da qui dietro. Lascio subito spazio ad un momento un po’ particolare, perché l’incontro di oggi non inizia subito: ci sarà una piccola sorpresa che abbiamo preparato per voi, una performance culturale-scientifica su cui non aggiungo altro. L’abbiamo preparata in questi mesi seguendo il filo della storia, abbiamo raccolto la storia di tanti innovatori, tanti episodi, tanti momenti in cui siamo riusciti a cogliere cosa spinge il cuore dell’uomo ad innovare. All’interno di questa ricerca, nei mesi scorsi abbiamo incontrato una storia un po’ particolare, la storia della costruzione di un ponte. Visto quello che è successo a Genova qualche giorno fa, abbiamo pensato di aprire con voi una riflessione su cosa spinge l’uomo a continuare a costruire, anche oltre la ragione.
Quindi, vogliamo usare questa occasione per ricordare anche le vittime di Genova e per aprire insieme a voi una riflessione su che cosa guida l’innovazione oggi. Vi lascio.

MONICA POLETTO
Buonasera a tutti, mi dispiace che siate un po’ scomodi ma effettivamente non ci aspettavamo così tanta gente, siamo contenti che ci siate. Questo è il primo degli incontri che viene organizzato qui nell’Area Cdo for Innovation. Abbiamo appena sentito che l’innovazione implica innanzitutto uno sguardo appassionato alla realtà e una conoscenza della realtà. Soprattutto nell’ambito degli incontri organizzati da Cdo Opere sociali, ci siamo resi conto che quando si parla di innovazione e sociale si deve partire dal conoscere e dall’amare quello che c’è, mentre spessissimo noi non conosciamo, e quindi non amiamo, innanzitutto le persone che incontriamo e che ormai popolano le nostre società e le nostre città. Io sono sempre molto colpita quando ho la fortuna ineguagliabile di incontrare, andando a cena o frequentando le nostre opere, le persone che sono accolte. Faccio sempre delle scoperte, innanzitutto di squarci di umanità che mi fanno sentire profondamente consanguinea con loro. Per questo abbiamo deciso che questi nostri incontri avranno come tema innanzitutto che cosa c’è e che cosa cambia nella realtà, chi sono le persone nuove che la popolano. Questa sera ne parleremo con Maria, che è al suo primo intervento pubblico della vita (per cui fatele un applauso) e che è direttrice di Casa Sant’Anna, una comunità mamma-bambino, e fa parte anche di una rete di amicizie, di case di accoglienza che stanno cercando di fare un percorso insieme, innanzitutto per capire che cosa sta cambiando. Veramente sono interessanti, quando le sento raccontare, le storie di queste donne che arrivano scappando da percorsi di violenza e di emarginazione molto importanti e che arrivano a trovare rifugio dentro queste case. Ho chiesto di raccontare chi sono queste donne e soprattutto che cosa le fa ripartire, perché, e come si può ripartire da certe situazioni, da certe storie vissute. Ascoltare è per noi affascinante e interessante. Chiedo questo soprattutto a Maria. Poi lascio un po’ di suspense sulla sinistra, perché don Claudio lo conoscete. Dopo avremo un altro pezzo di questa storia. Partiamo con Maria.

