Intervista Stefano Facchini

Press Meeting

Rimini, mercoledì 22 agosto – Oggi, nello spazio Exoplanets, tra meteoriti e telescopi, abbiamo intervistato Stefano Facchini, ricercatore presso il Max Planck Institut für Extraterrestrische Physik, a Garching, in Germania. Facchini si occupa di astronomia infrarossa e submillimetrica, che riguarda lo studio della formazione di sistemi planetari. Con telescopi che operano nell’infrarosso e nel submillimetrico, infatti, è possibile osservare quello che succede quando, intorno a una stella, si originano i pianeti.
Come è nata la sua passione per l’Astrofisica?
La passione per l’Astrofisica è nata da bambino: un po’ mi ha sempre attratto la bellezza del cielo, ma il colpo di fulmine c’è stato quando una notte il papà di un mio amico mi indicò i nomi di molte costellazioni. Mi entusiasmai nel vedere qualcuno capace di riconoscere le stelle. Da lì mi sono appassionato, poi ho intrapreso questo percorso all’università. Alle superiori mi piacevano molto la matematica e le scienze in generale. Ho scelto di fare Fisica all’università perché mi piaceva poter capire come funzionano le cose in generale. Più tardi, quando ho dovuto scegliere la magistrale, c’erano due temi che mi interessavano molto: la struttura della materia e il cielo. Alle fine ho optato per il cielo.
Come è arrivato a occuparsi dello studio di formazione planetaria?
In particolare, io mi occupo di studiare i sistemi in cui i pianeti si stanno formando, che sono i dischi proto-planetari. La cosa è nata dalla mia tesi di laurea magistrale, quando avevo conosciuto questo professore, che si chiama Giuseppe Lodato. Mi era piaciuto molto il suo corso, in cui lui spiegava i dischi proto-planetari, quindi gli ho chiesto una tesi. Dalla tesi è sorta la possibilità di fare un dottorato a Cambridge, con una professoressa bravissima, una dei massimi esperti nella teoria della formazione planetaria. Da qui sono partito e sono rimasto su questo campo perché mi piace troppo.
Come si individua una zona di formazione planetaria?
I dischi proto-planetari si osservano in molti modi. Si vanno a vedere regioni in cui si sa che le stelle sono nate da poco. Poi si guardano queste stelle a diverse lunghezze d’onda: si cerca di capire se esse presentano dei dischi attorno e se ci sono evidenze di eccesso di luminosità nell’infrarosso, cioè se c’è della polvere molto calda che emette della luce infrarossa in più rispetto a quella che emette già la stella. Una volta identificati, i dischi vengono studiati nel dettaglio con diversi strumenti a tantissime lunghezze d’onda. Oggi la lunghezza d’onda ottimale per studiare i dischi non è nell’infrarosso, ma nel millimetrico. C’è Hubble Space telescope che opera un po’ nel vicino infrarosso, però a lunghezze d’onda ancora corte. Quello che manca adesso è un telescopio che operi nel mid-infrared (lunghezza d’onda intorno a dieci micron) e far-infrared, che si colloca a lunghezze d’onda di circa 100 micron. In passato ci sono stati i telescopi Herschel e Spitzer che hanno osservato nell’infrarosso e sono stati fondamentali per la caratterizzazione di sistemi proto-planetari. Sono in fase di discussione dei satelliti dell’ESA (European space agency), che saranno molto importanti, in particolare SPICA (Space infrared telescope for cosmology and astrophysics).
Quando è stato individuato per la prima volta un disco proto-planetario?
Dell’eccesso infrarosso c’era già evidenza dall’inizio degli anni novanta. Inizialmente era dibattuto se si trattasse di dischi o sfere, che avrebbero avuto le stesse caratteristiche di fotometria infrarossa, ma quando l’Hubble space telescope, in quel periodo, guardò la Nebulosa di Orione, si videro dei dischi in silhouette, ovvero sul fondo c’è un’emissione molto luminosa della nebulosa e di taglio vediamo un disco.
Quindi avvenne nello stesso periodo in cui fu individuato il primo esopianeta?
Poco prima. Poi la scoperta degli esopianeti e lo studio sempre più accurato dei sistemi proto–planetari sono andati di pari passo. L’uno influenza l’altro.
È possibile capire, osservando il disco proto-planetario, se il sistema in formazione un giorno potrà ospitare vita? Come?
Direi che c’è tantissimo da fare. Ad oggi la risposta è no. È possibile capire alcune cose. Quello che si sta facendo in questa direzione, ed è uno dei filoni di ricerca di cui io mi occupo, è andare a studiare proprio le condizioni in cui il pianeta si forma, per capire le condizioni iniziali della sua evoluzione, in particolare della sua composizione chimica, del suo nucleo e dell’atmosfera. Questo lo stiamo facendo e nei prossimi tre anni ci saranno grandi passi avanti.
L’ipotesi più accreditata sulla formazione del Sistema Solare resta quella formulata da Kant: l’ipotesi nebulare. Oggi sappiamo molto di più?
Si sa molto di più. Sono stati fatti molti passi avanti. Per esempio uno degli ospiti che hanno parlato al Meeting, Alessandro Morbidelli, è il più grande esperto mondiale di formazione ed evoluzione del Sistema Solare. Si sa che Giove si è formato molto velocemente, che la coppia Giove-Saturno si è spostata verso l’interno e poi verso l’esterno per una combinazione molto particolare, che ha fatto sì che, invece di avere delle super-terre, al centro ci siano dei pianeti rocciosi; ha fatto sì che Marte sia meno massivo della Terra, cosa inaspettata. Si spiega così anche perché l’asse di rotazione di Urano è inclinato di quasi novanta gradi. Inoltre, il sole, quando si è formato, si trovava in una regione ad alta densità stellare e questo lo si sa dallo studio degli isotopi dell’alluminio, del ferro 60. La conoscenza del sistema solare è molto molto avanzata, nonostante rimangano ancora tantissime cose da capire.

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