ALLA RICERCA DEL PADRE

Incontro con Michael D. O’Brien, Pittore, Romanziere e Saggista. Introduce Stefano Alberto, Docente di Introduzione alla Teologia all’Università Sacro Cuore di Milano.

 

MODERATORE:
Buona sera a tutti. Il fatto che siete qui numerosi, così numerosi che tanti non potranno entrare in sala, mi dispiace ma non mi sorprende, vista l’eccezionalità della possibilità che c’è offerta questa sera. E’ molto di più della presentazione dell’ultimo libro di Michael D. O’Brien, “Il libraio”, è la possibilità di incontrare una persona che ha molto da dire alla nostra vita e che mi permetto di riconoscere come compagno del nostro cammino umano. Tantissimi di voi, immagino, hanno letto l’anno scorso il libro “Il nemico” che racconta la lotta di frate Elia contro l’Anticristo. Ma questa sera non siamo qui ad esaudire le eventuali esigenze di sensazionalismo, non parleremo di Anticristo. Ci concentreremo, a partire da questo romanzo “Il libraio” che è un “prequel” cioè racconta la storia precedente ai fatti descritti ne “Il nemico” su una questione fondamentale; questa questione è sintetizzata nella prima pagina della edizione italiana, mirabilmente tradotta da Edoardo Rialti che voglio ringraziare per il suo lavoro, la frase è la seguente: “per coloro il cui sacrificio è nascosto nel cuore di Dio, coloro le cui piccole scelte spostano la bilancia del mondo”. Per quasi 500 pagine di questo romanzo, che è soprattutto un romanzo di idee, la vicenda si svolge nelle piccole e povere stanze della casa di Pavel Tarnovski, il libraio che una mattina di settembre del 1942 salva letteralmente dalla caccia delle SS David Sheffer, il giovane ebreo sfuggito dal ghetto di Varsavia. Inizia una vita in comune, inizia una scoperta della reciproca umanità, inizia soprattutto la ricerca profonda delle proprie radici, della propria paternità, fino al fatto che il sacrificio di Pavel darà una nuova vita e un nuovo compito a David. David che poi diventerà frate Elia. Mi impressiona, e dico poi solo questo ancora, la consonanza profonda di questa intuizione decisiva, così come viene prendendo forma nel romanzo, che nessuno genera, nessuno scopre il suo posto nella storia se non è generato. Quante volte don Giussani ci ha ricordato questa dinamica di paternità e di figliolanza che è alla radice della propria identità. Ieri Monsignor Lambiasi, nell’omelia, ricordava questa profonda osservazione del Cardinale Ratzinger: “quello che io sono non deriva ultimamente da quello che io faccio ma da quello che ricevo”. Mi impressiona la profonda consonanza della vicenda umana dei protagonisti di questo romanzo che tocca la nostra vita, e la testimonianza. Questa mattina ho potuto visitare le due mostre, secondo me fondamentali, del Meeting di quest’anno: la mostra dei carcerati, dove la condizione in apparenza più contraddittoria diventa circostanza di scoperta della propria umanità e la mostra bellissima, che è piaciuta tantissimo ai nostri amici russi, in cui emerge la personalità di Solzenicyn, un uomo che è riuscito a spostare la bilancia del mondo non con grandi proclami ma riscoprendo, addirittura accettando, di scendere nel profondo dell’inferno, accettando di guardare la dimensione del male, molto presente nel romanzo, il male non solo fuori di noi, come ricorda quella frase in cui Solzenicyn dice: “ciascuno di noi potrebbe diventare il boia”. Gli uomini che diventano protagonisti della storia sono uomini che sanno riconoscere il male e la sofferenza non fuori di sé ma innanzitutto nel mistero della propria umanità ferita, a attraverso il sacrificio vero dell’affezione a sé. La condizione del sacrificio, la condizione di croce, riescono a scoprire una paternità vera. Lascio la parola a Michael D. O’Brien, ricordando semplicemente che è nato a Ottawa nel 1948. e’ un pittore autodidatta; lavora come artista professionista dal 1970; è autore di moltissime pubblicazioni, moltissimi saggi. Ha scritto numerosi libri, soprattutto appunto la serie di romanzi in 6 parti “Children of the last days” “Figli degli ultimi giorni” di cui in italiano sono disponibili i primi due “Il nemico” e “Il libraio”. Ma usciranno, nei prossimi anni, anche gli altri. Vive nell’Ontario con la moglie e sei figli e questa sera, per questo lo ringraziamo, ha voluto condividere con noi un tratto della grande avventura della vita. Thank you very much.