MARIA MANSI
Buon pomeriggio a tutti. Ringrazio Monica Poletto e Bernard Scholz per l’invito. Come diceva Monica, lavoro alla Casa di Sant’Anna da circa tre anni. Sin dall’inizio della mia avventura, è stato fondamentale per me, per portare la responsabilità affidatami, incontrare altre opere di accoglienza, altre persona, compreso don Claudio, che mi hanno testimoniato la bellezza e la convenienza del lavoro dell’accoglienza. Da questa compagnia, in particolare, come accennava prima Monica, è nato da circa un anno e mezzo il Tavolo mamma-bambino, costituito da alcune opere che si occupano dell’accoglienza dei nuclei mamma-bambino, per fronteggiare la crescente complessità e multi-problematicità che caratterizza le situazioni che accogliamo. Complessità e multi-problematicità che mi sembrano essere legate al cambiamento d’epoca che viviamo, caratterizzato dalla crisi della famiglia, dalla conseguente crisi d’identità della nostra società e dal dilagante individualismo. Abbiamo iniziato ad incontrarci per fare rete, per allargare lo sguardo e affrontare le sfide della realtà, per non perdere di vista lo scopo e il senso del nostro fare, per richiamarci all’origine del valore dell’accoglienza perché nella routine della quotidianità si rischia di perderlo di vista. Nelle nostre case, le mamme con i loro figli arrivano su richiesta dei servizi sociali e su mandato dei tribunali per i minorenni. Tendenzialmente, le mamme non scelgono, non decidono di venire in comunità, è l’assistente sociale che può proporre di trascorrere un periodo definito in comunità oppure (sempre più frequente) è l’autorità giudiziaria che con un decreto dispone il collocamento in comunità. Dico tendenzialmente perché, ad esempio, nei casi di violenza le donne possono decidere di rivolgersi al Centro Antiviolenza e poi, attraverso i servizi sociali, arrivare in comunità. Mentre in passato le accoglienze riguardavano soprattutto situazioni personali di disagio, legate a maternità difficili o indesiderate, marginalità o esclusione sociale, difficoltà relativa all’emigrazione, oggi accogliamo gestanti anche minorenni e nuclei monoparentali con figli minori che provengono da gravi situazioni di violenza, maltrattamento e abuso, alta conflittualità e forte disagio psico-sociale. Le mamme provengono da storie familiari caratterizzate da forte deprivazione. Tante di loro sono state a loro volta in comunità con la madre o accolte in comunità per minori o hanno vissuto l’esperienza dell’affido e talvolta anche dell’adozione, sono prive di una rete amicale o parentale che possa supportarle, non perché non ci sia ma perché non costituisce una risorsa, bensì un fardello ulteriore. Tante sono madri con figli rispetto ai quali grava il sospetto di abusi intra-familiari, altre ancora sono madri affette da disagio psichiatrico. Nelle nostre case, c’è anche una alta percentuale di donne extracomunitarie che solitamente non sono appena arrivate in Italia, in situazioni di emergenza, ma magari sono giunte in Italia quando erano piccole, con la madre, con la zia, per lavorare. Spesso hanno molti figli, sono donne che possono anche essere state vittime di violenza o presentare situazioni di rischio educativo per i figli, non appena perché irregolari sul nostro territorio ma, ad esempio, perché prive di una rete di sostegno. Altre ancora sono madri anche molto giovani che hanno avuto problemi di dipendenza da alcool o da sostanze stupefacenti: presentano ancora una fragilità e necessitano di un sostegno alla genitorialità ma anche di una vigilanza rispetto alla relazione mamma-bambino, per garantire la tutela dei loro figli. Tante e profonde sono le ferite di queste donne. Il rapporto con la realtà è come perturbato. Le nostre mamme tendono a mettersi sulla difensiva perché è così che si fa quando si viene feriti. Perciò, soprattutto all’inizio del loro percorso con noi, appaiono in grande difficoltà rispetto al dialogo e al confronto con gli operatori e con le altre madri accolte. Dialogo e confronto che sono elementi indispensabili per vivere in una realtà comunitaria. Fondamentale allora diventa riuscire a costruire con loro una relazione di fiducia che innanzitutto richiede a noi operatori di metterci in gioco, di imparare a voler bene. Don Claudio direbbe «di impastarci con loro», di rapportarci all’altro liberandoci dalla preoccupazione e dalla pretesa di poterlo cambiare e di poter risolvere i suoi problemi. Diviene indispensabile per noi operatori imparare a guardare le persone che accogliamo non solo per i loro problemi e per come immediatamente appaiono, ma a partire dal loro bisogno di felicità, che poi è lo stesso che abbiamo noi, pur avendo una diversa storia di vita. In questo tempo ho scoperto, infatti, che quello che permette alle mamme di guardare le ferite, il dolore, gli errori, quello che permette di stare di fronte alla realtà, di ripartire, come chiedeva Monica, è innanzitutto il rapporto con l’altro, il non essere da sole ad affrontare le sfide della realtà. Lo testimoniava in particolare una mamma raccontando che, nel rapporto prima con la sua assistente sociale e poi con noi della casa, ha scoperto che, cito le sue parole, «solo grazie agli altri e con altri io posso sperare di ricominciare la mia vita. Adesso mi guardo allo specchio e mi emoziono per la mia esistenza». Una giovane madre che è stata maltrattata, al termine del suo percorso in una delle nostre case, grazie al bene sperimentato nei rapporti con le persone incontrate, si è definita “preferita”. Quel bene incontrato le ha permesso di decidere di rinascere, di prendere sul serio la sua vita, quel bene oggi la fa sentire amata, non è più definita dal male e dalla violenza subita. Comunque è impressionante vedere come, anche solo dopo pochi mesi, le mamme che decidono di mettersi in gioco fioriscono, iniziano a guardarsi, a prendersi cura della loro persona, a scoprire i propri talenti e anche a guardare pian piano sempre più i loro figli. Sì, perché tante donne, quando arrivano in comunità, soprattutto le donne vittime di violenza da parte dei mariti e dei compagni, sono talmente devastate da non riuscire ad occuparsi di sé e dei propri figli. Vediamo così accadere quanto diceva s. Agostino: «Fu guardato e allora vide». Ma se non fosse stato guardato non avrebbe visto. La persona, infatti, mi sembra di poter dire, è capace di vivere all’altezza di se stessa solo se incontra un abbraccio reale