BANCHE E IMPRESE: UN RAPPORTO DA RICOSTRUIRE?

In collaborazione con Unioncamere. Partecipano: Ferruccio Dardanello, Presidente Unioncamere; Federico Golla, Amministratore Delegato Siemens Italia; Giuseppe Mussari, Presidente ABI e Presidente Banca Monte dei Paschi di Siena; Pierluigi Stefanini, Presidente UNIPOL. Introduce Graziano Tarantini, Presidente Consiglio di sorveglianza A2A e Presidente Banca Akros.

 

GRAZIANO TARANTINI:
Allora diamo inizio a questo incontro, sono le ore 15 alle 16 terminiamo. però tutto questo è un incontro molto in un ora, non andrà a detrimento della qualità, ve lo assicuro. Il tema è ovviamente un tema di grande attualità: “banche e imprese: un rapporto da ricostruire?”. Come sempre il Meeting è anche l’occasione di una riflessione che parte da posizioni che non hanno pregiudiziali. Qui abbiamo degli interlocutori che vivono un esperienza imprenditoriale e anche bancaria, e vogliamo sentire dalla loro voce quanto c’è realmente di vero, in questo non dialogo fra il mondo delle imprese e il mondo delle banche e cosa effettivamente, cosa può essere migliorato. Io credo che non possiamo chiudere gli occhi, tutti abbiamo avvertito l’impatto di questa grande crisi che non nasce nel nostro paese ma nasce dagli Stati Uniti, che a valanga ci ha coinvolti e in qualche modo ha trascinato con sé anche la cosiddetta economia reale. In tempi non sospetti, anche nei momenti più difficili, io non ho mai trovato conveniente parlare male per parlare male delle banche, perché ritenevo che anche le banche con tutti i loro difetti sono patrimonio del nostro paese. Per di più, questo è un dato oggettivo, le banche italiane sono state meno toccate, per via anche di atteggiamenti politici, diciamo, più attentI e rigorosI nella gestione del credito. Dunque, una volta tanto dobbiamo anche dire che il nostro sistema bancario, che veniva tacciato di essere arretrato fino a 2, 3 anni fa, ha avuto in qualche modo dei meriti e questi vanno riconosciuti. Ripartire da questo non vuol dire che non bisogna lavorare, bisogna fare qualcosa, bisogna in qualche modo, c’è da fare molto, però non possiamo che ripartire con dati positivi, per riprendere un cammino che interessa tutti. Anche la formula, economia di carta, la finanza, economia reale, quella che fa qualcosa, che trasforma le materie, l’industria manifatturiera, io trovo che sia molto, molto forzosa. Anche nella cosiddetta economia reale ci può essere economia, non che ha a che fare con qualcosa di artificioso. Il Meeting è anche l’occasione, in qualche modo, per poter parlare di questo. Abbiamo con noi Stefanini, già ospite del Meeting, il dottor Stefanini, del gruppo Unipol, lo conosciamo da tempo. Abbiamo Golla che è del gruppo Siemens. Abbiamo Mussari, altro ospite illustre ormai del Meeting da anni, del gruppo Monte Paschi di Siena. Abbiamo Dardanello, il Presidente di Unioncamere. Dunque abbiamo, diciamo, un mix di personalità e esperienze che in qualche modo possono aiutarci, dopo questi sessanta minuti, ad uscire fuori con delle idee un po’ più chiare. Allora io inizierei subito con l’ordine con cui li ho presentati, dando la parola a Stefanini. Grazie.

PIERLUIGI STEFANINI:
Grazie, ho accettato con molto piacere l’invito e devo dire che torno molto volentieri in questa sede, in questo occasione così importante di confronto, di riflessione e di considerazione e anche poi credo di spunti utili per l’attività futura di ognuno di noi. Ho invitato il nostro ospite moderatore, di tirarmi la giacca e lanciarmi qualche oggetto se sforerò i sette minuti che mi sono stati assegnati. Condivido molto quello che dicevi adesso, perché credo che non si fa mai abbastanza lo sforzo, soprattutto quando si esaminano problemi complessi come questo, di uscire dalla classica interpretazione del bianco e del nero di qua o di là. A volte invece, molte volte, la realtà è un più complicata e un po’ più articolata di quello che si tende a rappresentare o a considerare. Allora permettetemi una battuta soltanto, ma mi serve per introdurre l’argomento, per ripartire dagli elementi che hanno provocato la crisi che stiamo vivendo, quella finanziaria che sicuramente è la più acuta, ma al tempo stesso anche senza sottovalutare le criticità emergenti della globalizzazione che colpiscono l’ambiente, lo stesso assetto politico e democratico, la stessa crisi alimentare, insomma tutti quei fenomeni pesantissimi che coinvolgono il nostro pianeta. Credo che occorra trovare una risposta profonda che soprattutto eviti di ritornare a fare quello che abbiamo fatto fino ad ora, perché il rischio più elevato che si può correre è questo. E’ notizia di questi giorni, sul Sole 24 Ore, che ad esempio grandi banche americane stanno ricominciando a impacchettare crediti difficili e a metterli sul mercato. E’ passato neanche un anno dalla crisi Lehman e già ricomincia questa modalità. Così come è notizia, che è passata in secondo piano ma che credo meriti di essere considerata. Voi sapete che, in particolare in India, esiste una prassi consolidata di microcredito, che è cresciuta in cinque anni e è di cinque volte maggiore, questo incremento che ha determinato un incremento del debito delle famiglie, dei cittadini dell’India, ha aumentato anche la morosità di questa attività finanziaria. Molti investimenti dei fondi occidentali si stanno concentrando su questo business, con il rischio però che questo business possa diventare un’arma micidiale per le popolazioni di quel paese. Insomma, se vogliamo costruire nuovi percorsi e nuove relazioni e lo vogliamo fare davvero, e sottolineo questo punto, bisogna che facciamo i conti con le ragioni strategiche, etiche che hanno portato alla crisi, altrimenti ricomincerà la storia e ricominceremo a fare gli stessi errori. Cercando di recuperare quei principi e quei valori che fanno parte integrante delle migliori tradizioni dell’esperienza umana, delle attività economiche e delle attività imprenditoriali, e cercando di misurarci sul nodo fondamentale di quale idea dello sviluppo vogliamo avere; di quale rapporto tra la crescita economica e il bene comune siamo in grado di stabilire, e ci sono importanti esperienze associative, cooperative, di imprese che ci possono aiutare a coniugare questi aspetti. Ci può aiutare molto, perché di attualità ma anche per la profondità del pensiero, la recente Enciclica, perché ci sottopone a importanti riflessioni e a importanti interrogativi e allora, per venire al dunque, se vogliamo costruire un nuovo rapporto tra le banche e le imprese, necessità che credo sia di fronte a tutti noi, vado in prestito per un attimo dell’Enciclica quando dice ad un certo punto che “bisogna che ci sentiamo tutti responsabili di tutti”. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che, ad esempio, come è apparso anche in questi mesi sugli organi di informazione, è scaturito dalle assemblee delle associazioni economiche, è entrato nel mirino delle difficoltà dei problemi il sistema bancario. A parte che è poco serio fare così, giustamente tu dicevi così, ma occorre anche cercare di sforzarci per vedere le ragioni da una parte e dall’altra e capire come queste ragioni diverse possono confrontarsi e convergere, altrimenti ognuno continuerà a parlare il suo linguaggio, starà sul suo terreno e non ci sarà dialogo proficuo. Devo dire che da questo punto di vista, l’ultima esperienza, per fortuna positiva, che ha visto l’entrata in campo delle associazioni economiche imprenditoriali, dell’associazione delle banche, ha permesso di individuare una strada per la sospensione dei debiti per le piccole imprese, attraverso il cosiddetto avviso comune, che può essere una strada utile da percorrere e da sperimentare, per altro noi, con i nostri istituti di credito aderiremo a questa iniziativa nuova. Che cosa ci insegna questo? Che occorre uno sforzo reale di reciprocità, di considerazione degli altri, di capire i bisogni che hanno gli altri e non di stare chiusi nella nostra casa e dire: “io ho ragione e sono gli altri che devono venire da me”. Occorre vedere come possiamo davvero sforzarci, attraverso modalità anche rigorose ovviamente, che richiedono capacità professionali degli istituti di credito, ad esempio, nel valutare il rischio, nel capire i bisogni dell’imprenditore, che richiedono trasparenza nel rapporto, che richiedono onestà, perché occorre dirsi le cose come stanno e non pensare che se, nel breve, rischio di fregarti, poi, dopo, avrò di fronte a me un futuro importante. Allora credo che, in questo senso, riusciremo a fare questo sforzo, tenendo conto che siamo certo con responsabilità diverse, tuttavia dentro a un sistema che ci costringe tutti a fare i conti con queste difficoltà, perché, voglio dire, c’è il problema delle imprese che hanno bisogno del credito per funzionare, per investire, per svilupparsi, ma c’è anche il problema di come gli istituti di credito trovano un equilibrio nel loro conto economico. Come sappiamo la crisi della liquidità, l’incremento delle sofferenze, il costo della materia prima, cioè del denaro, sono tutti elementi che mettono in forte sollecitazione il sistema e non si può banalizzare questo elemento dando la colpa alle banche perché viene facile fare così, è poco serio, non va bene. Bisogna fare uno sforzo per capire meglio le ragioni e soprattutto trovare un percorso che sia proficuo. Per concludere, essendo che appunto siamo dentro un sistema che richiede questo sforzo, io penso in particolare che occorra lavorare su tre direzioni fondamentali: la prima è quella di una forte attivazione, impegno, e azione delle associazioni, della rete; è fondamentali cioè avere associazioni economiche imprenditoriali che fanno sponda, aiutano, si muovono, sollecitano, certo litigano anche quando è necessario con le banche, ma in modo positivo e proficuo. Questo può essere un elemento importante che dà anche all’imprenditore meno solitudine e più sponda nel dialogare e nel confrontarsi con le banche. Secondo, uno sforzo di merito, da parte degli istituti di credito, capace di comprendere meglio e di più le necessità settoriali di mercato, di prodotto, di servizio, però avendo anche da parte dell’imprenditore un’apertura e una disponibilità ad aprire i libri, come si dice, in modo molto trasparente, modo molto onesto. Terzo, e qui c’è uno sforzo davvero notevole anche di competenza che occorre costruire e rafforzare, una capacità di gestione del rischio che sia più in grado di valutare nell’insieme l’attività economica, anche in termini prospettici, anche in termini di medio-lungo termine, non del breve, immediato. Se riusciremo a fare questo, credo che daremo un contributo al paese, perché poi in fondo, penso alle banche ma vale per le imprese, vale per i cittadini, noi dobbiamo interrogarci su quale è il nostro scopo sociale, quale è la nostra missione, che non è solo quella di fare bene il conto economico, ma di domandarci noi cosa facciamo per il paese, cosa facciamo per gli altri, che contributo diamo a fare in modo che, oltre a lamentarci della crisi, troviamo poi le risposte che siano le più adeguate possibili. Così come un ruolo di cittadini capaci di controllare, verificare, stimolare i decisori pubblici, siano i governi, siano gli enti locali, siano gli enti locali ad avere quella giusta sensibilità di controllo, ad avere quella giusta sensibilità per aiutare questo processo di convergenza. Se riusciremo a fare questo, usciremo bene dalla crisi, eviteremo il rischio. Certo è un discorso molto ampio, globale, tuttavia, per quello che è nelle nostre capacità, cerchiamo di fare in modo serio e in modo positivo.