MICHAEL D. O’BRIEN:
Sono veramente colpito dalla moltitudine qui in sala, nel mio paese quando partecipo ad un convegno in genere ci sono solamente 20, 30 persone, e la maggior parte sono membri della mia famiglia, ma vedo che questa sala, da un punto di vista molto profondo, è piena di membri della mia famiglia comunque. Siete la mia famiglia. Non conosco molte parole in italiano ma devo raccontarvi una storia. Prima di sposarmi, quando ero giovane, lavoravo come operaio in un piccolo villaggio sulle montagne del British Columbia, e lavoravo con un altro giovane, un santo lo chiamerei, l’ ho conosciuto soltanto per un periodo molto breve della mia vita. Stavamo lavorando insieme un giorno, e dopo una pausa, stavamo bevendo un caffè, si rivolge a me, e mi dice: “Michael”, io stavo pregando e ho sentito lo Spirito Santo che mi parlava, ma non in inglese, ho sentito queste parole: “il silenzio è la voce dell’amore”. Né il mio amico né io sapevamo cosa significassero esattamente quelle parole, però eravamo, devo dire, giovani di talento e siamo riusciti a capire che una delle parole era “silenzio” appunto, e l’altra era “amore”. Ma eravamo confusi, perché queste parole? E perché in una lingua che a noi sfuggiva? British Columbia, non so se avete presente, pochissimi dizionari italiano-inglese, però ci siamo trascritti foneticamente questa frase e nei successivi 35 anni questa frase continuava a tornarmi in mente, e poi ho trovato un dizionario di italiano, l’ho tradotta – eravamo sicuri che fosse italiano – , e mi sono innamorato di questa lingua, anche se non l’ho mai studiata, me ne sono innamorato, mi sono innamorato della sua musicalità, della sua poetica, però ancora non riuscivo a capire se fosse stato lo Spirito Santo, un angelo… Questa frase misteriosa era arrivata al mio amico e a me, il silenzio è la lingua dell’ amore, il silenzio è la voce dell’ amore, e col passare degli anni, con la maturità, con la vecchiaia, come artista mi sono chiesto che cosa siano le parole. Le parole hanno forza, pensate alla frase “ti amo”, pensate alla frase “ti odio”, due brevi parole per ciascuna frase che hanno un contenuto spirituale. Che cosa sono le parole, che cos’è la lingua? La lingua vera, la vera conversazione, l’atto del parlare derivano dal mistero, il mistero del silenzio di Dio. Ma non è il silenzio che va a sopprimere le parole, non è questo silenzio. E’ il silenzio sacro della presenza totale, dell’attenzione totale, un cuore per un altro. Naturalmente uno di questi cuori è immenso, molto immenso, ma è una persona questo cuore, è nostro padre, è amore, è bellezza. Questa sera voglio parlare di come possiamo andare alla ricerca del Padre, per conoscerlo meglio. Prima di farlo, vorrei citare brevemente tre passaggi da un intervento del cardinale Joseph Ratzinger a Palermo, 15 marzo 2000. Il cardinale Ratzinger parlava della paternità, del mistero della paternità, e nelle sue parole c’è sia una promessa che un avvertimento, un monito, ed era quello che sarebbe diventato il prossimo Papa. “La paternità umana ci anticipa ciò che egli è, ma quando questa paternità non esiste, quando è assente, quando viene vissuta solamente come fenomeno biologico, senza la sua dimensione umana e spirituale, allora ogni affermazione su Dio, il Padre, è priva di significato, è vuota. La crisi della paternità che viviamo oggi è un elemento, forse il più importante, è un elemento che minaccia l’uomo nella sua umanità”. Sembra una dichiarazione molto estrema, ma è estremamente profonda, una lettura molto profonda della condizione dell’uomo moderno. Il cardinal Ratzinger prosegue: “la scomparsa della paternità e della maternità si rifà alla scomparsa del nostro essere figli e figlie”. In questo modo il cardinale stabilisce quello che è il contesto di questo problema personale dell’uomo moderno, è un contesto storico ma è anche il contesto della salvezza della storia. Il cardinal Ratzinger ci da un monito, innanzitutto riflette sul nome di Dio nelle Scritture. Dio è una persona, Dio ha un nome, Dio quando vede l’umanità vede persone. Il cardinal Ratzinger prosegue poi e parla del cosmo in cui viviamo, del mondo in cui viviamo, e lo raffronta con i falsi regni dell’ anticristo, l’anticristo, che ci viene rivelato nel libro dell’Apocalisse, dove ci viene data una visione del futuro. Il cardinal Ratzinger ci dice: “l’Apocalisse ci parla di Dio, dell’antagonista di Dio, la Bestia. Quest’animale