alla sua vita. Ricordo un’altra mamma molto giovane. Dopo pochi mesi, molto travagliati, trascorsi con noi scriveva: «Il mio ingresso in comunità è stato una risposta alle continue grida che emettevo pregando che qualcuno le sentisse; e così è stato. Una risposta arrivata da un decreto emesso dal tribunale ma dettato da Dio. Ero sfinita, mio figlio era privo di ritmi e stabilità fondamentali per la sua crescita. É stato un vero e proprio lavoro. Ci sono stati momenti di gioia e di sconforto. Ora posso dire di avere finalmente ritrovato la strada che avevo perso anni fa, ristabilendo dei ritmi e assumendomi le mie responsabilità, posso dire di aver finalmente ritrovato me stessa e di aver capito che valgo. Le difficoltà e i problemi non sono scomparsi del tutto e sono consapevole che sempre ci saranno, anche se cambieranno le situazioni e le persone, ma ora so che posso affrontarli perché non sono più da sola». La compagnia umana che si vive nelle nostre case è un punto che mobilita le energie della persona che ritrova le forze per affrontare e per decidere: ad esempio, per tagliare i rapporti malati, quelli con mariti e compagni violenti. Si tratta di un lavoro lungo, oserei dire certosino, caratterizzato anche e soprattutto dalla condivisione della semplice quotidianità. Le nostre opere cercano di favorire il più possibile la crescita di una compagnia umana che non è appena quella degli educatori, fondamentale anche quella, ma anche di tanti volontari che si coinvolgono nella quotidianità, tessendo relazioni significative con le mamme che accogliamo. Tutte le mamme hanno bisogno di essere supportate, anzitutto per scoprire o riscoprire se stesse e le proprie capacità, per imparare a rapportarsi con i loro figli, necessitano anche di supporto rispetto al rapporto con i padri dei loro figli, padri che spesso possono incontrare i figli solo alla presenza di un educatore, ma necessitano di supporto anche nello sviluppo di pratiche burocratiche legate, ad esempio, alla regolarizzazione sul nostro territorio, se si tratta di donne straniere, soprattutto per terminare il percorso scolastico, nel caso di madri molto giovani, e nella ricerca e mantenimento di un lavoro. Il nostro lavoro educativo, infatti, riguarda l’aspetto relazionale e contestualmente il raggiungimento di una autonomia per le madri stesse e per i loro figli. La maggiore complessità della realtà richiede un abbraccio più grande e le nostre opere, anche quelle più strutturate, da sole non possono farcela. É necessario attivare sinergie tra servizi pubblici, terzo settore e mondo dell’impresa. Non bastiamo noi con le nostre opere per rispondere ai loro bisogni e neanche i servizi sociali che ci inviano i nuclei: è necessario l’intervento delle istituzioni con cui fare rete, ad esempio, perché le donne possano rinnovare i documenti, riuscire a fare uno stage, trovare un lavoro. Tante volte, infatti, incontrano ostacoli burocratici che rendono più pesante la fatica del vivere. Tante di loro, ad esempio, hanno anche la preoccupazione dei figli rimasti nei Paesi di origine e questo costituisce una pesantezza esistenziale gravissima. L’accoglienza, quindi, riguarda l’esigenza della persona intera, l’aspetto relazionale, genitoriale e, appunto, anche quello dell’autonomia. Un passo imprescindibile per il raggiungimento dell’autonomia è la ricerca e il mantenimento di un lavoro che più di ogni altra cosa mobilita l’io di una persona e la rende protagonista della sua vita, perché il lavoro dà stabilita, identità e dignità. É interessante come intorno ad alcune opere, a partire proprio dai desideri e dalle attese di chi accogliamo (il desiderio di essere genitore, di essere adulto, di essere protagonista della propria vita), si siano attivati dei punti satelliti dell’opera stessa. Alcune delle nostre opere più grandi, organizzate e consolidate, hanno realizzato infatti progetti specifici per rispondere a questa esigenza, per sviluppare in un contesto relazionale e positivo risorse e capacità personali inespresse, rafforzando l’identità e l’autostima per offrire opportunità formative e di inserimento lavorativo. Penso, ad esempio, a Casa Novella di Castel Bolognese, che ha realizzato il progetto “Pasta della casa”, un laboratorio che produce pasta fresca. Alla fondazione “Famiglia materna” di Rovereto, che ha realizzato il progetto “Le formichine” che prevede laboratori in cui si svolgono diverse attività (lavanderia, stireria, cucina, bar, ristorante). Una mamma ci ricordava che essere disoccupata non è solo un problema economico, diceva: «Mi toglie la fiducia nel futuro e la stima di me stessa, soprattutto perché sono ridotta a vivere di assistenza». É incredibile il desiderio di essere protagonisti della propria vita. Per concludere, desidero comunicarvi quello che ho scoperto nella mia esperienza professionale. Come diceva Novella Scardovi, fondatrice di Casa Novella: «Il dialogo e il paragone continuo con l’altro, sperimentato in questo tempo, rendono tutto occasione per un bene. Ciò che una persona vive, se condiviso, acquista infatti una dimensione di ricchezza perché l’altro, attraverso i suoi doni e le sue capacità, ma anche i suoi limiti, possa correggere, valorizzare, allargare l’orizzonte di ciò che ha tra le mani». La sfida più grande per tutti mi sembra lavorare per scoprire quello che sta dentro la persona, ogni persona, una grandezza che è più grande di ciò che immediatamente appare. Sono immensamente grata di avere incontrato questa compagnia che è appunto la Compagnia delle Opere, che non mi molla, che continua a sostenermi nel mio lavoro anche in modo molto concreto. Penso ad esempio ai corsi di formazione che organizza e alla disponibilità di tanti responsabili di opere, di sostenere, accompagnare opere più piccole, come ad esempio Casa sant’Anna. Ma penso anche a quello che accade all’estero, perché è bello, vero e grande vedere adulti che prendono sul serio le domande e le difficoltà di giovani come me, impegnati nel sociale, vedere adulti mossi da una sconfinata passione per l’umano. Di fronte alle situazioni difficili che incontro, a volte mi sento impotente. Questa compagnia è un grande aiuto a stare di fronte alle sfide quotidiane del mio lavoro per poter passare dal senso di impotenza alla possibilità di stare di fronte alle situazioni e affrontarle. È questo che mi rilancia sempre nell’affascinante e difficilissimo lavoro dell’accoglienza. Grazie.