GRAZIANO TARANTINI:
Ringrazio Stefanini, perché, non ci eravamo parlati prima, però trovo molto opportuna questa posizione positiva. Adesso darei la parola a Federico Golla, che è un ingegnere, ha vissuto la sua vita lavorativa nel gruppo Siemens, un gruppo molto innovativo. Allora sentiamo da parte di un imprenditore come sta vivendo questa crisi e quanto è colpa delle banche e quanto invece è colpa, molte volte, di ipotetiche scelte sbagliate di un gruppo industriale.

FEDERICO GOLLA:
Grazie Graziano. Non partirei da quanto è colpa delle banche o da quanto di altri. Noi come grosso gruppo industriale, multinazionale, stiamo guardando alla crisi da tutti gli angoli possibili: la stiamo guardando dai mercati industriali, la stiamo guardando dai segmenti di mercato. Devo dire, con un certo sollievo, che stiamo guardando la crisi con chiara evidenza, ma non siamo una azienda in crisi. Non siamo una azienda in crisi perché abbiamo una organizzazione, una strategia che possiede business anticiclici: quello dell’energia oggi è un segmento in forte crescita – l’energie alternative, il verde, non solo vanno di moda politicamente, ma sono una realtà e una necessità (un bisogno che non è arrestabile) – ; il mondo della sanità, che è importante per Siemens, è ovviamente anticiclico, perché è seguito da logiche diverse. È ovvio che noi non siamo una azienda in crisi, ma potremmo anche esserlo. Quello che noi vediamo è chiaramente una forte contrazione nel settore industriale; ci sono dei segmenti di mercato, l’automobile ad esempio, la cui domanda probabilmente è il 50% della capacità produttiva dell’intera industria automobilistica. Il settore dell’acciaio, il settore del cemento si è completamente fermato; il settore delle macchine utensili, tradizionalmente un fiore all’occhiello dell’industria italiana, come export, ha scontato riduzioni del 40%. Quindi la mia paura è quella di vedere la crisi non in forma diretta, ma di vedere la crisi in forma indiretta. Tutti noi sappiamo che il tessuto industriale italiano è un tessuto fortemente dominato dalla piccola media impresa e qui inizia il discorso delle Banche. Se io non posso vedere oggi una crisi diretta, perché oggi Siemens ha un sistema di cassa internazionale – noi non abbiamo bisogno delle banche a livello locale, perché comunque abbiamo un sistema di finanziamento interno – però abbiamo bisogno che i nostri clienti abbiano un rapporto sereno con le banche. E più la piccola media impresa è affetta da questa difficoltà di rapporto, più noi rischiamo di vedere calare non solo i nostri fatturati e i nostri risultati commerciali, ma rischiamo di vedere – e questo credo che debba preoccupare tutti noi – impoverito il nostro panorama industriale. Quando io sento gli organi di Confindustria, la stessa presidente Marcegaglia, affermare ripetutamente che perderemo ancora tanta aziende, beh, questo è un qualcosa al quale, credo, tutti quanti dobbiamo concorrere affinché venga evitato. La ripresa economica credo che sia un obiettivo comune, non è un obiettivo delle banche, non è un obiettivo del mondo industriale. Oggi a questo tavolo manca sicuramente un terzo soggetto, che deve essere ai tavoli giusti al momento in cui si parla di ripresa economica, che sono gli organismi istituzionali: il Governo, il Ministero del Tesoro.. tutti quanti devono contribuire. Noi come industria manifatturiera, come industria tecnologica cosa auspichiamo? Auspichiamo un buon rapporto fra le banche a supporto della piccola-media impresa italiana, che ripeto, rimane ed è stato uno degli elementi trainanti negli anni ’70 -’80 dell’economia italiana – non dimentichiamocelo -; auspichiamo, e credo che i primi segnali del Governo, in termini di stimolo, siano stati comunque sufficientemente positivi e ben accettati, auspichiamo sinceramente che gli investimenti in infrastrutture siano investimenti che abbiamo valore sufficiente per rilanciare la ripresa economica, perché senza crescita non c’è salvezza, e che siano anche un momento di opportunità per modernizzare il paese. Non ci servono solo finanziamenti in valore assoluto, ma ci servono finanziamenti che permettono di modernizzare il paese: il sistema dei trasporti è quello che è, il sistema sanitario è quanto meno questionabile in alcune regioni del Paese, le energie rinnovabili sono una realtà, ma ancora poco evidente sul mercato italiano, quindi ben vengano finanziamenti pubblici e anche privati a sostegno delle infrastrutture, ma che siano anche un momento di rottura tecnologica e di cambio di passo, di velocità, per avere un paese, anche dal punto di vista della tecnologia, più moderno e più efficiente, perché questo è anche un volano un percorso virtuoso di crescita dell’economia. Un ultimo punto importante, secondo me, per le grandi opere è quello della finanza di progetto. L’Italia è partita con un discreto entusiasmo, alcuni anni fa, ma progressivamente abbiamo visto calare l’attenzione del mondo finanziario, sulla finanza di progetto: non tanto in volumi assoluti, ma in interesse particolare. Cioè la mia sensazione è che oggi l’attitudine al rischio sulla finanza di progetto si sia notevolmente abbassata. Non è da me, certo, stimolare, incitare il rischio eccessivo, perché le nostre aziende e anche le nostre banche non ne hanno assolutamente bisogno in questo momento, però credo che una certa attitudine al rischio di impresa, per poter stimolare gli investimenti pubblici e privati nelle infrastrutture, in tutto quello che può essere ammodernamento del paese, debba assolutamente essere anche guardato con attenzione. Io concludo dicendo che io non so se ci sia un rapporto da ricostruire o da costruire. Noi col mondo della finanza ci siamo qualche volta incrociati, qualche volta ci siamo mossi su mondi paralleli. Sicuramente c’è da costruire assieme una nuova visione del futuro per questo paese. Io credo che la salute dell’economia non sia un interesse mio, come manager di una azienda multinazionale, o che sia un interesse di Unipol o di un’altra banca; lo sviluppo dell’economia è quello che ti permette di stare nel club buono degli otto, dei nove, dei venti che hanno un respiro futuro, oppure quello che ti fa scivolare nel club meno buono di quelli che arrancano per far quadrare i bilanci e credo che tutti noi, con la fatica e gli investimenti che abbiamo fatto, e anche con la giusta passione che ognuno ha per il proprio Paese, dobbiamo tendere all’ obiettivo finale. Grazie.