non ha un nome, non ha un nome, ha un numero”. E per capire che cosa significhi, il cardinal Ratzinger ricorda l’esperienza drammatica dei campi di concentramento della seconda guerra mondiale e dice: “nel loro orrore hanno cancellato, cancellato, volti e storia, nomi, cancellato persone. Hanno trasformato l’uomo in un numero, l’uomo non è che un numero, è un pezzo di un macchinario, l’uomo non è che un pezzo di un macchinario, di un ingranaggio, non è più che una funzione. Questo è lo spirito dell’Anticristo, questa è la mente della Bestia, la Bestia che combatte l’umanità dall’ inizio, dalla comparsa dell’uomo nel giardino dell’Eden fino alla fine dei tempi”. E infine un’ultima citazione, sempre dall’intervento del cardinal Ratzinger a Palermo: “Ai nostri giorni non dovremmo dimenticare che queste mostruosità della storia hanno prefigurato il destino di un mondo che corre il rischio di adottare la stessa struttura dei campi di concentramento”. Questo se sarà accettata la legge universale della macchina, se verrà accettata questa legge come è del tutto normale e razionale, e se mi consentite la parafrasi, quello che il cardinal Ratzinger sta dicendo è che a quel punto il mondo diverrà un unico campo di concentramento. E aggiunge il cardinal Ratzinger: “Le macchine che sono state costruite impongono questa stessa legge, questa stessa legge che era adottata nei campi di concentramento. Secondo la logica della macchina, secondo i padroni della macchina, l’uomo deve essere interpretato da un computer, e questo è possibile solamente se l’uomo viene tradotto in numeri. La Bestia è un numero, un essere, certo, ma un numero, e ci trasforma in numeri. Dio nostro Padre invece ha un nome, e chiama ciascuno di noi per nome. E’ una persona, e quando guarda ciascuno di noi vede una persona, una persona eterna, una persona amata”. Potrei continuare a commentare, a soffermarmi su queste affermazioni, su quest’intervento del cardinal Ratzinger, è un tema fondamentale questo della paternità sul quale ritorna spesso. Ma non voglio soffermarmi su questo tema in questa sede, volevo soltanto fare queste citazioni all’inizio della mia presentazione, per raccontarvi quella che è la vera storia dell’ uomo. Noi siamo figli e figlie, non importa ciò che ci dice l’era moderna, noi non saremo mai né potremo mai essere “cose”. Questa è la definizione su cui poggia il materialismo in tutte le sue manifestazioni, dal materialismo marxista a quello fascista, al totalitarismo del nuovo materialismo, al consumismo, “homo sine deo”, uomo senza Dio, l’uomo Dio di se stesso, l’uomo autonomo. Noterete per altro che l’uomo autonomo non è poi così felice, è un orfano, non ha mai conosciuto suo padre e potrebbe anche credere di non averlo mai avuto un padre. Il problema quindi assume più dimensioni, sociale, emotiva, psicologica, spirituale. Immenso è il problema, dovrei leggere un intero libro per parlarne. Comunque, quello che vorrei fare questa sera è raccontarvi tre storie, storie che riguardano la mia vita personale. Io sono irlandese, di origine irlandese, ecco perché ho questo “diritto” di trasformare le storie piccole in storie lunghissime. Allora vi chiedo di avere pazienza, perché non riesco mai a fermarmi. Cercherò comunque di non deludervi troppo. Ero un giovane padre, sposato da poco, io e mia moglie pregavamo moltissimo, fin dall’inizio avevamo deciso di rimanere sempre completamente aperti a quello che era il concetto della vita e col tempo abbiamo avuto otto figli, due sono morti alla nascita, sono stati battezzati e sono in Paradiso, però abbiamo sei figli in vita. E così è cominciata questa opera di profonda educazione. Io sono stato presente alla nascita di ciascuno dei miei figli e all’interno di quell’esperienza straordinaria ho appreso molto non solo della vita ma anche di me stesso. Con la nascita di ciascuno dei miei figli io riuscivo a sorprendermi, si sorprendeva anche mia moglie, noi scoppiavamo a piangere spontaneamente, e ridevamo anche contemporaneamente, lacrime e grida di gioia, anche se il dolore era stato fortissimo. E non c’erano parole, non riuscivamo ad articolare alcuna parola, era semplicemente uno scoppio che veniva dal cuore, dall’anima, questo mistero fenomenale che ci veniva messo fra le mani, questa piccola persona, risultato in parte nostro, del nostro amore, del sacramento, e in parte anche di nostro Padre nel cielo, un miracolo di co-creazione, un miracolo davanti