MONICA POLETTO
Grazie, Maria. Passo subito la parola alla mia sinistra, anche se ci sarebbero tante cose da dire. Magari facciamo una carrellata alla fine. Tanti di voi conoscono don Claudio, cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano e presidente dell’associazione Kairos, una comunità di accoglienza di minori di varia provenienza, che arrivano da situazioni penali oppure sono minori non accompagnati o anche minori segnalati dai servizi sociali. Insieme a don Claudio, abbiamo due amici grandi che sono Libas e Daniel, che vivono nella comunità di don Claudio e ci aiuteranno a capire questo secondo pezzo dell’incontro. C’è tutto un fan club qui davanti! Ho chiesto a don Claudio di raccontarci le loro storie. Infatti, mi ha sempre molto colpito, quando vado da loro, sentire i racconti dei ragazzi e accorgermi che veramente non li conosciamo, accorgermi di quante storie incredibili ci sono dietro ognuno di questi ragazzi che lui accoglie. Questa sera allora gli ho chiesto di raccontarci e di far raccontare chi sono i ragazzi che arrivano in Italia, che cosa cercano, quali desideri hanno. E anche chi sono i ragazzi che lui incontra in carcere e per strada perché anche loro, in qualche modo, scappano da qualcosa.

CLAUDIO BURGIO
Ciao a tutti. Sarà un intervento a più voci. Monica ha già presentato Libas, che arriva dal Senegal e da cinque anni vive con noi. È emozionato perché è la sua prima volta, ma ho visto che hai già un po’ di fans, quindi ti conoscono. È reduce dal diploma di maturità, è andato alla grande con una tesina sull’integrazione, quindi dopo vogliamo ascoltare. E poi Daniel, che è già conosciuto, anche lui con i suoi fans: sarà un intervento a più voci perché in maniera molto semplice vi raccontiamo cosa vuol dire l’innovazione, per noi in Kairos, nel vivere insieme in comunità. È una sfida, una necessità. Libas diceva all’inizio che queste sedie sono molto innovative: giustamente perché ogni sfida deve essere sempre una sfida per restare in equilibrio, c’è poco da fare. E allora cominciamo con il dire questo: 18 anni fa, quando io e Giusy, che è qui, abbiamo deciso di aprire questa comunità di accoglienza, eravamo due folli. Lei più di me: forse non sapete che lavorava alla Segreteria della Presidenza della Regione Lombardia e si è licenziata quando semplicemente ha intuito la sfida. Voleva rinnovare la propria vita che evidentemente era ancora insoddisfatta, nonostante un posto di lavoro interessante, quanto meno ben retribuito. Quindi, la sfida è stata davvero inseguire un sogno, una passione educativa che in qualche modo ci ha preceduto perché non eravamo assolutamente in grado, all’epoca, di capire a cosa saremmo andati incontro. Dico sempre che l’innovazione è rinnovare la propria vita osando tanto, rischiando in prima persona, perché non sai mai cosa ti aspetta. Ogni innovazione è sempre un inedito, qualcosa che devi affrontare, ogni incontro umano è un inedito. E allora può essere all’insegna dell’incontro, perché non è detto che ogni incontro sia per forza di cose riuscito, però ogni incontro lascia una traccia, ogni incontro ci ha innanzitutto innovato, rinnovato, noi come educatori e noi come fondatori di questa comunità. E allora, la prima cosa che volevo raccontarvi è proprio questa: da dove arrivano questi ragazzi. Sentiremo Libas. Direi che sono tre i motivi che ho intuito esserci dietro le partenze, dietro questi viaggi a volte rischiosissimi. Il primo, quello che tutti conoscono, è un motivo più economico: migliorare le condizioni di vita della propria famiglia, arrivare in Italia, lavorare e spedire i soldi a casa. Molti di questi ragazzi arrivano con un debito da estinguere. Un viaggio clandestino dal Marocco, per esempio, si aggira attorno ai 7 mila, 8 mila euro, dal Senegal un po’ meno, mi pare. Però ogni viaggio comporta un rischio. Molti ragazzi che ho incontrato in comunità, che arrivano soprattutto dal Marocco o dall’Egitto, sono ragazzi, maschi, sui quali le famiglie hanno investito soldi, che vengono in Italia a trovare lavoro. Si presentano e dicono che hanno 16 anni. Tu li guardi in faccia e dici: «Siamo sicuri?». Avranno dodici, tredici anni. Però loro sono già informati, addestrati, sanno già che dai 16 anni puoi lavorare e arrivano per questo motivo, a volte di sussistenza, a volte proprio economico. Un secondo motivo, invece, è generato, come sappiamo, dalle realtà legate alle guerre, alle persecuzioni che ci sono nel mondo. Anche noi abbiamo accolto in comunità ragazzi dalla Siria, dall’Iraq: sono storie sofferte, che ci hanno davvero insegnato molto. E poi ci sono, e questo non lo sanno tutti, ragazzi che non scappano ma cercano una vita diversa: li chiamerei motivi esistenziali. Non riescono a trovare nel proprio ambito, nella propria famiglia, quel sogno, quella voglia di innovarsi, di trovare un orizzonte diverso, un respiro nuovo. Molti dei ragazzi che noi accogliamo arrivano proprio per questo tipo di ragione: vogliono studiare, non semplicemente lavorare, vogliono avere un futuro diverso. Quindi, non è che scappano, sono dei cercatori, sono ragazzi che non si accontentano, che non si lasciano soddisfare solo dai bisogni materiali. È il caso di Libas, e infatti la prima domanda la farei proprio al lui. Ci descrivi come sei arrivato in Italia, che cosa ti ha mosso, quali desideri, e anche come fisicamente ci hai raggiunto e come è stato il tuo ingresso nella nostra comunità?