GRAZIANO TARANTINI:
Grazie Federico. Darei subito la parola all’avvocato Mussari, responsabile e ormai guida da tempo del Gruppo Montepaschi, gruppo bancario, uno dei più importanti del nostro Paese. Dopo ritornerò, comunque, su alcune cose dette dall’ingegner Golla, che mi sembrano molto interessanti per quanto riguarda la parte impresa. Darei subito la parola a Mussari, grazie.

GIUSEPPE MUSSARI:
Buonasera, grazie per l’invito. È un piacere ritornare al Meeting. Il tema è complicato e va giocato in sette minuti, quindi non è facile. Mah, in realtà il titolo “ricostruire il rapporto banche-imprese”, personalmente, io credo che si cerchi di ricostruire qualcosa che è andato in pezzi, si è frantumato. Non credo che siamo di fronte a questo. Questo è sempre stato un rapporto complesso, un rapporto complesso per tutta una serie di ragioni che stanno nella natura stessa del nostro Paese e se vogliamo anche nella parte positiva del nostro Paese. Abbiamo un sistema di piccole medie imprese, oggettivamente sotto capitalizzate, oggettivamente più spostate verso la leva che verso il capitale. Tutto questo però spesso viene letto in maniera molto critica, cioè: uno dei limiti del paese è bla bla bla… Alla fine uno di questi limite ha consentito a questo Paese di mantenere un tessuto imprenditoriale produttivo, cioè di gente che trasforma delle cose, per costruirne altre e poi venderle, a differenza di altri paesi, che andavano molto di moda, fino ad un anno e mezzo fa. Dentro questa struttura economica, è evidente che il rapporto fra la banca e l’impresa è un rapporto complicato, però…. a me avevano preparato tutta una serie di numeri, di cui vi faccio grazie, per carità di Dio, perché venendo su mi sembrava un po’ astratto tutto quello che era stato molto sapientemente preparato. Il punto vero è che il rapporto fra la banca e l’impresa non è rapporto astratto, cioè non possiamo tutto questo ridurlo ad una logica di numeri, a quanto aumentano gli impieghi, a quanto costa il denaro, a quanto le imprese sono a leva, a quanto le banche rischiano per Basilea2, il fatto che Basilea2 sia un tormento, che non so per quale peccato tutti scontiamo. In realtà le banche e le imprese sono contenitori di persone, cioè sono luoghi in cui le persone svolgono la propria attività; allora non possiamo non partire da qui per capire se questo rapporto funziona o non funziona. Io non la voglio buttare in filosofia, però, se guardo dentro casa mia, vedo che abbiamo un sistema che si è profondamente modificato, che si è fortemente integrato, che dal punto di vista delle dimensioni ha fatto passi da gigante (poi vedremo fra qualche anno se tutto questo aveva un senso compiuto o forse alcune cose potevano essere fatte meglio, o prima o dopo), ma che sostanzialmente è molto simile a se stesso da molto tempo. Infatti, le relazioni – che è poi quella che qui interessa – fra l’istituto di credito, il suo dipendente, in primo ruolo – non il suo cliente, il suo dipendente! – e il suo cliente in termini sostanziali – poi formalmente sono cambiate, perché le Banche spediscono più carta di quella che spedivano prima – in termini sostanziali sono rimaste, ahimè, identiche negli ultimi dieci anni. Chi vi racconta una cosa diversa, non è mai entrato in uno sportello bancario, negli ultimi dieci anni. E questo perché? Perché probabilmente le Banche non anno riflettuto a sufficienza, non hanno investito a sufficienza, sul loro reale core business, che è la relazione. E su questo, io credo che passi un pezzo della crisi del rapporto, perché quando due entità vanno in crisi, normalmente il primo tema della crisi è la conoscenza, cioè non riusciamo più ad intenderci perché non ci capiamo e se non ci capiamo, vuol dire che sappiamo poco l’uno dell’altro. Se sappiamo poco l’uno dell’altro vuol dire che gli strumenti che abbiamo messo in campo per gestire questa relazione sono obsoleti. E questo è successo alle banche non solo con le imprese, ma anche con i loro clienti normali, quindi, come vedete, non mi occupo delle imprese… credo che ognuno poi debba occuparsi dei fatti suoi, perché gli altri poi sono molto più bravi di te ad occuparsi dei propri. Ma se devo ragionare delle banche, questo tema mi sembra centrale. Se guardiamo ad una banca nella sua interezza e ne cerchiamo una definizione sintetica, possiamo trovarne molte – le banche sono intermediari creditizi, le banche scambiano scadenze fra chi risparmia e chi impiega, le banche raccolgono il risparmio che è tutelato dalla Costituzione, le banche vendono prodotto finanziari – in realtà le Banche sono uno straordinario cervello informatico, se dobbiamo guardare dentro una banca, non fuori dalla banca. Questo cervello, queste procedure, questo motore che dialoga con i dipendenti e, attraverso i dipendenti, con i clienti e dialoga troppo attraverso i dipendenti con i clienti e quasi mai direttamente con i clienti – diciamo la verità -, ha fatto il suo tempo e va profondamente cambiato e ripensato. Non è concepibile che noi continuiamo a non sapere bene, tutto, delle persone che ci stanno davanti, delle imprese che ci stanno davanti. Non è più accettabile che i nostri clienti non si sentano completamente a loro agio nel rapporto con la loro Banca. Guardate, non si sentono a loro agio non perché la banca li truffa – questo deve essere molto chiaro: le banche non truffano nessuno – non si sentono a loro agio perché c’è un problema di comprensione; c’è un problema di strumenti, c’è un problema di linguaggio, c’è un problema di sistemi; è un po’ come quello che succede con le leggi. Nel 1989, questo Paese, finalmente dopo cinquant’anni, si è dotato di un Codice di procedura penale, degno di un Pese democratico. Quello che ne è successo dopo lo passiamo sotto silenzio, perché siamo completamente fuori tema. L’allora ministro della Giustizia, Martelli, ebbe una idea geniale, cioè quella di farlo riscrivere a Sciascia, in italiano, perché in realtà non si capiva. Poi quell’esperienza di Governo finì, come è a tutti noto, e Sciascia non si occupò mai di questo lavoro, che invece sarebbe stato molto importante. Ecco, se noi riuscissimo a comunicare, e quindi a conoscere, non attraverso le formule degli avvocati, ma attraverso un linguaggio chiaro, quello che usiamo tutti i giorni e con meno carta possibile, e con più possibilità di comunicare a distanza e con più tempo per i nostri dipendenti di occuparsi della conoscenza dei nostri clienti, un pezzo di questo rapporto sarebbe risolto. Guardate, non è la crisi che mette in crisi questo rapporto. La crisi è un momento acuto, è del tutto evidente che quando c’è una crisi, fra chi chiede soldi e chi da soldi si crea un momento di tensione… non ci vuole uno scienziato per capirlo. Ma se ci fermiamo a questo e quindi aspettiamo che la crisi finisca per dire: bene la crisi è finita e siamo tutti a posto, ci siamo raccontati un’altra storia. La storia vera è che la crisi nel rapporto fra le persone, le imprese e gli istituti di credito sta dentro questo tipo di deficit di conoscenza. Dentro questo deficit di conoscenza c’è una responsabilità dei nostri cittadini, che poco capiscono di numeri e di finanza, c’è una responsabilità delle imprese, ma non ne voglio ragionare.. in termini di capacità, la maggiore responsabilità non può stare, in casa di chi, per sua fortuna, ha una certa dimensione e mette insieme più esigenze. Allora, per venirne fuori, occorre ripensarsi profondamente, ripensarsi proprio in quello che si è ed è un esercizio difficile, perché noi lo richiediamo ad aziende, imprese che hanno degli obblighi verso il mercato – anche se questi obblighi vanno tenuti dentro una logica un pochino più larga di quella del mercato che conosciamo – e lo chiediamo a soggetti che poi, alla fine dei conti, non escono male da questa fase e quindi in qualche modo tendono a dire: “beh, se ce l’ho fatta questa volta, perché devo ripensare a me stesso? In fondo mi è andata meglio che a tanti altri”. Invece no! La crisi, se un senso deve avere in termini di cambiamento e in termini di conoscenza, e se deve essere un avvenimento – come dite voi nel titolo del vostro Meeting – deve spingerci a pensarci diversi e non guardando a noi, ma guardando agli altri, senza tradire quello che siamo. Guardate: diffidate dalle Banche che non fanno soldi con i loro clienti, perché se non fanno soldi con i cloro clienti, vuol dire che stanno assumendo dei rischi per farli da qualche altra parte, con i risparmi dei clienti. Un servizio è un servizio e deve essere pagato, perché dietro un servizio c’è una macchina complessa, il costo deve esser trasparente, ma non può essere a costo zero; se quel servizio è a costo zero, vuol dire che c’è un tema di ricavi che sfugge alla vostra percezione e un tema di rischi che sfugge alla vostra percezione …
No, ma ne possiamo anche ragionare… credo che li stiano pagando anche le banche i costi della crisi, se vogliamo riportare sui numeri quanto sono cresciute le sofferenze in questi sei mesi e quanto le banche stanno pagando il costo della crisi. Ma se ragioniamo di questo non facciamo un passo avanti, facciamo un discorso che può essere interessante, forse utile, però uno si prende un bollettino della Banca di Italia, compra un paio di occhiali buoni, perché sono scritti piccoli e sa tutto, non avrebbe senso starne a ragionare qui, secondo me. Questo io penso… quindi, questo tipo di trasformazione credo sia necessaria, se veramente vogliamo non tanto ricostruire, ma basare su basi nuove un rapporto.