al quale non si può che rimanere in silenzio, stupiti, e piangevamo, ed era un pianto di stupore e di gioia, e una risata spontanea di gioia. Questa cosa mi ha incuriosito sempre, e c’ho riflettuto negli anni, forse mi sono detto perché è il primo figlio. Non è assolutamente così, perché alla nascita di ciascuno dei miei figli questa cosa si ripeteva, questo scoppio spontaneo del cuore e dell’anima. Ci sono genitori qui in sala? Molti, allora potete capire se avete figli. Ogni figlio è diverso dagli altri, ognuno ha la sua personalità, carattere, e spesso questo carattere, questa diversità esiste anche nell’utero, e si manifesta sempre di più a mano a mano che i bambini crescono. Ci sono bambini che prendono una determinata direzione, i problemi sono diversi, serve la saggezza di Salomone ogni giorno della settimana per poter essere un bravo genitore, e per altro si comprendono meglio i propri limiti come essere umano, si arriva a toccare quello che è il limite della capacità di amare, non si dorme la notte, i bambini si ammalano, le difficoltà economiche, la povertà materiale. Fin dall’inizio io sono sempre stato un pittore di arte cristiana, lo sono ancora, è solo per caso che sono diventato un romanziere, sono soprattutto un pittore, mi impegno appunto nell’arte cristiana per Chiesa americana e altrove. Immaginatevi quindi crescere una famiglia numerosa, il che soprattutto al giorno d’oggi viene considerato totalmente folle, ma follia dopo follia, artista, famiglia numerosa – tra l’altro all’interno di questa follia ero per di più un artista di arte cristiana, non so quanti fenomeni di questo tipo possiate trovare al mondo -, abbiamo imparato, mia moglie ed io, la mia famiglia, a lavorare sodo, e a dipendere in tutto e per tutto da Dio. Ogni cosa ci viene data da Dio e questo grande dono della mancanza di sicurezza materiale ci ha formati, ci ha plasmati come l’argilla, a volte veramente ci siamo sentiti come vasi a pezzi, spesso devo dire, però poi questo dono ritorna, ci riplasma, e ci incita a continuare a lavorare, ad amare, a dare la vita, non rinunciare, non smettere, non rinunciare mai, mai, mai, mai rinunciare. Anche quando sembra pura follia. Questa è la prudenza, la prudenza santa. Tutto ci invita a dare la vita, ma dare la vita costa, costa creare il regno della vita, in un modo o nell’altro richiede sacrifici. Cattolico, credente, un esponente tipico della mia generazione, ma non ero preparato, non ero preparato a questa vita di enormi responsabilità, di complessità, di sfide a più livelli, e spesso dal profondo del mio cuore gridavo a Dio, non lasciavo che nessuno vedesse le mie lacrime, però ho imparato a piangere, ho imparato a rivolgermi a Lui quando ho paura. All’inizio è stato molto difficile per me, soprattutto come uomo, uomo intendo sesso maschile, che cerca di essere forte, responsabile, un bravo marito e padre cattolico, per me era molto difficile affrontare le mie debolezze umane e le mie lacune. A volte non riuscivo neanche a nutrire la mia famiglia, ho dovuto elemosinare aiuto, veramente umiliante, però negli ultimi trent’anni ci sono stati molti miracoli, molte opere salvifiche da parte di nostro Padre. Sono stato molto attento a tutelare i miei figli da quella che era la mia lotta interiore, la mia lotta che voleva riporre fiducia piena in Dio. A volte il cuore per poter crescere deve soffrire, credo che in effetti sia inevitabile, il cuore si espande, cresce attraverso la sofferenza, pensiamo di morire, e in effetti in realtà si rinasce, non si muore, è soltanto col tempo e con l’esperienza che lo si riesce a capire, è scritto nella nostra carne, nel nostro cuore, magari lo sappiamo razionalmente ma è difficile crederlo nel nostro cuore. La vita però è un grande insegnante, lentamente, a poco a poco impariamo che le braccia del Padre sono sempre attorno a noi. Ho tre storie da raccontarvi, ok, tornerò indietro. La povertà, la stanchezza, la malattia, le mancanze continue all’aumentare della famiglia, però io tutto questo lo tenevo nascosto ai miei figli, soltanto mia moglie poteva capire la mia sofferenza, io non ero abbastanza per la mia famiglia. Però io trovavo il tempo per dedicarmi a questa mia famiglia, per venti, trent’anni ho letto le storie della buona notte e all’ora di andare a letto io, tutte le sere, mi recavo nella loro stanza, c’erano tutte queste cuccette, avevamo case sempre molto piccole, quindi i letti erano a