LIBAS
Ciao a tutti, io sono Libas, ho 22 anni, vengo dal Senegal. Ho deciso di venire in Italia perché sognavo qualcosa di grande che il Senegal non poteva darmi, perché in Senegal non c’è guerra ma solo con il lavoro nello Stato riesci ad avere qualcosa di meglio. Siccome sono stato sempre ammalato per il calcio, ho mollato lo studio e mi sono buttato nel calcio. Saltavo la scuola senza che i miei genitori sapessero niente, poi un amico mi ha convinto a partire per l’Italia. Io non avevo niente, però stavo bene in Senegal: avevo una famiglia, una sorella che è avvocato. Ma volevo qualcosa che mi appartenesse. Così decisi di fare questo viaggio che ho pagato tanto. Ho viaggiato dal Senegal alla Mauritania in autobus, perché in quel periodo in Senegal era vietato imbarcarsi. Un viaggio di sette ore per la Mauritania, poi abbiamo preso la nave per la Spagna. Abbiamo fatto un viaggio di circa tredici giorni, ci siamo anche persi, c’è gente che non è arrivata, che è sparita. Siamo arrivati in Spagna ma il mio sogno era l’Italia: in Senegal sentivo che gli Italiani erano generosi, accoglienti e questa cosa mi ha spinto verso l’Italia. Così, arrivato in Spagna, io e altri quattro amici siamo scappati, perché allora ci mettevano nei campi dove ti accolgono per fare l’identificazione e dopo ti mandano indietro. Io sono scappato e sono arrivato a Milano con il treno, in Centrale, ho dormito tre giorni in stazione. Poi succede che i miei amici spariscono senza dire niente. Prima due di loro, poi tre: sono rimasto da solo e per fortuna ho incontrato questo ragazzo camerunense che parla francese e mi ha dato le indicazioni per andare in questura a Turati. È stato il 12 luglio del 2013: in questura hanno fatto gli accertamenti e da lì è iniziata la mia storia con don Claudio, la Giusy e Daniel.

CLAUDIO BURGIO
Questo è stato l’inizio dell’avventura. Uno potrebbe dire: «Ma bene! Visto che l’Italia è accogliente, allora prendiamoli tutti!». Ormai i luoghi comuni li conosciamo bene. Io penso che un ragazzo minorenne abbia il diritto a sognare, poi c’è la realtà, come sempre ci diciamo in comunità. La realtà ci precede, la realtà ci anticipa, la realtà è la migliore maestra di vita, se la sai guardare, se la accetti. E allora, ecco che Libas ha capito che, anche se come calciatore è molto forte, e adesso poi ha imparato anche a rubare bene come la Juve, non era possibile che questo fosse il suo cammino. Da qui, il desiderio di tornare a scuola e realizzare questo sogno.