GRAZIANO TARANTINI:
Ringrazio l’amico Giuseppe Mussari perché, in questo tempo non è una cosa da poco, non può essere tacciato di ipocrisia. Ricordo, a memoria, due anni fa in una conferenza stampa al Meeting, un giornalista inglese gli chiese conto delle Banche italiane e lui rispose: pensate alle vostre. E devo dire, dopo due anni, anche in quel caso lì diceva delle cose vere. Dunque dice delle cose che oggi sono in qualche modo… oggi la pancia della gente, io lo vedo, sento, perché giro – mi chiamano a convegni a parlare di Banche – ormai il problema è: la banca ruba. Dobbiamo trovare il modo per riassumere quelli che sono i dati reali di questa crisi, che, come diceva giustamente lui, questo è un momento acuto e nei momenti acuti… però le malattie si curano quando il corpo ritorna ad essere sano. Quando l’economia ripartirà, non dobbiamo pensare che i problemi siano risolti, ma bisogna in qualche modo riprenderli in mano, laddove non sono stati affrontati prima, perché su questo tema, se ne è parlato da tempo o con slogan oppure scarsa capacità di osservare quello che era il fenomeno italiano. Comunque dopo ci torneremo e dirò alcuni punti sintetici su questo. Presidente, prego.

FERRUCCIO DARDANELLO:
Innanzi tutto grazie per l’invito, grazie per questa tavola rotonda, per questa analisi, per questo approfondimento, per come ricostruire un rapporto. In modo particolare c’è il mondo delle banche, che ha parlato e anche quello di una grande impresa del mercato, e quindi il sistema delle imprese. Non credo che nessuno, più del sottoscritto, dal punto di vista istituzionale per lo meno, in questo momento possa rappresentare, qui, a questo tavolo, sei milioni di imprenditori, che sono gli imprenditori del nostro Paese, gli iscritti delle nostre liste delle camere di commercio, da Aosta, fino a Ragusa, che vivono un momento di grande difficoltà, che vivono una situazione economico finanziaria difficile, che non hanno grandi prospettive di lavoro, pochi ordini, e che trovano un rapporto col sistema della banche oggi estremamente più complicato e difficile di ieri. Lo diceva già, tanti anni fa, Napoleone Bonaparte: “sans l’argent” la guerra non si fa. Senza il credito all’imprenditoria, senza il credito alle imprese, senza la fiducia ad affidare a chi investe, a chi porta innovazione, a chi porta quotidianamente lavoro, occupazione all’interno della società. L’imprenditore, se non ha la disponibilità economica, finanziaria per confrontarsi col mercato, frena ed in qualche modo compromette non solo la vita stessa della propria impresa, ma indirettamente poi la vita stessa dell’istituto bancario. Quindi le banche devono in qualche modo rivedere oggi il senso per il quale loro sono, il loro ruolo all’interno del sistema economico finanziario italiano. Credo che sia un fatto sicuramente importante, doveroso, ma c’è da analizzare bene come questo rapporto possa ulteriormente incrinare una situazione che si sta ulteriormente complicando, che sta diventando ulteriormente difficile. Proprio in questa settimana, in questi giorni, da una analisi del nostro Centro studi, abbiamo visto che oltre il 33% delle nostre imprese in Italia, su un campione molto alto, se lo parametriamo ai sei milioni (vuol dire due milioni di imprese nel nostro paese), hanno difficoltà ad ottenere credito dalle banche. Queste sei milioni di imprese, è bene anche ricordarlo, il 95% di queste saranno tutte sottocapitalizzate, hanno meno di 20 dipendenti, presidiano il territorio, conoscono il territorio, sono conosciute nel territorio, vivono nel territorio, comunque vanno oltre all’80% dell’occupazione all’interno del paese, danno oltre il 75% della crescita del Pil del nostro paese. Bene, oggi due milioni, se questi sono i dati percentuali trasferiti ai sei milioni, hanno estrema difficoltà ad ottenere il credito.
Allora mi chiedo, in un momento così difficile, così complicato, come è possibile, che se non c’è la benzina per poter far girare il motore, come sia possibile che questi milioni di imprese, che questi milioni di imprese, questi milioni di imprenditoria riesca con tutta la sua capacità, con tutta la sua innovazione, con tutto il suo ingegno, a superare il momento di crisi ed avere quello step per potere andare oltre e per poter rimanere fortemente e con forza all’interno del mercato. Noi intravediamo all’orizzonte dei rischi, rischi che diventano inevitabili in una società così frammentata dal punto di vista economico come la nostra. Nel momento in cui la piccola imprenditoria, forse quella che più soffre in questo momento, non trova credito all’interno del sistema bancario, può trovarlo fuori, ma creando aspetti di fenomeni sociali di crisi – una parola che non vorremmo mai sentire all’interno del nostro paese ma che purtroppo si chiama usura. Quindi c’è anche questo rischio che oggi si corre e al quale noi dobbiamo porre molta, tantissima attenzione. Io credo che in questi vent’anni, questa trasformazione del mondo bancario, questi istituti di credito che si sono aggregati, proprio per una politica, una filosofia che si riteneva complessivamente molto appropriata, molto giusta forse, quella dell’aggregazione, hanno portato però ad una spersonalizzazione di quello che era il rapporto con la clientela. Questo è un dato oggettivo. Una volta la banca locale, la banca che aveva come riferimento il territorio, conosceva vita morte e miracoli dell’imprenditore, sapeva bene quali erano le sue capacità di onestà, le sue capacità di intelligenza per poter in qualche modo approfondire i problemi, conosceva le difficoltà o anche, magari, le cose fatte e magari non portate alla luce del sole, che però rimanevano di proprietà dell’imprenditore stesso. Quindi c’era e c’è un rapporto che oggi magari si intravede ancora nelle piccole banche locali e nelle banche di credito cooperativo, che sono quelle più legate al territorio, dove hanno trovato rifugio, in modo particolare, in questi ultimi mesi, proprio quelle piccole-medie imprese italiane, per aver un rapporto più stretto, più veloce, più immediato, per dare, comunque, delle risposte complete a quelle che sono le nostre necessità. Quindi a me piacerebbe parlare di un rapporto ricostruito, anche su questi temi, fra l’imprenditoria italiana e il mondo delle banche. Ognuno vive i propri problemi, me ne rendo conto in questo momento, ma credo che se non si fa un’analisi bene attenta, non si riesca a mettere in moto qualche meccanismo che possa riportarci, magari indietro da qualche punto di vista, e magari modificando anche qualche regola – quella di Basilea2, io credo abbia già fatto venire l’itterizia a tutti: la valutazione di questi parametri, di questi meccanismi che sono assolutamente spersonalizzati, collegati solo a dei numeri. Io credo che quel 95% delle aziende, probabilmente, non hanno dei numeri, a volte, sempre estremamente chiari… dietro però questi numeri credo ci sia – come dicevo prima – un territorio, una famiglia, una credibilità, una idea da portare avanti, che debbano essere valutati in modo diverso e possano quindi poter rimettere in gioco quella riapertura di credito, che possa dare – io mi auguro – prospettiva al nostro Paese e che possa mettere di nuovo in campo una azione di crescita. Se questo non avverrà, purtroppo, sarà tardi per poterlo fare. Qualcuno diceva anche – e questo è un aspetto che è molto legato proprio probabilmente anche al nostro Meeting -: quando c’è una crisi, poi dopo c’è qualche beneficio da questa crisi, si razionalizzano determinati problemi, quelli che sono fuori dal mercato se ne escono. Ecco, il nostro timore è che se ne escano fuori dal mercato non quelli che hanno qualche difficoltà in più, ma probabilmente che possano uscire dal mercato anche i più deboli, quelli che hanno meno capacità di poter ottenere consenso, quelli che non possono ottenere, anche dall’aspetto dell’azione della propria azienda, quel credito sufficiente per poter andare avanti. Quindi, stiamo attenti a questi problemi, ma cerchiamo insieme… -credo che questo tavolo debba essere assolutamente ripreso, anche con numeri, anche con valutazioni, anche con disponibilità nuove e diverse, per affrontare, io mi auguro, un domani che non sia soltanto fatto di numeri e fatto solo di credibilità e fatto solo di…., ma dietro ci sia anche quel rapporto che, nel nostro Paese, è quello del rapporto con le imprese e con la famiglia italiana, sulla quale si sono costruiti cinquant’anni della nostra storia. Grazie.