castello, poche stanze, facevo il segno della croce con l’acqua santa, con l’olio benedetto sulle fronti ogni notte, recitavo una piccola preghiera tenendo la mia mano sul capo dei miei figli, abbraccio, bacio, buona notte, sogni d’oro, ci vediamo domani mattina. Partivo dal più vecchio fino al più piccolo, il mio più piccolo in realtà è una splendida bambina, Angela Mary, una personalità esuberante, molto diversa dalle altre sue sorelle, una piccola madre, lo è sempre stata da quando era bambina, si prendeva cura delle cose degli altri come una madre, quindi arrivavo da lei come ultima, la benedivo e alla fine della giornata ero così stanco, lei poi tra l’altro dormiva sul letto più in alto, quindi la mia testa era praticamente allo stesso suo livello, qualche volta ero così stanco che appoggiavo la mia testa sul suo letto a fianco a lei mentre la benedivo e lei mi guardava, da quando aveva due anni fino a cinque, sei, sette anni di età. Non succedeva spesso, però non era neanche una ricorrenza così infrequente. Una sera mia figlia mi ha detto: “papà, non vorresti che ti benedicessi io?”, e la risposta è stata “certo, certo, per favore, per favore, mi piacerebbe la tua benedizione”, allora lei mi ha sorriso, si è alzata sul letto, io ancora ero col capo appoggiato sul materasso e lei mi ha fatto il segno della croce sulla fronte, ha preso l’acqua santa della benedizione che le avevo impartito io sulla fronte e ha usato quella per benedirmi, e mi ha benedetto con questo piccolo sorriso, e poi mi ha detto: “vuoi che dica una preghiera per te papà?”, “certo Angela, per favore”, allora ha messo una mano sul mio capo, un momento dolcissimo, di grande serenità e pace, io ero troppo stanco per pensare a nuove parole per una preghiera, ha tenuto la sua mano sulla mia fronte per molto tempo e a quel punto mi sono incuriosito, ho aperto gli occhi e le ho chiesto “ma cosa sta succedendo?”, e ho visto il suo volto, il suo volto con gli occhi chiusi molto fermo, silenzioso, poi ha tolto la mano dalla fronte e mi ha detto “buona notte papà, ci vediamo domani mattina”, e me ne sono andato. Credo di essermi allontanato da lei essendo un uomo diverso, e da quella volta abbiamo stabilito questo rituale, io pregavo per lei e lei pregava per me. A questo punto però la mia curiosità si faceva sempre più forte, mi chiedevo “che cosa dirà a Dio di suo padre?”. Non gliel’ho chiesto però, perché era un atto così discreto, delicato, una questione fra la sua anima e Dio, non volevo assolutamente sondare questo stato d’animo nonostante la mia curiosità. Qualche mese dopo, una notte, dopo che aveva pregato per me, mi ha detto “papà, hai bisogno di sapere quello che chiedo a Dio di darti perché questa cosa ti arrivi davvero?” e io le ho detto “no Angela, non ha importanza che io lo sappia, perché Dio ti sente, ed è generoso, è estremamente generoso se gli chiedi qualcosa”, “beh, meglio così” mi ha detto, e le ho detto “sono molto grato per le tue preghiere, voglio che tu lo sappia, Angela, io ho visto il risultato delle tue preghiere”. Mi ha messo la mano sulla spalla – sette anni – e mi ha lanciato uno sguardo di grande empatia, uno sguardo materno, e mi ha detto “lo so papà, ho visto un grande miglioramento”. E’ ancora così, oggi in Canada è la nostra piccola anche se ha diciotto anni, è entrata come studentessa in un college cattolico in Canada. Mio figlio maggiore che ha trentatré anni è entrato in un noviziato in Canada e mia moglie ed io oggi dopo trentaquattro anni di matrimonio abbiamo fatto un passo indietro e abbiamo riguardato la nostra vita, ci siamo chiesti “cosa siamo riusciti a fare, com’è accaduto tutto ciò?”. Ci piace scherzare, ci piace citare gli antichi filosofi greci, c’è un famoso detto di Ippocrate che dice “la vita è breve, l’arte è lunga”, mia moglie ama dire in realtà che la vita è breve ma il fatto di essere genitori dura molto. Ma siamo qui, e la vita se n’è andata rapidamente, due dei nostri figli sono sposati, abbiamo dei nipoti, uno ci ha dato dei nipoti, e adesso è arrivata una nuova generazione di misteriosi esseri umani nella nostra vita che ci considerano la loro famiglia. Abbiamo due nipoti, il più grande si chiama William e ha due anni e mezzo, molto intelligente, il nipote più bello del mondo, ho tantissime fotografie se le volete vedere, dopo, dopo, alla fine della conferenza, chiedo scusa a tutti i nonni per altro, è un bellissimo bambino, e suo fratellino più