LIBAS
Una volta arrivato in Italia, il primo anno il don ha portato me e Daniel al Milan, per una sorta di provino, dove poi non ci hanno preso, neanche cagato. Da lì sono andato in una squadra di prima categoria: quando sfortunatamente mi sono infortunato, ho capito che nel calcio «non c’è trippa per gatti», così mi sono buttato nello studio, cioè mi sono dato da fare. In quattro anni sono riuscito a prendere la maturità, con tanta fatica ma ce l’ho fatta.

CLAUDIO BURGIO
Ecco, questa è la storia di Libas. Una prima considerazione: quando noi incontriamo Libas, come tanti altri ragazzi stranieri, la prima cosa che risulta evidente è che siamo diversi. Non ce n’è, siamo radicalmente diversi: a parte quando vediamo le partite in tv, un disastro! Insieme, veramente, c’è da litigare sempre! Lui tiene il Bayern di Monaco e lì non si sa perché, avrà figli in Germania! Ma io tengo la Juve e quindi è un disastro, litighiamo sempre. Le vere differenze si sono viste subito. Quando incontriamo questi ragazzi, sono differenze evidenti, differenze che ti portano a dire che l’ospite (noi li chiamiamo “ospiti” in comunità, la parola deriva da hospes, che però ha la stessa radice di hostis) può essere anche potenzialmente un nemico. E guardate che questa è una cosa che dobbiamo sapere, non ingenuamente. Quando io e Giuse, ingenuamente, abbiamo accolto i primi ragazzi, abbiamo fatto quel che potevamo. Poi ci siamo resi conto che avevamo in casa anche dei nemici, potenzialmente. Nemici nel senso di diversi da noi, lontani dalla nostra cultura. Allora abbiamo iniziato un tentativo maldestro di assimilazione: tu sei venuto qui in comunità, adesso ti assimili a noi, siamo noi che ti diciamo come devi fare, se vuoi stare in Italia. Ecco, un errore esagerato! L’assimilazione è qualcosa che ci ha prodotto dei disastri assoluti. Un ragazzo è veramente e radicalmente diverso. Ce n’è uno, ad esempio, un piccolo ragazzo rom, all’epoca di dodici anni, che ci ha consegnato il suo vero nome quattro anni dopo. Allora io dico che l’ospite, il ragazzo straniero è quello che devi accogliere senza nemmeno conoscere il suo nome, è qualcuno che, in qualche modo, tu accogli perché è un dono che ti viene offerto ma che è ancora da conoscere, un dono al quale non ti puoi abituare o consegnare ingenuamente. Allora, questo è un tratto importante: mi ricordo questo ragazzino rom che andò in una famiglia bravissima della parrocchia. Ce lo accoglievano il sabato e la domenica. Dopo tre settimane, il papà di questa famiglia ci interpella: «Don Claudio, io te lo tengo volentieri, però, cavolo, ci chiede quanto costano i quadri in casa!». E io: «Eh, la miseria, è un problema. Come facciamo adesso?». Vado dal ragazzino e gli chiedo: «Senti, ma perché fai ‘sta domanda?». «Voglio vedere se si fidano di me». Dico: «Caspita, è una bella cosa. Cambia però stile…». Questa famiglia l’ha tenuto, ha retto la sfida. Ma il rischio è inevitabile quando incontri il diverso da te. La paura, il sospetto, sono cose che devi guardare in faccia, devi sapere che ci sono e non siamo santi e andiamo oltre alla realtà. La realtà ci rimanda quello che è un dato di partenza oggettivo: siamo diversi. E quindi abbiamo paura. Dopo che ci sono capitati certi fatti in comunità (e ci torneremo su questa cosa), con due ragazzi che sono partiti per l’Isis, è chiaro che, dopo la partenza di questi due ragazzi, guardavo con un po’ di sospetto tutti i ragazzi musulmani della mia comunità: mi potrò fidare di loro? Ecco, questo è per dire che l’accoglienza non va fatta mai in maniera ingenua, l’accoglienza è una responsabilità verso un altro che è diverso da te, un altro che ti mette anche paura e ti contraddice. Però è anche bello, allora, far nascere un atteggiamento di ascolto e di vita comune. Tu non puoi sapere a priori chi hai di fronte, ci puoi solo vivere insieme. Come dicevi tu prima, ci si può solo immergere nel diverso da te, nell’altro. E allora, ecco che chiedo a Daniel, adesso, cosa ha voluto dire per te immergersi nella vita di Libas, quando l’hai conosciuto, tu che venivi da un altro mondo, totalmente altro? Immaginate Quarto Oggiaro, un quartiere difficile di Milano, i poster, le rapine in banca, tutte queste cose. Ti arriva lui, tutto nero, e gli dici: «Quanti anni hai?». E lui: «15, 16». Figuriamoci! Lo interpello sui giocatori degli anni Ottanta, li sa tutti! Comunque, Daniel, com’è stato incontrare Libas e che spunti ti ha dato, che fatiche hai fatto, anche?

