Meraviglia: entrare nel divino che palpita in tutto

Redazione Web

Rimini, martedì 18 agosto – «Se un uomo può pervertire tutti, un unico uomo ha anche la possibilità di convertire tutti, basta che abbia il coraggio di seguire il desiderio più vero del suo cuore e che provi meraviglia». Tat’jana Kasatkina, direttore del Centro di ricerche “Dostoevskij e la Cultura mondiale” presso l’istituto di letteratura mondiale dell’Accademia delle Scienze russa, intende così il dramma del grande scrittore, “Il sogno di un uomo ridicolo”, andato in scena al Meeting di Rimini, con Mario Sala, per la regia di Lorenzo Loris, del Teatro Out Off di Milano. Lo spettacolo si è concluso con le riflessioni e i commenti di alcuni studenti di Mosca e di Modena che nei mesi scorsi hanno lavorato sul testo.

L’anonimo protagonista del monologo di Dostoevskij, pubblicato nel 1877 all’interno della sua rivista “Diario di uno scrittore”, è un uomo qualunque, nauseato dalla sua inconsistenza e dal dileggio degli altri (è, appunto, “ridicolo”), al quale succede qualcosa di straordinario, che lo arresta ai limiti dell’abisso e lo salva. La Commedia di questo originale Dante di fine Ottocento inizia quando decide di suicidarsi, una decisione, paradossalmente, che viene presa guardando «una piccola stella», l’unica di una notte «che più cupa non poteva essere» (la “selva oscura”?). Ma ecco che una bambina lo tira per il gomito e piangendo gli chiede aiuto perché la mamma sta morendo. Lui la scaccia e se ne torna a casa per spararsi in testa. Ma quell’ incontro lo ha segnato, lo ha fatto meravigliare; dice la Kasatkina che «ha spaccato i confini dell’isolamento di un cuore di pietra».

Giunto nel suo squallido appartamento, si siede e tira fuori la rivoltella, con la quale «certamente si sarebbe sparato, se non fosse stata quella bambina» (una Beatrice, sotto altre spoglie?). Non lo fa, perché deve risolvere un dilemma: se avesse compiuto un’azione ignominiosa su Marte e poi fosse tornato sula Terra, avrebbe provato o no vergogna per quanto compiuto? Mentre riflette, lui, che la notte non dormiva mai, fino all’alba, prende sonno (anche Dante era pieno di sonno quando comincia la Commedia) e fa un sogno. Sogna di spararsi, ma non in testa: al cuore, «perché i sogni», dice, «li indirizza non la ragione, ma il desiderio, non la testa, ma il cuore e quel sogno del 3 novembre mi ha fatto vedere la verità, mi ha annunciato una nuova grande e forte vita». Sogna che dopo il suicidio, un essere misterioso (un nuovo Virgilio?) lo tira fuori dal sepolcro e gli fa compiere un viaggio fantastico (e un «racconto fantastico», ha ricordato la Kasatkina, «per Dostoevskij è sempre sommamente reale»). Questo «essere oscuro e ignoto» lo porta in volo, facendogli bruciare millenni e spazi siderali (Dante non vola forse fino in Paradiso?) e promettendogli, con «una certa tristezza nelle parole», che avrebbe veduto tutto.

Il pianeta su cui approdano è una specie di Terra dei primordi, un eden, «un’altra terra deliziosa come il paradiso», dove tutto è perfetto ed innocente, dove gli uomini vivono senza colpa alcuna e non desiderano più nulla perché hanno «una vita già piena; ed erano belli, belli, belli». Quegli esseri «non avevano templi né chiese, neanche una fede», ma la «salda certezza che, quando la loro terrena gioia fosse stata piena entro i limiti della natura terrena, sarebbe sopraggiunto per essi, per i viventi e per i morti, un ancor maggiore ampliamento del loro contatto col tutto universale. Vivevano in una specie di vicendevole innamoramento totale, generale». Ma all’improvviso, tutto cambia: quell’eden si corrompe, gli uomini diventano cattivi, non c’è più armonia né fra di essi né con la natura. Quell’eden si trasforma nel mondo di oggi, malato. Perché? Di chi la colpa? «Fui io a pervertirli tutti. Come poté avvenire non lo so, ma lo ricordo chiaramente. Come un atomo di peste infettai di me tutta quella terra». Attraverso di lui, il peccato era tornato nel mondo. Attraverso lui e quel gesto, all’apparenza insignificante, del rifiuto opposto al pianto di quella bambina.

Nel sogno, in quella straordinaria compressione di tempo e di spazio, il protagonista aveva visto le conseguenze delle sue azioni. «Ciò che facciamo non si perde», commenta la Kasatkina, «ma diventa la causa dell’aspetto assunto dal mondo».

L’uomo ridicolo, a questo punto si risveglia, con ancora negli orecchi la derisione e lo scherno di quegli uomini snaturati, che avrebbero voluto internarlo in manicomio, perché stava diventando pericoloso per loro, con i suoi rimorsi e la sua voglia di espiazione. Si sveglia e decide che la sua esistenza sarà vita e predicazione, predicazione di quello che ha sognato, «perché la verità l’ho vista con i miei occhi, ne ho veduto la gloria». Gli diranno che ha sognato, ma lui racconterà il «sogno», perché «il fantastico è sommamente reale». Nel sogno ha scoperto la chiave di volta di tutto, quella che potrebbe far tornare il paradiso in terra: «Ama gli altri come te stesso, ecco quel che è essenziale, ed è tutto, non occorre proprio nulla di più. È una vecchia verità, ripetuta e letta un milione di volte, eppure non ha attecchito» (“l’amor che move il sol e l’altre stelle”).

Nell’ultima battuta riappare l’istante da cui tutto è partito: quella bambina. «L’ho ritrovata e per questo andrò, andrò».

«Il racconto di Dostoevskij», spiega ancora la Kasatkina, «è un racconto sulla malattia dell’uomo contemporaneo: l’isolamento, il separarsi del singolo dagli altri e dal mondo. E il sintomo più evidente è l’assenza della capacità di meravigliarsi: tutto è uguale, tutto è indifferente, tutto è sullo stesso piano. Ma lo scrittore indica anche una possibile cura: tornare a meravigliarsi e “meraviglia”, in russo, vuol dire entrare nel divino, in quel divino che palpita in tutto ciò che abbiamo davanti e che ci accomuna a tutti gli esseri viventi. La meraviglia spacca l’isolamento e lega gli uomini al livello del loro nucleo più profondo, del loro cuore».

 

(D.B.)

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