piccolo è un altro miracolo. Ma la cosa grandiosa è che sono due personalità completamente diverse. William è estroverso, Hugh il fratellino è veramente introverso, Hugh osserva per ore la realtà seduto in braccio. William dal momento in cui si alza la mattina fino a quando crolla privo di coscienza la sera è sempre in movimento. Però entrambi il mondo lo guardano con gli occhi dei bambini e in effetti gli occhi dei bambini sono sempre ben aperti, assorbono ogni esperienza, non pensano all’esperienza, l’esperienza si accompagna sempre ad un senso di stupore, di meraviglia, tutto è nuovo ai loro occhi. Due o tre settimane fa ho avuto un’esperienza con mio nipote maggiore che mi ha insegnato qualcosa. Questo ragazzino è un ragazzino con una grande sicurezza, è amato dai genitori, ha un senso dell’avventura, si arrampica sugli alberi, si tuffa sott’acqua per vedere cosa ci sia sul fondo, guarda, guarda le cose. E due o tre settimane fa mia moglie ed io ce ne prendevamo cura mentre i genitori dormivano nel pomeriggio, mia moglie è andata a preparare la cena, il bambino dormiva, William giocava con i suoi giocattoli ed io lo osservavo, poi è suonato il telefono –i telefoni suonano sempre- tutti avete spento i cellulari in sala, per altro?, adesso siamo sempre collegati, è la distruzione della vita personale, chiedo scusa per questa digressione, è comunque il tema per un’altra conferenza, comunque è suonato il telefono, una lunghissima telefonata, per altro indispensabile, e quando ho riattaccato mi sono accorto che William non c’era più. Ho sentito un pianto, un pianto lontano, allora sono uscito per veder dove fosse e ho visto la nostra macchina con William dentro, con le mani sul finestrino, con la faccia cianotica che gridava e piangeva. Immagino che fosse uscito, fosse salito in macchina – ama l’avventura – e si è chiuso dentro la macchina e non riusciva a capire come aprire lo sportello. Credo che fosse rimasto in quella condizione di puro terrore per almeno trenta minuti, un prigioniero in quella macchina, non l’avevo mai visto in quella condizione, terrore, puro terrore, la sofferenza di quello che poteva essere un vero abbandono. Le porte erano chiuse, sono dovuto rientrare in casa a cercare le chiavi della macchina, non le trovavo, ho cominciato a cercarle, infine le ho trovate, sono corso fuori, ho aperto lo sportello e spero che mi perdonerete ma William nella sua sofferenza, nella sua paura aveva fatto pipì, si era sporcato completamente, la macchina era del tutto sporca, aveva perso il controllo di vescica e intestino, c’era questa personcina, questa anima che in un momento di puro terrore e di umiliazione era lì, allungava le braccia verso di me. Questo gesto universale che stava facendo, che non ha tempo, un gesto di preghiera che credo faccia parte della nostra natura, è il desiderio interno di trascendenza, di salvezza da parte del Padre nostro. Allora io l’ho abbracciato, mi sono sporcato anch’io naturalmente, e William continuava a piangere, io lo tenevo in braccio. Nulla di quello che io potessi dire con le parole poteva in qualche modo calmarlo, cercavo di calmarlo in ogni modo. Col tempo è stato il messaggio fisico di abbracciarlo che gli comunicava questa sicurezza, che ormai era salvo. Ho portato William a casa, l’ho lavato, non appena calmo l’ho lavato, tutto pulito, tremava ancora. L’ho rivestito, ho ristabilito un po’ la sua dignità e a quel punto un sospirone dal profondo della sua anima, un sospiro che è vecchio come l’umanità, è il sospiro profondo che sta a indicare il senso di rifugio, di salvezza, il nostro desiderio di un paradiso infine, che è scritto nella nostra natura. L’altra storia che voglio raccontarvi riguarda una situazione completamente diversa, un paio di minuti, cercherò veramente di essere breve. Nel 1999 sono stato in Russia e ci sono tornato anche nel 2001, ero a S.Pietroburgo e ho visitato l’Hermitage, famosissimo museo. In quel museo c’è uno dei maggiori capolavori spirituali del nostro tempo, “Il ritorno del figliol prodigo” di Rembrandt. Io avevo visto delle riproduzioni de “Il ritorno del figliol prodigo” di Rembrandt, ma non ero pronto per quest’opera, ne avevo visto solo delle piccole riproduzioni invece il quadro è grandissimo, le figure sono rappresentate a dimensione d’uomo, forse ancora maggiore. Era la fine dell’inverno quando ho visitato l’Hermitage, non c’erano molti turisti. Ogni giorno alle tre mia moglie ed io