GRAZIANO TARANTINI:
Grazie. Grazie presidente. Prima di fare un altro giro di tavolo brevissimo, volevo toccare due punti importanti. Il primo è questo: il tema imprese. Noi sappiamo tutti che la crescita dimensionale non è un dogma, però questo non vuol dire che le nostre aziende non hanno bisogno di crescere – crescere vuol dire dimensione, vuol dire patrimonio – e questo per raccogliere anche quanto diceva giustamente il governatore Draghi. Se un paese occidentale come il nostro vuole i qualche modo competere, ha bisogno soprattutto di valorizzare il cosiddetto capitale umano. Ci sono dati inconfutabili: le aziende piccole fanno più fatica a valorizzare il capitale umano, c’è una sorta di baratto, scarsa qualità, basso salario, stipendio. Noi dobbiamo in qualche modo elevare questa possibilità. Inoltre ci sono dati ormai di banche, di Mediobanca, Centro studi, che le aziende medie sono quelle più redditizie. Dunque, il primo problema sarà il tema della crescita. Secondo aspetto: la crescita dimensionale. Noi non possiamo pensare più all’idea della cosiddetta borsa, perché anche qui ci sono dati: se tutte le aziende fossero quotabili, ben il 95% delle nostre aziende resterebbero fuori, noi siamo in qualche modo aziende destinate a restare bancocentriche, però questo vuol dire ricercare un rapporto nuovo con le banche. Io, a onore di verità, volevo ricordare – adesso sentendo il presidente dell’Unioncamere – quando ci fu Abn Amro che voleva comprare l’Antonveneta, io ricordo che allora tutti i media italiani tifavano per questa acquisizione, finalmente arriva lo straniero e ci viene a salvare. Io facevo notare, come bastian contrario, che quando una banca compra un’altra banca italiana, di territorio, inevitabilmente compra una miriade di aziende italiane. C’è un detto nel mondo bancario: debito piccolo, problema dell’azienda, debito grande problema della banca. Negli Stati Uniti, nel concetto di capitalisation, quando dicono questo, introducono anche non solo il capitale proprio, ma anche i finanziamenti a medio termine. Dunque, inevitabilmente, la banca diventa un partner, un socio dell’azienda. Noi, per non fare discorsi astrusi, da cattedratici oppure da studiosi che dicono la quotazione capitale di rischio… noi non possiamo fare questi ragionamenti, noi abbiamo denunciato qui, dal Meeting, ben 5 anni fa, che nella rivisitazione delle banche, le organizzazioni, le grandi fusioni, dicevamo che il dato dimensionale portava inevitabilmente a una attenzione, minore o maggiore, a certi segmenti produttivi? Era inevitabile. Chi frequenta – io lavoro in Lombardia dal 1986, non conosco azienda che non si sia sviluppata attraverso l’intervento di medio credito regionale lombardo, e noi, in quel caso lì, proprio dal Meeting denunciammo questo. Allora che cosa voglio dire sul fronte delle banche? Noi abbiamo una necessità. Avere banche italiane non è una prerogativa positiva di per sé, però sicuramente un elemento importante, perché le banche sono i primi partner inevitabili di una azienda. In cosa devono cambiare le banche? Qui io parlo dalla parte delle banche – siccome faccio di mestiere, lavoro nel mondo della banche, anche se ho una grande sensibilità per le imprese – dico che le imprese devono crescere, da parte delle banche ci deve essere una attenzione maggiore ad accompagnare le aziende nella fase della gestione del credito. Vi faccio degli esempi. Oggi, anche questa mattina leggevo il Sole 24 ore, diceva: “Finalmente pochi finanziamenti alle piccole-medie imprese, la crescita si è arrestata”; bisogna vedere come vengono dati questi finanziamenti, perché se uno dà un finanziamento a revoca, può benissimo aumentare il plafond a favore delle piccole-medie, diversamente invece è dare i finanziamenti che sono legati ad aspetti di sviluppo di medio periodo. Noi dobbiamo incrementare questo. Questo vuol dire riorganizzare le banche, ahimè, secondo quello che era un modello che noi ritenevamo superato, i cosiddetti crediti speciali. Io ho fatto un’esperienza nella mia banca, noi abbiamo reintrodotto il credito agrario, che vuol dire avere convenzioni con periti agrari, vuol dire conoscere le realtà agricole della Lombardia e della Puglia, del Lazio, dove lavoriamo noi, in qualche modo, per poter accompagnare in maniera adeguata. Dunque, sicuramente le banche devono tornare a una specializzazione diversa per poter accompagnare questa crescita. Ci sono due elementi, comunque, che voglio toccare. Draghi ha detto sia al Meeting, ma anche in un intervento prima dell’estate: “Non servono più banche, ma servono banchieri”; dicendo questo, con questa accezione, voleva dire: servono persone e banche che siano capaci di rischiare. Quando diceva questo, ahimè, noi ci scontriamo però con due aspetti regolatori che negli ultimi anni hanno portato delle grandi rigidità. Il tema di Basilea, anche lì, io lo vedo positivo come una diversa relazione fra banche e imprese, anche se evidentemente contiene elementi di rigidità che penalizzano l’azienda. Voi sapete che tutte le regole che riguardano il patrimonio sono di per sé anticicliche, sono procicliche, quando l’azienda ha bisogno di maggior danaro, le banche in qualche modo vanno in ritirata. Da questo punto di vista, dicevo, ci sono problemi legati a Basilea e ci sono problemi legati anche ai cosiddetti principi contabili. Vi faccio un esempio. Questa mattina il Sole 24 ore parlava di un gruppo noto in Italia, di cui non faccio il nome, però facilmente, come dire, catturabile, che noi tre mesi fa dovevamo far fallire; questa mattina per via di una diversa valutazione dei titoli in portafoglio, questa azienda ha un patrimonio positivo netto, e in qualche modo è ritornata in borsa. L’atteggiamento nostro in cosa è cambiato rispetto a due mesi fa? Nulla. È cambiata una diversa capacità e misurazione di quelli che erano i cosiddetti attivi dati in garanzia alle banche per i prestiti. Dunque, per dire, una materia abbastanza complessa, questa è una rigidità che le banche subiscono, e inevitabilmente, voglio dire, ricadono anche su quelli che sono i moduli di impresa. Se io non faccio gli accantonamenti dovuti, a fronte di sofferenze oppure incagli, se arriva l’autorità di vigilanza e mi viene a controllare, mi multa, dunque non abbiamo questa grande flessibilità. Dunque, io sono sicuramente favorevole che occorrono banchieri, però per poter fare i banchieri bisogna, è necessario anche un contesto normativo che permetta questa nuova, una nuova flessibilità. Dunque, dico questo perché volevo semplicemente far capire che il tema del – come diceva giustamente prima Mussari – risparmio, da noi è difeso dalla carta