SOSTENERE IL FUTURO. TUTELA DELLE RISORSE E SVILUPPO ECONOMICO

Sostenere il futuro. Tutela delle risorse e sviluppo economico

In collaborazione con Unioncamere. Partecipano: Maurizio Chiarini, Amministratore Delegato del Gruppo Hera; Francesco Confuorti, Presidente e Amministratore Delegato di Advantage Financial; Corrado Clini, Direttore Generale per lo Sviluppo Sostenibile, il Clima e l’Energia del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare; Mario Guidi, Presidente di Confagricoltura; Giuseppe Nucci, Amministratore Delegato di Sogin; Leo Wencel, Presidente e Amministratore Delegato di Nestlè Italiana. Introduce Bernhard Scholz, Presidente della Compagnia delle Opere.

 

SOSTENERE IL FUTURO. TUTELA DELLE RISORSE E SVILUPPO ECONOMICO
Ore: 15.00 Sala D3
In collaborazione con Unioncamere. Partecipano: Maurizio Chiarini, Amministratore Delegato del Gruppo Hera; Francesco Confuorti, Presidente e Amministratore Delegato di Advantage Financial; Corrado Clini, Direttore Generale per lo Sviluppo Sostenibile, il Clima e l’Energia del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare; Mario Guidi, Presidente di Confagricoltura; Giuseppe Nucci, Amministratore Delegato di Sogin; Leo Wencel, Presidente e Amministratore Delegato di Nestlè Italiana. Introduce Bernhard Scholz, Presidente della Compagnia delle Opere.

BERNHARD SCHOLZ:
Buongiorno a tutti e benvenuti a questo incontro sul tema della tutela e delle risorse dello sviluppo economico. Saluto Maurizio Chiarini, Amministratore Delegato del gruppo Hera, un’azienda multiservizi quotata in Borsa con sede a Bologna, Francesco Conforti, Presidente e Amministratore Delegato della società Advantage Financial, da lui stesso fondata, Corrado Clini, Direttore Generale per lo Sviluppo Sostenibile, il Clima e l’Energia del Ministero dell’Ambiente e della Tuteta del Territorio e del Mare – è un titolo molto lungo ma è sempre quel ministero -, Mario Guidi, presidente di Confagricoltura a cui fanno riferimento 800.000 aziende, Giuseppe Nucci, Amministratore Delegato di Sogi, società di stato dedicata alla bonifica ambientale dei siti nucleari italiani e della gestione dei rifiuti radioattivi, e Leo Wencel, Presidente e Amministratore Delegato di Nestlé Italia. Nella sua agenda 2020, il Consiglio Europeo scrive che la crisi ha vanificato anni di progresso economico e sociale e messo in luce le carenze strutturali dell’economia europea e propone di trasformare l’Unione Europea in una economia intelligente, sostenibile e inclusiva. Dice nello specifico che bisogna promuovere un’economia, e cito, “più efficiente sotto il profilo delle risorse, più verde e più competitiva”. Ormai, tutte le istituzioni a livello internazionale e anche nazionale dicono che non c’è crescita sostenibile, non c’è competitività internazionale senza il criterio della sostenibilità anche quella ambientale: quindi, stiamo parlando di un tema centrale e non marginale per la crescita di questo Paese. Mi permetto solo un’osservazione: non sono un fautore del PIL perché il PIL non è l’unico criterio che dice della qualità della vita di un Paese, però se un Paese come l’Italia ha bisogno di crescita, come tutti gli altri Paesi europei, non possiamo più scindere questo valore che è la crescita necessaria perché dobbiamo sanare un debito importante. La questione è come facciamo questo PIL, con quale qualità, con quale sostenibilità, con quale impatto per il futuro. Di questo parliamo oggi. Io seguirò semplicemente l’ordine alfabetico e comincerò con Maurizio Chiarini. Hera, la sua società, non ha preso il nome dalla dea greca ma vuol dire Holding Energia Risorse Ambiente: nasce nel 2002 dalla fusione di 12 multiutility, è un’azienda multiservizi quotata in Borsa, la prima per fatturato in espansione multiutility italiana. La domanda è come fa una società che lavora nella multiutility a fare profitto, perché questo è il suo compito, e insieme a tutelare l’ambiente, soprattutto l’acqua, cioè le risorse primarie, a utilizzare in modo intelligente l’energia e a fare in modo che anche i consumatori facciano parte dell’utilizzo intelligente di queste risorse.