preghiamo per i defunti, per la conversione delle anime, la nostra stessa conversione. Ero in Russia da solo davanti a questa enorme figura della pietà divina, e alle tre ho pregato per la pietà, e non c’era nessun altro nella sala del Rembrandt. Alla fine della preghiera ho aperto gli occhi e ho visto che c’era qualcuno vicino a me, un giovane, e per un momento ho avuto una sensazione di irritazione, risentimento, sono le frontiere esterne, i limiti della mia capacità di amare, volevo essere da solo per la mia esperienza spirituale. Questo giovane era rimasto lì con me, forse aveva diciotto anni, era giovane, vestito molto poveramente, scarpe senza lacci, niente calzini, nemmeno ben profumato, tutto denotava povertà. Il volto non era bello, molto primitivo, e magari avrei potuto pensare che era un giovane senza idee. E’ la nostra presunzione, ancora una volta sono i limiti della mia capacità di amare. Noi a volte pronunciamo dei giudizi frettolosi. Era alla mia sinistra. Riuscivo a vedergli gli occhi e ho pensato che non ci fosse molta intelligenza in quello sguardo, però era una presenza misteriosa: mi chiedevo perché non stesse lavorando, perché stava ammirando il capolavoro di Rembrandt e alla fine ho capito. Lui non se ne andava, io non me ne andavo, rimanevamo lì e mi sono reso conto che il gesto di preghiera russo è di rimanere in piedi, le braccia abbandonate lungo i fianchi, le mani appoggiate lungo le cosce in uno stato di piena attenzione e sono rimasto…, e ho capito finalmente che stava pregando. Io ero un cristiano dell’Occidente e invece di pregare avevo formulato un giudizio. Chi era più vicino a Dio? Questo povero, questo ragazzo povero, forse era più vicino a Gesù di quanto non lo fossi io. Io forse sono il fratello maggiore della parabola mentre lui probabilmente era il figliol prodigo, il più amato, e ho visto in silenzio che le lacrime gli scendevano sul volto. Si è girato verso di me, si è inchinato ed è andato via. Due anni dopo sono ritornato a vedere quel capolavoro e mi sono ritrovato alle tre di nuovo da solo e questa volta è successa una cosa completamente diversa. Non appena finita la mia preghiera… Non so se conosciate questo capolavoro. Lo conoscete? Forse non l’avete mai visto. C’è il padre, leggermente ricurvo sopra il figlio, con le braccia sulla schiena del figlio inginocchiato davanti al padre. Il figlio si vergogna e non riesce neanche a guardare il padre, distoglie lo sguardo e invece il padre lo guarda, vede chi è il figlio, vede il bambino che una volta teneva in braccio, vede il giovane che se n’è andato sicuro di sé, se ne è andato per il mondo, vede la distruzione e il collasso della dignità e della forza umana davanti a sé, ma c’è altro. Il padre vede attraverso tutti questi strati, vede l’uomo, vede chi agli occhi di Dio questo figlio realmente è: è il figlio del padre che doveva essere così fin dall’inizio. Questo padre umano vede realmente con gli occhi di Cristo. E’ Cristo che ci racconta questa storia, questa parabola. Ci sono molteplici stadi di significato in questa parabola. Mi trovavo quindi all’ Hermitage, meditavo… Un giovane arriva. Si mette davanti a me e mi impedisce di guardare il quadro. Forse mi sono un po’ irritato, ma innanzitutto era un padre molto giovane, aveva un bambino di due o tre anni che portava sulla spalla e il bambino si era addormentato; il capo del bambino era sulla spalla e le braccia erano sulle spalle, abbandonate sulla schiena del padre. Era come il riflesso dell’opera di Rembrandt, solo si erano invertiti i ruoli. Che cosa significava? Son rimasti lì a lungo questo padre, che abbracciava il figlio, e il figlio con le braccia sulla schiena del padre. In questo momento splendido di provvidenza ho capito una parola fatta carne, un messaggio: ciascuno di noi è figlio, ciascuno di noi ha un padre, che sia stato un buon padre o un padre non tanto buono, ma tutti abbiamo padri, tutti siamo collegati all’interno di questa catena dell’essere che va indietro nella storia, nel passato e che arriva fino ai primi genitori, Adamo ed Eva. Siamo tutti collegati all’unità originale che esisteva prima della caduta dell’uomo e naturalmente siamo tutti collegati al peccato originale e ogni generazione trasmette a quella successiva questo peccato e con il Battesimo e con il processo di continua conversione noi non ne siamo più schiavi. Ma siamo comunque capaci di cadere, siamo creature molto piccole, siamo