DANIEL
Incontrare Libas è stato semplice perché incontro tanti stranieri in comunità. Però devo dire che io ovviamente ho un debole per Libas, lo porto proprio come esempio per tutti gli stranieri ma anche per i musulmani, perché lui è uno bello credente, quindi è interessante fare dei discorsi con lui. È stato difficile e anche un po’ pauroso. Mi ricordo una delle prime volte che ci siamo visti, che abbiamo abitato insieme: entro in cucina e vedo lui insieme al suo compaesano, un senegalese, che lavavano i piatti con lo sgrassatore e mangiavamo con lo sgrassatore. Lui si lavava la faccia con la candeggina. Però sono piccole cose. Anche se sembro straniero, io sono italiano e prima avevo sempre un po’ di paura, tenevo a distanza gli stranieri. Ero quello che dice: «Io sto al mio paese, qua gli italiani, gli stranieri a casa loro». Tutti quei discorsi che adesso si sentono anche troppo. La mia esperienza e la mia storia mi hanno portato ad avere queste difficoltà ma ho capito che in realtà tutte queste paure che abbiamo sono come avere paura di se stessi. Nel momento in cui hai paura dell’altro, secondo me, in realtà hai il terrore di te stesso, hai paura di metterti in gioco perché hai paura di rileggerti, perché hai paura di capire davvero l’altro, perché non puoi arrivare con la tua verità in tasca, tranquillamente, e dire che sai tutto te. Quindi, per me è stata importante ogni giorno, questa cosa che ho vissuto con Libas. Adesso avrei tantissime belle parole da dire per lui: è un ragazzo pulitissimo, davvero. Io ho abitato con centinaia di ragazzi e non ho mai incontrato uno più pulito di lui, è voglioso, determinato. È qua da pochi anni e vi posso assicurare che, rispetto ai suoi compaesani, sa parlare benissimo l’italiano. È ovvio che finché lo straniero è così… Incontri uno e ti dici: bello, magari fossero tutti così. Il problema è che poi ci sono anche quelli che ci stanno addosso e rompono, combinano solo guai. E noi siamo molto bravi a giudicare. È il rischio che diceva il don, che corriamo nell’accoglierli nella loro diversità, di non sapere aspettare, perché ognuno ha i suoi tempi. Non è che tutti vengono in Italia come Libas, determinati a mettersi a posto e ad avere un sogno, un riscatto sociale, ecc. Tanti hanno bisogno del loro tempo per capire. Questo non vuole dire che io adesso sono apertissimo con gli stranieri e non me ne frega degli italiani, anzi! Non è che quando ci sono i Mondiali tifo il Senegal (va bene, quest’anno sì perché non ci siano neanche qualificati). Però, la sfida vera qual è? È mantenere la propria identità culturale rispetto a tante culture che incontriamo: questa è una grande sfida. Tante volte facciamo anche dei confronti e ne escono delle belle. Pensate che io, addirittura, attraverso Libas apro una riflessione sulla mia religione: lui prega cinque volte al giorno, ci crede molto, gli piace proprio vivere la sua fede. E per me è importante perché mi fa rivedere anche la mia. La nostra religione infatti può sembrare un po’ più libera, un po’ più “a caso” della loro: però la sua mi richiama alla mia, e quindi ci sono dei bei confronti fra di noi.

CLAUDIO BURGIO
E di dialogo interreligioso vive una comunità, anche. È interessantissimo e bellissimo vedere come a volte vivere insieme, a partire dalle cose più pratiche (chi fa da mangiare, il come fai da mangiare, ecc.), poi sorprendentemente, magari a sera tarda, fa scattare questo pensiero su Dio e sulla tua esistenza. E allora, devo dire che per me Libas e altri ragazzi sono stati davvero sempre un kairos, cioè un’occasione favorevole per ripensare anche, come ha detto Daniel, la mia di vita sacerdotale, la mia vita cristiana. Perché è nel confronto con il diverso da te che tu ritrovi anche la tua identità. Lo straniero è il volto nascosto della nostra identità. Noi in qualche modo possiamo crescere e innovarci e rinnovarci interiormente, a partire dalla pro-vocazione che un ragazzo straniero ci offre e che noi offriamo a lui. Libas, tu ha conosciuto Monsef e Tariq, due ragazzi che ad un certo punto del loro percorso con noi hanno scelto la via del terrorismo islamico e sono andati in Siria, sono diventati jihadisti. Cosa hai percepito, cosa hai capito di quella loro scelta? So che volevano convincerti a fare questo viaggio. Che esperienza è stata?
LIBAS
È stata un’esperienza molto dura e triste. Uno di questi ragazzi poi è morto. Mi aveva anche regalato un tappeto per pregare, sul quale ancora oggi io prego. Per questo mi è rimasto sempre nel cuore. Comunque non so che cosa dire a proposito del perché della loro scelta.

