Un viaggio nel cervello alla ricerca della coscienza

Redazione Web

Il segreto della coscienza e l’inganno della tecnica

Gli sviluppi delle neuroscienze e le domande sull’essere umano

Rimini, 23 agosto 2021 – Negli ultimi anni le neuroscienze hanno fatto passi da gigante. Oggi si ha un’idea chiara di circuiti neuronali complicati, grazie a cui è stato possibile realizzare protesi artificiali coordinate direttamente dal cervello. Nonostante tutti questi grandi progressi, però, non sappiamo ancora rispondere alle domande più importanti, come ad esempio su quale sia il segreto della coscienza. «Il rischio è di identificare la coscienza con il comportamento diligente e di non vedere la coscienza dove c’è e di vederla dove non c’è», ha spiegato Marcello Massimini, professore di Fisiologia, Dipartimento di Scienze Biomediche e Cliniche L. Sacco, presso l’Università degli Studi di Milano, durante l’incontro intitolato “Un viaggio nel cervello alla ricerca della coscienza”, introdotto da Samir Suweis, ricercatore in fisica, Laboratorio di Fisica Interdisciplinare, Dipartimento di Fisica e Astronomia e Padova Neuroscience Center, dell’Università degli Studi di Padova.

«Io adesso so che sono cosciente, Cartesio stesso diceva “Cogito ergo sum”. Ma so che la coscienza la posso perdere, ad esempio quando vado a dormire, e addormentarsi è un po’ come morire», ha continuato il professor Massimini. «Ciascuno di noi può definire la coscienza, ma fin quando non abbiamo una misura oggettiva della coscienza abbiamo problemi a definire quando qualcun altro è cosciente. In quel caso si ragiona per analogia: se si comporta come noi, è cosciente come noi». Il rischio è quello cioè di non vederla in pazienti che sembrano “disconnessi”, e di vederla invece dove non c’è, vale a dire nelle macchine, «che hanno performance incredibili e saranno sempre più strabilianti». Per questo, «l’impegno della scienza nel trovare una misura e una definizione di coscienza non è da vedere con diffidenza, ma piuttosto come una cosa buona: finché non avremo una misura più diretta dell’osservazione del comportamento, rischiamo di essere nei guai». Solitamente si crede infatti che un cervello attivo sia cosciente e viceversa, mentre il rischio è di vedere un paziente come una scatola nera. «C’è un 30-40% di pazienti che vengono considerati come disconnessi, ma che non sono tali». Pazienti che sono «difficilissimi da giudicare». La provocazione è quindi sviluppare misure oggettive e fisiche, indipendenti dal resto, che rilevino la coscienza direttamente nel cervello. «Abbiamo fatto su questo qualche progresso ma siamo ancora lontani».

Le maggiori sfide scientifiche? «Le generazioni future si troveranno in un mondo confuso, dove risponderanno a macchine antropomorfizzate e dall’altra parte si troveranno realtà di pazienti e cervelli disconnessi. Per questo è necessario capire, sviluppare misure e strumenti», conclude lo scienziato. La strada che va imboccata è segnata da grande attenzione verso le tecnologie che ci circondano. «Siamo molto condizionati dalla velocità delle reti artificiali e delle macchine. Dobbiamo però ricordarci che la coscienza prende tempo, e non dobbiamo farci intrappolare in un paradigma stimolo-risposte, perché questo andrebbe a discapito della coscienza, che ha i suoi tempi che vanno valorizzati in quanto tale. Pensiamo a quando ci incantiamo davanti al luccichio del mare al tramonto. Allora dobbiamo imparare a gestire le macchine che creiamo in modo compatibile con la nostra coscienza».

(F.G.)

Scarica