creature molto amate, siamo figli e figlie del Re. Se cadiamo, quindi, dobbiamo rivolgerci a Dio, non dobbiamo nasconderci come Adamo ed Eva che si sono nascosti nel giardino dell’Eden. Se siamo poveri, nudi, umiliati, se abbiamo perso la dignità, è proprio in quel momento che dobbiamo correre dal Padre nostro perché questo lo onora come nient’altro lo può onorare. Arrivare da Lui, senza meriti, con fede. Non è che ci rivolgiamo a Lui e gli diciamo: “Sono un bravo figlio, papà”. Certo, anche in questo c’è una verità, però noi siamo dei peccatori. Siamo peccatori che ci liberiamo dal peccato e se pecchiamo dobbiamo correre dal Padre nostro quanto più velocemente possibile, gettarci nelle sue braccia e credo che troveremo il perdono, come nel caso della parabola del figliol prodigo o come nel caso…, nel mio caso di padre con le sue mancanze, nonno che abbraccia il nipote, nipote sporco di tutto ciò che potrebbe apparirci repellente. Ebbene il Padre è in grado di andare oltre questo danno umano, è in grado di vedere l’immagine del Figlio in ciascuno di noi e nostro compito è quello di imparare a fidarci di Lui. Questo imparare ad avere fiducia in Lui, questo è un lungo apprendimento, è un lungo rapporto di paternità, di essere figli, figli veri. Noi impareremo così che il Padre ci dà tutto, tutto, in modo che noi lo si possa contraccambiare, anche in misura minore. Questo è il dono dell’amore, la Trinità, il Battesimo, la Comunione. La Comunione che non si verifica soltanto in Paradiso ma che circola in tutto il mondo grazie al sacrificio del Figlio e le nostre sofferenze insieme alle sofferenze di Gesù fanno parte di questo sacrificio che redime il mondo. Il tema è immenso. Non ho più tempo ma consentitemi di dire, con un salmo di Davide… Ricordate che Davide a volte è stato ossessionato dalla paura ma è riuscito a superare la paura con il coraggio. Il salmo 15 dice: “Quando comincio ad avere paura, ho fede in Te”. Spesso questa fiducia non la sentiamo; ci vuole allenamento per sentirla questa fiducia. Sempre David dice: “Le armi del Re sono state presentate ed offerte”. Davide non è Michelangelo, Davide è ben poca cosa. E’ l’ultimo dei figli e le armi sono troppo pesanti per lui, le mette da parte e dice: “La battaglia appartiene a Dio” e c’è un’altra traduzione inglese: “La battaglia è del Signore”. Lui combatterà tramite noi per la vittoria e in questa battaglia noi saremo utili nella misura in cui riusciremo ad essere bambini, bambini piccoli, piccoli piccoli. E a questo punto credo di dovervi lasciare. Grazie.

MODERATORE:
Ringraziamo Michael O’Brien perché se leggerete il romanzo, come vi invito a fare, troverete che tutta l’esperienza di paternità che lui ci ha comunicato è il filo rosso della vicenda umana di Pavel e David. Voglio solo leggere l’ultima cosa che Pavel affida a David, il messaggio che scrive velocissimamente in una sosta del treno che lo porta ad Auschwitz dove dà la vita per il suo amico, messaggio che David leggerà dopo vent’anni e che segnerà l’inizio del nuovo compito affidatogli da Dio: “Figlio mio, amico mio, non ho mai tanto desiderato vivere come adesso. Scendo nelle tenebre al posto tuo. Ti dono la mia vita. Porto la tua immagine in me come una icona. Questa è la mia gioia. Alla fine scendo a dormire ma il mio cuore veglia. Pavel”. Ciascuno di noi sa bene, se non con questa profondità ma con altrettanta evidenza, che cosa vuol dire ricevere la vita. Non appena la vita dei nostri genitori, ma il senso di essa nell’incontro cristiano. Questo certamente è il segno di una nuova appartenenza che ci può rendere stranieri nel mondo e a casa in ogni luogo.
Siamo senza patria tante volte dove viviamo, dove amiamo, dove lavoriamo, dove soffriamo. Senza patria proprio perché abbiamo un Padre, un Padre che ci rigenera, perché l’ultimo racconto – la misericordia – è proprio questo: il Mistero del perdono che ci ricrea, che ci fa essere nuove creature. Grazie ancora a Michael O’Brien. Attenzione. Vi do un avviso. Questo fatelo sapere anche alle miriadi che sono rimaste fuori. Domani alle ore 12, al Caffè Letterario che è nel padiglione D5, dalle ore 12 alle ore 13, quindi vi raccomando la discrezione – lasciatelo poi andare a pranzo – l’autore Michael O’Brien firmerà dediche del suo volume. Buonasera a tutti e grazie ancora.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

25 Agosto 2008

Ora

19:00

Edizione

2008

Luogo

Sala Neri
Categoria
Incontri