costituzionale, tutelato; noi sappiamo però che tanti anni fa, diversi anni fa, una direttiva comunitaria ha definito, voglio dire ha rienucleato, ha ridefinito l’attività bancaria come un’attività imprenditoriale tout court. Dunque l’intermediario di per sé si trova sempre da una parte qualcuno che si lamenta perché non ha una remunerazione adeguata rispetto al risparmio che ti dà, dall’altra parte c’è l’imprenditore che dice che gli fai pagare troppo il danaro. Molte volte questi sono due fratelli, allora “cominciate a ragionare e mettetevi d’accordo voi due”. Voglio dire, da questo punto di vista l’attività è sicuramente complessa, un’attività molto difficile, rischiosa, quello che però bisogna fare è seguire queste due direttive con un approccio molto pragmatico e molto italiano, sul fatto che dobbiamo aiutare la crescita imprenditoriale in questo momento e dobbiamo far sì che le banche si rimettano, si riorganizzino con una funzione diversa rispetto a quella che è stata almeno negli ultimissimi anni. Questo non tocca quello che è stato l’aspetto, il nodo dell’ultimo periodo, che le banche italiane, proprio per via di un maggiore controllo da parte dell’autorità Banca d’Italia – ed in questo, voglio dire, non posso che parlarne positivamente – e per un atteggiamento che abbiamo avuto, più precauzionale rispetto a quelli che erano i nostri attivi, non hanno avuto molti dei cosiddetti titoli tossici che hanno portato al disastro che tutti conosciamo. Rispetto a questi due punti, io adesso volevo ridare la parola velocemente ai relatori, con l’ordine di prima. Grazie.

PIERLUIGI STEFANINI:
Sì, in una battuta, anzi due battute, perché l’argomento, come anche le riflessioni che ci venivano proposte sono molto importanti. Cerco di mantenere la linea di positività, anche se la situazione è molto complicata, come sappiamo, è molto difficile. Questo avviso comune, che è stato realizzato nel mese fine luglio-inizio agosto – adesso la data esatta non la ricordo – è molto importante, perché vede una importante triangolazione tra l’associazione delle banche, le associazioni economiche e il governo. E cosa dice con semplicità questo avviso comune, che dà alle banche la possibilità di aderire e quindi poi di partecipare? Di sospendere per dodici mesi le quote di capitale dei mutui che gli imprenditori devono riconoscere alle banche, sospendere per dodici mesi le quote di capitale del leasing, allungare di 270 giorni le scadenze del credito a breve. Le banche si impegnano, a fronte di progetti di aumento del capitale delle singole aziende, di contribuire rafforzando il capitale. Certo, non sono misure risolutive, però è un segnale di convergenza, di collaborazione, di dichiarazione di comuni volontà da metter in campo, così come, prima ho dimenticato di citarlo, ma credo sia molto importante, esiste in Italia una rete di grande validità, di grande funzionalità, che è quella rappresentata dai consorzi fidi, organizzati dalle associazioni economiche, con la partecipazione di tante realtà regionali, enti locali, che ha permesso in questi mesi difficili, di fronteggiare richieste di finanziamento per tante piccole-medie imprese, per altro con un grado di sofferenza molto ridotto, con un grado di rispetto molto importante, che potrebbe essere incentivato ulteriormente. Altre due considerazioni per finire. Credo sarebbe importante incentivare tutte quelle forme che possano aiutare le imprese a essere meglio patrimonializzate, e qui uso – scusatemi, la mia origine non la posso negare – l’esperienza delle cooperative. Le cooperative hanno come loro scopo e come loro natura, l’obbligo e il dovere di reinvestire gli utili nell’impresa, per rafforzarne il patrimonio, e per renderle più forti dal punto di vista del capitale. Allora io credo che sia giunto il momento di incentivare per le imprese tutte questa modalità, perché, dice la Banca d’Italia in una recente analisi di luglio, che l’imprenditore nasce con capitale proprio, quando inizia la propria attività, poi nel tempo usa prevalentemente il debito dalle banche, e questo non va bene. Allora, un altro elemento sul quale lavorare, potrebbe essere quello di incentivare la creazione di nuove imprese, in tutte le forme, private, cooperative, decidete voi quali, per dare anche opportunità ai giovani, ed essere il sistema del credito e delle banche chiamato a stimolare e sostenere questo percorso. Faccio un esempio concreto: la lega Coop, nazionale, promuove mille nuove cooperative nei prossimi due anni nel nostro paese, la nostra banca ha aderito con una convenzione specifica, per aiutare i giovani a organizzarsi in cooperativa, dando delle condizioni di finanziamento particolarmente favorevoli, ovviamente, nella fase di inizio, per permettere loro, soprattutto nelle zone più esposte del paese, a partire dal Mezzogiorno, di avere un’opportunità, di avere l’occasione per promuovere un proprio lavoro. Ultima battuta, io credo che – poi so che dirlo è un conto e quello che avverrà non è possibile prevederlo – tuttavia è essenziale prevedere nel medio termine e sarebbe importante una drastica riduzione della componente finanziaria delle attività economiche a tutti i livelli, a partire dalle banche, perché uno degli elementi che è diventato drammaticamente distorcente – e vengo alla cosa che diceva Giuseppe, e che trovo molto giusta e importante – è stata quella di pensare, parlo per le banche, a partire da cosa hanno fatto nel Stati Uniti, una roba micidiale, che è quella di pensare di fare i soldi attraverso la finanza, e non attraverso l’attività dell’uomo nelle diverse forme. Allora, o ritorniamo lì, ma questo è un punto…guardate, quando si legge sul giornale che due importanti banche americane – lo leggete sul Sole 24 ore, non voglio fare io i nomi – hanno ricominciato a vendere quella roba là, quei prodotti che sappiamo, è una cosa molto grave questa, bisognerebbe impedirlo; così come i prodotti alimentari nocivi sono impediti dalla vendita, così come bisogna impedire prodotti nocivi per i cittadini, per i risparmiatori. Allora – e vengo alla cosa finale – quello che dice Giuseppe Mussari è molto importante, cioè costruire – ed è un processo faticoso, durissimo, però bisogna provarci – riconvertire culturalmente, metodologicamente, operativamente l’attività delle banche. Le banche devono chiedersi: la mia attività a chi serve? A chi rispondo? Che benefici produco? Con chi mi relaziono? Allora, se comincia a interrogarsi, e poi ovviamente con il tempo, capitemi, non sono un rivoluzionario, molto moderatamente riformista, cominciare a farlo, passo dopo passo, credo che questa sia una chiave fondamentale per uscire da questa difficoltà.