CLAUDIO BURGIO
Sono scelte sempre complicate. Per noi è stata un’esperienza molto forte, molto traumatica, quella di questi due ragazzi, di Tariq, che non c’è più, e di Monsef che è disperso. Speriamo e sappiamo che è ancora vivo. È stata un’esperienza forte perché ci ha obbligato a pensare: «Ma davvero Dio è capace di dividerci?». No, noi non lo crediamo. Siamo convinti, anche quando dialoghiamo in casa, quando ci occupiamo di questi pensieri così profondi, che le nostre differenze siano invece una grande ricchezza per immergerci in quello che è Dio. In fondo, siamo convinti che per affrontare e vincere le paure del diverso, bisogna fidarsi di Dio, magari ognuno del suo, ma fidarsi di Dio è l’unico modo per andare oltre, per riuscire a vincere le paure che ci distraggono. Ecco, so che Monica ha una domanda per Libas.

MONICA POLETTO
Anche per te, per tutti e due. Voglio chiederti questo: qual è, Libas, l’impatto di questi ragazzi con la nostra cultura? Una volta mi ha colpito don Claudio che mi raccontava che per molti di loro è terribile, l’impatto con la cultura occidentale. Dico la cosa forse più banale del mondo, però guardare le trasmissioni televisive, con tutta questa volgarità, sgretola in questi ragazzi il desiderio con cui sono partiti.

CLAUDIO BURGIO
Faccio dire a Libas quello che poco fa ci ha detto a tavola sulla questione del Paradiso: chi andrà in Paradiso? Com’è?

LIBAS
Prima rispondo alla domanda di Monica su quale è stato l’impatto. Non è stato semplice però io ho avuto molta forza. Venendo qua, non ho lasciato la mia cultura. Prima esisteva solo il mio pensiero, arrivato qui, in un Paese cristiano, ho capito che per rimanere dovevo per forza anche andare a conoscere l’altro. Questo è stato l’impatto. Un giorno il don aveva chiamato un imam per fare un incontro con i ragazzi musulmani: ci sono alcuni che non si ricordano più niente, che non sanno che cos’è l’Islam. E il don, che è cristiano, cattolico, fa una cosa come questa per i musulmani! Invece l’imam ha fatto una cosa che non mi è piaciuta, ha giocato con la religione. Il don l’ha chiamato per fare questo incontro e lui gli ha chiesto dei soldi. Questa cosa mi ha fatto stare male, veramente, perché la religione non si compra. È successa un anno fa e l’ho raccontata parlando al telefono con mio padre. Lui mi risponde: «Questo imam ha fatto una cosa bruttissima». Il Paradiso? Penso che c’è. Sento che la gente lo nomina: «Paradiso, Paradiso». Secondo me, in Paradiso ci va solo chi ha il cuore buono, pulito. L’importante è avere un cuore pulito: ci sono musulmani che fanno peggio di quelli che non credono, dei cristiani. Io prima giudicavo e dicevo: solo la mia religione è quella buona. Però, venendo qua, mi si è aperto un mondo nel pensare che non esiste solo la mia religione ma ne esistono anche altre.

CLAUDIO BURGIO
Bene. E questo vuol dire uscire dalla propria monocultura, aprirsi all’altro sapendo che l’altro è nemico, è totalmente altro ma è anche risorsa, ricchezza, possibilità di capire meglio la tua identità. Ecco, questo per noi è innovazione nella vita sociale, nella vita di comunità. E questo è quello che ci consegniamo e vi consegniamo oggi.

MONICA POLETTO
Grazie. Daniel, vuoi aggiungere qualcosa? Hai parlato troppo poco e c’era qua il tuo fans club deluso… Va bene! Allora, chiuderei qua. Ringrazio tantissimo perché mi sembra che, rispetto alla ragione per cui abbiamo proposto questo incontro, l’abbiamo centrata. Il nostro desiderio era aprirci a capire e veramente oggi abbiamo incontrato due esperienze molto interessanti e uno spaccato su mondi che forse non è così facile conoscere, se non dentro un incontro. Forse la cosa con cui possiamo concludere è proprio quello che dicevi tu alla fine, don Claudio: non c’è nessuna possibilità di creare qualcosa di nuovo dentro la realtà, di vivere all’altezza della novità che questa società, questo mondo che cambia, ci portano, se non siamo aperti a incontrare l’altro e a farci incontrare dall’altro. In fondo, bisogna diventare amici! Allora, vi saluto tutti e vi ringrazio.

Data

19 Agosto 2018

Ora

17:00

Edizione

2018
Categoria
Arene