Popolo ed ecumenismo

Press Meeting

Questo pomeriggio la sala Neri ha ospitato l’incontro dal titolo “Popolo ed ecumenismo”. A fare gli onori di casa è stato Costantino Esposito, docente di Storia della Filosofia presso l’Università degli studi di Bari, che ha introdotto gli interventi evidenziando come le due parole del titolo indichino altrettante esperienze irrinunciabili per l’uomo. Ha poi chiesto ai relatori di trattare dell’esperienza di apertura ecumenica, nella scoperta dell’appartenenza ad un popolo preciso.
Il primo a prendere parola è stato Vladimir Legojda, docente all’Università MGIMO e direttore della rivista “Tommaso”, del Patriarcato di Mosca. Il giovane professore ha messo al centro del suo intervento l’uomo di oggi di fronte alle sfide del secolarismo: non solo il cristiano, ma l’uomo di qualsiasi fede. Legojda ha letto un brano del “Don Chisciotte” e lo ha indicato come esempio dell’agire che dovrebbe avere oggi un cristiano: cosciente e responsabile delle conseguenze del proprio silenzio e della propria inerzia. L’identità religiosa è l’identità più importante per un uomo e non può essere taciuta. Il mondo d’oggi è riuscito a ridurre l’identità religiosa ad un fenomeno culturale qualsiasi, un’esperienza tra le altre. Ma se la “cultura” sono delle parole sulla vita, la “religione” è la vita stessa. Dostoevskij scrisse: “Bisogna essere troppo innamorati di sé stessi per scrivere di sé stessi senza vergogna”. Legojda ha fatto notare l’evidente differenza di concezione rispetto a un personaggio come Sant’Agostino, che questo problema non se lo pose e addirittura scrisse “Le confessioni”, riuscendo a parlare direttamente dell’uomo senza soffermarsi su di sé. La semplice frase “Io prego Dio” può aiutare a capire questa differenza di concezioni: per un cristiano delle origini l’accento era sulla parola “Dio”, per un medioevale probabilmente cadeva su “prego”, l’uomo moderno è concentrato, invece, su “io”. L’attenzione è focalizzata sulla propria persona, che perciò non prega più: dissoluzione della coscienza e banalizzazione della fede. Compito dell’uomo cristiano è vivere nel modo più liturgico possibile: per questo c’è bisogno dell’insegnamento di persone che già vivano così e lo sappiano trasmettere. Un maestro di questo calibro è stato, per il relatore, il metropolita russo di Londra, dal quale egli ha imparato molto di questa tensione di fede.
Don Stefano Alberto, docente di Introduzione alla Teologia presso l’Università Cattolica Sacro Cuore Milano, ha avvertito nelle parole del collega una profonda familiarità, nonostante l’appartenenza ad una Chiesa diversa. Il popolo a cui si appartiene è lo stesso, perché all’origine di questo fenomeno sta un Fatto che diventa legame stabile anche tra persone estranee. “Popolo” non è più una parola fredda o violenta da quando Dio ha chiamato per nome Abramo; il compimento è accaduto nel momento in cui Gesù ha detto a Giovanni e Andrea: “Io sono la via, la verità e la vita”. Quello che unisce un popolo è la coscienza di ciò che si ama: in questi tempi di sfida radicale alla religione risuona la risposta dello starets nella nota novella di Solovev: “La cosa a noi più cara è Cristo e tutto quello che da Lui nasce”. Noi portiamo la coscienza di vivere l’avventura di questo popolo, che ha due caratteristiche: incontra Cristo incontrando delle persone che Lo testimoniano ed è appassionato a tutta la realtà. Il principio culturale è da ritrovare in San Paolo: “Non sono più io che vivo, sei Tu che vivi in me”.
L’incontro che è avvenuto, ha sottolineato in conclusione Alberto, è già chiarificatore di cosa significhi “ecumenismo”. È una strada difficile, certo, ma c’è e rappresenta per ognuno una grande avventura.
Prima di finire Legojda ha raccontato brevemente di “Tommaso”, una rivista, rivolta coraggiosamente a chi è fuori dalla Chiesa o dubita, che vuole raccontare a tutti il Bello che i redattori hanno incontrato nella loro vita.
E.M.
Rimini, 22 agosto 2005