Beyond tragedy. Fede e Apartheid nella storia degli Afrikaners

 

a cura di Rocco Ronza, Andrea Ruggiu, Cara Ronza, Luca Valsecchi, Francesco Morabito.
Responsabile grafico: Lorenzo Morabito

La nascita del nuovo Sudafrica (di cui quest’anno si celebrano i dieci anni) è stata definita “una delle poche cose belle accadute nel mondo” dopo la caduta del Muro di Berlino. Di certo, il volto sorridente di Mandela è diventato l’icona della grande utopia dei nostri anni: il sogno di un mondo in cui l’impegno e la buona volontà degli uomini arrivino a sradicare l’intolleranza e la guerra, fino a creare una sola grande comunità umana, solidale e inclusiva, capace di trascendere ogni differenza di razza, lingua o credo religioso. Come ogni utopia, però, anche questa deve fare i conti con l’ostinata resistenza della realtà. Per spiegarla, spesso si tende a tirare in ballo qualche minoranza di “cattivi assoluti”, stregati da qualche idea assurda e sbagliata. Nella storia del Sudafrica, questo ruolo è appannaggio degli Afrikaners (o Boeri), i discendenti dei coloni olandesi, francesi e tedeschi cui spettano le maggiori responsabilità per la costruzione dell’apartheid. Gli Afrikaners sembrano adattarsi assai bene alla parte. Secondo la storia “ufficiale”, tutto ciò che c’é di negativo nella storia del paese, comprese le profonde diseguaglianze che tuttora dividono bianchi e neri, andrebbe ricondotto al loro ostinato ed “eccessivo” attaccamento alla fede dei propri padri (il protestantesimo riformato portato dall’Olanda) e alla propria vocazione di “popolo di Dio”. Il definitivo distacco degli Afrikaners dalle proprie radici culturali e religiose rappresenterebbe un passaggio indispensabile per l’integrazione tra le diverse razze. I media e l’opinione pubblica occidentale, che nella condanna dell’apartheid vedono la prova della loro apertura nei confronti del Terzo Mondo, non amano guardare il Sudafrica e la sua storia dal punto di vista degli Afrikaners. Per il mondo protestante, il sostegno dato all’apartheid dalla Chiesa Afrikaners ha costituito a lungo una macchia imbarazzante, e ha fornito ai cattolici un utile controargomentazione alla “leggenda nera” diffusa dai protestanti inglesi contro i colonizzatori spagnoli.
Eppure, ora che il Sudafrica ha voltato definitivamente pagina, una rilettura che tenti di fare giustizia anche del punto di vista dei “cattivi” appare necessaria per comprendere a fondo un evento carico di significati che vanno ben oltre i confini del paese, senza evitarne gli aspetti più contraddittori e scomodi. Essa introduce anche un punto di osservazione interessante sul mondo in cui viviamo. Il nuovo Sudafrica è una specie di microcosmo, in cui entrano a contatto tre diversi continenti (Africa, Europa e Asia), e gli Afrikaners di oggi potrebbero anticipare ciò che aspetta anche noi, minoranza di tradizione europea e cristiana in un mondo globalizzato che si avvia ad appartenere sempre di più a popoli estranei a tale tradizione. Rivisitare le vicende del Sudafrica dalla particolare prospettiva degli Afrikaners, senza per questo mettere in questione il giudizio di condanna dell’apartheid, appare però possibile solo se si parte dalla visione del peccato originale come contraddizione fondamentale alla radice dell’agire umano. Per questo, la mostra utilizza come “guida” l’opera del grande teologo tedesco-americano Reinhold Niebuhr, la cui opera appare tutta fondata sulla coscienza della tensione ineliminabile tra ideali di giustizia e limite umano.
La mostra è dunque costruita sul dialogo tra due percorsi. Da una parte, la storia dei coloni olandesi da cui emergerà il popolo Afrikaner, dal Seicento fino ai nostri giorni, raccontata in cinque sezioni con il contributo di immagini, testi e musiche tratte dalla sua tradizione folk e corale. Dall’altra, un commento costituito da brevi brani tratti dalle opere di Niebuhr (tra cui Beyond Tragedy, del 1947), che interrompe il primo percorso introducendo riflessioni utili a coglierne il significato più profondo, così come esso appare in una prospettiva che accetti di stare seriamente di fronte alla pretesa introdotta del Fatto cristiano. La prospettiva niebuhriana permette di fare emergere una visione storicamente e umanamente più vera e profonda della tragedia dell’apartheid. La parola ‘tragedia’ è giustificata dalla lucidità con cui la coscienza e la cultura Afrikaner hanno sempre guardato alla contraddizione tra la profonda ispirazione cristiana alla base della propria coscienza di popolo e le gravi responsabilità assunte con la costruzione dell’apartheid. Questa lucidità, sfociata fin dall’inizio in un lungo e tormentato dibattito sulla necessità di “sopravvivere nella giustizia”, spiega in gran parte la scelta finale del governo Afrikaner di F.W. de Klerk di cedere pacificamente il potere quando la sua superiorità militare era ancora pressoché intatta.
La conclusione della mostra è che nessuna utopia umana, neppure la più nobile e universale, è in grado di produrre una giustizia assoluta, che non sacrifichi qualche aspetto dell’umano bollandolo con un giudizio di colpevolezza che appare forzato o ingiusto. Ciò significa scoprire come sia difficile, per qualsiasi uomo, dare un giudizio morale definitivo sul male di altri uomini. “Immedesimarsi” negli Afrikaners senza mettere in discussione il giudizio di condanna sull’apartheid è possibile se ci si apre ad una misura più grande, che nella tradizione cristiana è espressa dalla parola “misericordia”, Lo sguardo della misericordia cristiana – custodito, più profondamente nella tradizione cattolica che in quella protestante, attraverso la figura di Maria – emerge infatti come l’unica misura capace di fare vera giustizia non soltanto della tragedia storica degli Afrikaners ma, più in generale, di quell’impasto di limite e di desiderio di cui è fatto il cuore di ogni uomo in ogni luogo e in ogni tempo.

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Data

22 Agosto 2004 - 28 Agosto 2004

Edizione

2004
Categoria
Esposizioni Mostre Meeting