FEDERICO GOLLA:
Mah, in conclusione, due commenti a completamento di quanto fino ad ora sentito. È vero che la crescita dimensionale non è un dogma, ma è vero che aiuta molto, aiuta ad aprire nuovi mercati nel proprio paese e aiuta ad andare in altri paesi nel mercato di competenza, e aiuta anche ad avere dei mezzi propri, delle capacità di autofinanziamento diversi da quello della piccola-media impresa. L’avviso comune sicuramente è una grossa boccata di ossigeno, non può che essere applaudito, quanto meno dalla piccola-media impresa, ma non è la soluzione di tutti i mali. L’industria ha bisogno di denaro, il denaro lo danno le banche, c’è una ricetta molto semplice e ovvia, ma che è molto difficile, che sarebbe anche quella di avere il proprio denaro dalla pubblica amministrazione. All’assemblea nazionale di Confindustria il debito verso l’impresa della pubblica amministrazione è stato pubblicamente deplorato dal Presidente del Consiglio e dal ministro Tremonti. Oggi noi abbiamo un debito verso lo stato di 60 miliardi, che è quattro volte il programma di stimolo del governo. Anche questo non è la soluzione di tutti i mali, però anche questo è un modo di fare cassa in modo lecito, e direi anche, tutto sommato, dovuto. Noi come imprese che cosa dobbiamo fare? Dobbiamo imparare ad aumentare la nostra capacità di rischio nella gestione dei progetti complessi. Quando chiediamo più soldi per le infrastrutture, quando chiediamo alle banche di essere più coraggiose nella finanza di progetto, dobbiamo, secondo me, imparare a chiedere noi stessi, a non essere più solo aziende produttive o aziende di prodotti e soluzioni, ma essere anche aziende che sanno gestire il progetto in termini di servizio, perché la finanza di progetto richiede un ritorno dell’investimento proprio dalla gestione. Io penso che se la componente pubblica che non può – oggi è ovvio che non fosse qui – ma non può rimanere assente da questo livello di discussioni, e le due componenti privatistiche, mondo delle imprese e mondo della finanza, convergessero in questa direzione, questo sicuramente potrebbe diventare un elemento di crescita per il paese.

GIUSEPPE MUSSARI:
Mah, davvero per sintesi, però mi sembra che la linea sia comune. Per le banche, secondo me, ci vuole più semplicità e più conoscenza, cioè devono essere soggetti molto più semplici e devono riuscire a capire molto meglio chi hanno davanti. Poi il tema non è tanto quanto sei grande o quanto sei piccolo, il tema è quanto investi dove sei, poi paradossalmente le banche grandi e le banche piccole stanno negli stessi posti, quindi non si capisce perché è una questione dimensionale il fatto di non riuscire a stare dietro ad un territorio. Ci stai se hai quella vocazione lì, ci stai se il tuo conto economico dipende da quella vocazione. E poi devono essere più semplici, cioè c’è una serie di cose di cui si può fare serenamente a meno. Per le imprese ci vuole più trasparenza nei bilanci, perché io capisco che se ti conosco, poi capisco anche se qualche cosa è da una parte o da un’altra, ma in generale non possiamo mandare un messaggio così, cioè in generale dobbiamo mandare un messaggio che le cose devono essere più trasparenti, e ci vuole più capitale, perché si chiama capitalismo, non debitalismo, e quindi ci vuole più capitale e il capitale è l’anima dell’imprenditore, il debito è il supporto al suo sforzo, e non deve mancare mai, non deve essere razionato, e non deve essere discriminato, eccetera, eccetera, eccetera, ma il capitale è il punto di partenza. E dall’altra parte ci vogliono nuove regole, guardate, perché se no, se noi – io non volevo fare il discorso generale sulla crisi, perché poi alla fine questo discorso generale sulla crisi è venuto a noia – però se noi non capiamo che 7-8 anni fa c’è stato un confronto ideologico tra un pezzo d’Europa e un pezzo di mondo anglosassone, che questo confronto lo ha vinto il mondo anglosassone, che noi abbiamo perso culturalmente, che sono venute fuori delle regole per cui proporzionalmente il credito all’artigiano bravo, buono, bello, intelligente che non fallisce mai, proporzionalmente pesa sul patrimonio di una banca più di un prodotto schifoso, perché qualcuno ci ha aggiunto tripla A, non abbiamo capito perché siamo arrivati fino a qui. C’è stato uno scontro di civiltà, fortunatamente senza morti e feriti, in cui un certo tipo di civiltà ha perso sul terreno culturale. Oggi quella sconfitta diventa la sconfitta di tutti, perché quelli che hanno vinto quello scontro, hanno determinato le cause di questo disastro, o almeno una parte di cause di questo disastro, poi le cause sono più di economia reale che di finanza, ma quello è un altro dibattito. E allora oggi, se vogliamo proporre una sfida diversa dopo la crisi, è inutile stare a litigare banche, imprese o chi paga questo conto, questo conto lo paghiamo tutti, lo pagano i 500 milioni di euro circa di sofferenze, di accantonamenti che il Monte dei Paschi ha fatto nel secondo trimestre di quest’anno, 1000 miliardi delle vecchie lire di crediti, che probabilmente non troveremo più, con responsabilità di nessuno, nemmeno nostra che li abbiamo dati al tempo dell’imprenditore che non riesce a ridarceli. E’ il clima, è il momento, è la crisi, dopodiché alla crisi che risposta diamo? Diamo una risposta? La aspettiamo? Cerchiamo di farci meno male? Misuriamo un pochino con il millimetro quanto ti do, quanto vuoi, discutiamo delle commissioni? Va tutto bene. E poi ricominciamo da capo per la prossima? O culturalmente siamo in grado di dire che questo tipo di mondo non ci piace, che questo tipo di regole non sono, come dire, a misura d’uomo, che certi tipi di ricavi non sono ripetibili e non sono proponibili, che le aziende guadagnano per quanto riescono a vendere al loro cliente, per il servizio, la qualità del servizio che danno al loro cliente, non utilizzando i soldi dei loro clienti, come diceva giustamente Pierluigi, per fare investimenti finanziari opachi o oscuri o comunque rischiosi. Guardate che dire questo vuol dire ripensare profondamente quello che siamo. Discutiamone, ma con serenità, perché da questo punto di vista le banche hanno, secondo me, il dovere prima ancora che l’interesse, di ripensarsi profondamente, e di modificarsi, ma senza l’assalto a forte Apache, perché, come dire, come non c’era il palazzo d’Inverno, non c’è un punto che scardinato quello hai risolto il problema, magari, si andrebbe tutti lì, in una serata si risolverebbe il problema. E’ dentro la testa di tutti noi che le cose devono cambiare, e allora forse qualche passo in avanti lo facciamo.

FERRUCCIO DARDANELLO:
Credo che il tempo sia già scaduto, stia per scadere, solo due piccole considerazioni. La prima. Un po’ mi preoccupa quando sento dire che ci saranno soltanto i numeri nel capitale delle nostre imprese che otterranno credito dal mondo bancario, perché l’endemica sottocapitalizzazione delle nostre imprese rende il nostro paese diverso dagli altri. Una delle preoccupazioni è che non riusciremo nel breve periodo, nel tempo necessario a costruire le azioni per una ripresa, ad avere una capacità culturale anche di adeguarci ad altri sistemi, a metterci in condizioni di avere quei numeri sufficienti che possono, forse, in una logica bancaria più internazionale, servire. Ma per compensare, io sottolineo tutto questo processo – mi piace ridirlo al presidente del sistema delle camere di commercio italiane, ci sono alcuni amici presidenti, come l’amico Drudi, qua in prima fila, a rappresentare questa idea – tutto il lavoro che noi stiamo facendo proprio per alleviare il rischio di impresa, proprio nei confronti delle banche, dando un sostegno straordinario ai confidi del nostro paese. Pensate, in questi primi dei mesi dell’anno, abbiamo messo a disposizione complessivamente oltre 85 milioni di euro per foraggiare, per incrementare, per incentivare questa garanzia da poter offrire poi al sistema bancario, per far sì che si aprano queste porte, per far sì che si mettano in campo queste nuove disponibilità economiche. Ebbene, nonostante tutto, e nonostante tutti questi passaggi, e nonostante questa garanzia che ulteriormente è cresciuta, ecco, le porte del sistema bancario, caro Mussari, non si stanno aprendo, ci sono due milioni di imprese che stanno soffrendo in questo momento. Io non parlo della sua banca, ma parlo in termini generali, quindi c’è una situazione oggi che non è di grande prospettiva per dare benzina a quel motore della ripresa. Ecco, questo bisogna, credo, onestamente e realisticamente metterlo in campo. Quindi dobbiamo trovare meccanismi che portino probabilmente a garantire al sistema bancario, al suo conto economico, i risultati che probabilmente gli servono, ma qui c’è bisogno anche che voi facciate qualche altra riflessione. Io sto vedendo che, nonostante tutto, state aprendo sportelli in ogni angolo del nostro paese, a casa mia ci sono più sportelli bancari che panettieri, allora mi sto chiedendo come è possibile, ma è la verità, non ho fatto solo una battuta, è la verità, quindi si stanno ancora aprendo sportelli – che non so a che cosa servano e a chi servano – e probabilmente vanificando, invece, qualche altra azione che probabilmente in questo momento potrebbe esser più utile all’economia italiana per riprendere il suo cammino. Grazie di avermi ascoltato.

GRAZIANO TARANTINI:
Ringrazio i relatori, tutti, per la chiarezza, per il modo diretto con cui hanno parlato. Volevo riprendere solo un punto che toccava prima Mussari e che mi sembra fondamentale, cioè il problema nostro, quella sfida di cui parlava prima, persa in favore di culture diverse dalla nostra. Dicono che noi dobbiamo meno parlare del modello italiano, le piccole-medie imprese, un po’ da libro cuore, dobbiamo in qualche modo far diventare questo modello un paradigma, che ha una sua dignità culturale: senza un riscatto culturale gli aspetti normativi arrivano sempre con il fiato corto. Allora, da questo punto di vista, noi abbiamo, voi sapete, una legge maledetta, che si chiama “la legge comunitaria”, noi siamo sempre a recepire direttive, il 99% delle leggi con impatto sull’economia derivano da direttive comunitarie, a loro volta sono in qualche modo contaminate oppure recepiscono accordi di tipo internazionale, soprattutto sull’aspetto finanziario. Se noi arriviamo impreparati lì, e in modo distratto, a dicembre, facciamo una legge comunitaria che recepisce tutto, in qualche modo andiamo sempre a prenderci qualcosa di cui dopo non siamo in qualche modo, non siamo stati gli ideatori, e dopo ne siamo anche cattivi gestori. Dobbiamo avere un ritorno di orgoglio a quello che è il nostro modello, però non da libro cuore, devono diventare fatti normativi, procedurali, organizzativi a livello internazionale. Questo è consapevolezza politica e consapevolezza anche di tutti noi. C’è un punto secondo me importantissimo: per la prima volta il tema del risparmio, della crisi, dell’impresa, è diventato un fatto collettivo, di tutti, perché lo avvertiamo adesso che è un problema che tocca tutti e non è un qualcosa che possiamo rimandare a degli specialisti, dunque c’è un problema sì di cultura finanziaria, non specialistica, ma di capire che il nostro modello italiano può essere il modello migliore, perché è quello più mitigato, quello che ha creato un certo equilibrio, una certa economia sostenibile, dove non ci sono state persone che erano avanti cento chilometri e altri cento dietro. Abbiamo in qualche modo difeso un modello che ci ha portato, nella sua particolarità, a un certo benessere. Questo benessere va difeso, oggi, con una consapevolezza diversa, e con una ripresa di coscienza che sia prima culturale, perché vuol dire premiare il lavoro, chi fa. C’è chi lavora, chi cambia, chi fa vivere meglio tutti, dobbiamo in qualche modo ripensare a questo. Io non sono demonizzatore della finanza, perché io sono uno che opera nella finanza, vi posso assicurare che ci sono anche qui strumenti che sono molto utili allo sviluppo. Voi pensate soprattutto al problema dei derivati, oggi parlare dei derivati è come parlare della droga, dell’eroina, vi posso assicurare che ci sono dei derivati, quelli cosiddetti a struttura semplice, per gli addetti ai lavori, che hanno una grande utilità. Un’azienda che dipende molto dal petrolio, e non si dà coperture adeguate, inevitabilmente, secondo me, è gestita male. Difatti un problema delle nostre imprese, al di là di quello dimensionale, è che abbiamo una grande capacità imprenditoriale e scarsa capacità gestionale. Per compensare questo aspetto dobbiamo, in qualche modo, far sì di assorbire risorse importanti. La finanza perché non è scomparsa e fa capolino di nuovo? Perché la finanza a livello internazionale ha assunto, ha assorbito le migliori intelligenze, non è che sono stati gli ultimi delle classi delle università, sono stati i migliori. Oggi, però, il nostro compito in seguito alla crisi, siccome questa crisi ci dice che non tutto di noi è negativo e non abbiamo bisogno di santoni internazionali per farci indicare le strade da seguire, è dare dignità a questo nostro modello, dignità vuol dire normative, vuol dire strumenti, vuol dire organizzazione, tutto quello che ne consegue. Grazie mille e arrivederci.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

28 Agosto 2009

Ora

15:00

Edizione

2009

Luogo

Sala A2
Categoria
Incontri