MAURIZIO CHIARINI:
Grazie per l’invito, possiamo fare due giri? Perché lei mi ha fatto una domanda su Hera e rispondo molto volentieri, dato che ha introdotto parlando di crescita del PIL e di tutte queste cose. Mi piacerebbe fare successivamente qualche considerazione su che cosa vuol dire fare crescere il PIL o non farlo crescere, come è successo in questo Paese negli ultimi cinque anni, e soprattutto che cosa vuol dire sostenibilità vera e finta sostenibilità, di cui purtroppo in Italia in questi ultimi anni siamo pieni: non se ne può più di finta sostenibilità. Però questo lo rimando al secondo giro. Lei mi chiede come sia possibile conciliare lo sviluppo di una società quotata in Borsa – perché Hera è una società quotata in Borsa, con un 60% di soci pubblici e 40% di soci privati -, che per definizione deve distribuire i dividendi ai propri azionisti, con le politiche di sostenibilità. Noi pensiamo di essere quasi dei campioni nel riuscire a mettere insieme questi due elementi che sono fondamentali per una società come Hera, che si occupa di servizi pubblici locali: noi distribuiamo e vendiamo gas, distribuiamo e vendiamo energia elettrica, abbiamo il ciclo integrato dei rifiuti e siamo la prima azienda in Italia in questo settore e abbiamo il ciclo idrico: quattro servizi che sono a contatto diretto con i cittadini, che impattano direttamente sul benessere della gente, e quindi non possiamo essere un’azienda che non tiene conto delle problematiche di sostenibilità. Però, siccome io sono un cultore della sostenibilità, quella vera, penso che la sostenibilità debba essere uno strumento che tutte le aziende – indipendentemente dalla loro costituzione, quotate in Borsa, pubbliche o private – debbano avere a cuore il tema della sostenibilità, purché non s’intenda per sostenibilità una cosa che in questi ultimi anni purtroppo si è molto diffusa, e cioè redigere il bilancio di sostenibilità o il bilancio sociale a fine esercizio. Molte imprese fanno il loro business e poi un piccolo documento molto carino in cui dicono quali sono le conseguenze positive del loro operare. Ecco, questa non è sostenibilità, questo tipo di approccio danneggia la vera sostenibilità che invece è tutta un’altra cosa, tanto che in Italia le problematiche di attività sociale, di sostenibilità, come sempre sono arrivate con notevole ritardo rispetto alle esperienze soprattutto anglosassoni. Poi sono diventate di moda e oggi voi non trovate un’azienda quotata in Borsa che non abbia il proprio bilancio di sostenibilità. Però, se questo bilancio è fatto dopo che abbiamo fatto il business, è da buttare. E succederà che nel momento di crisi, di difficoltà economica, la prima cosa che metteranno da parte e non faranno più sarà l’impegno sulla sostenibilità sociale. Come l’intendiamo noi, invece, la sostenibilità è un punto fondamentale del nostro core business, abbiamo un approccio rispetto a queste problematiche che chiamiamo multi stakeholders. Cosa vuol dire? Che abbiamo a cuore, ovviamente, gli interessi dei nostri azionisti, che sono quelli che comprano il titolo di Hera, pubblici o privati che siano: in questi anni abbiamo aumentato ovviamente il valore delle azioni. Ma teniamo conto, nella nostra attività quotidiana, anche di tutti gli altri stakeholders: significa che, nel definire gli obiettivi di medio lungo periodo dell’azienda, oltre a quelli di crescita della redditività e di capacità di distribuire i dividendi, metto le politiche di sostenibilità e quindi faccio una identificazione dei principali stakeholders che sono i primo luogo i lavoratori e i clienti. Poi ci sono l’ambiente, i fornitori, le banche, la pubblica amministrazione, la comunità locale: per ognuno di questi stakeholder, cerco di identificare quali sono le aspettative rispetto all’attività che fa il gruppo e conseguentemente definisco degli obiettivi che, perché diventino uno strumento vero che impatta direttamente nel business dell’azienda, devono far parte degli obiettivi strategici dell’azienda, perché se non metto negli obiettivi strategici anche la risposta alle esigenze, non soltanto degli azionisti ma anche dei lavoratori, dei fornitori, delle comunità locali e dell’ambiente, inteso come stakeholder, non pratico una politica di sostenibilità. Queste cose vanno inserite nella pianificazione strategica e poi noi le traduciamo nella gestione operativa quotidiana. I gruppi dirigenti di Hera, i quadri, hanno obiettivi economici, finanziari, obiettivi di sostenibilità e il variabile che viene erogato Questo è un incentivo: in questo modo la sostenibilità diventa uno strumento dell’attività gestionale quotidiana dell’azienda. Per fare questo, ci vuole un grande impegno, ci vuole un grande sforzo culturale per far capire che l’approccio alla sostenibilità è un punto fondamentale per lo sviluppo futuro delle aziende, per far capire che bisogna avere obiettivi di medio e lungo periodo e non obiettivi di breve periodo. In questo modo, penso si riesca anche a dare più soddisfazione alle esigenze degli shareholders, cioè degli azionisti ai quali bisogna dare un riscontro, non soltanto sui dividendi che annualmente vengono erogati ma anche una vista di lungo periodo dell’attività dell’azienda. Fare queste cose costa, posso fare alcuni esempi concreti. Noi siamo l’azienda che in materia di servizio idrico ha le migliori performance a livello nazionale, con le perdite più basse, abbiamo il 99% dei cittadini gestiti da noi che sono allacciati agli impianti di depurazione, abbiamo fatto milioni e milioni di investimenti negli anni per migliorare la qualità di questo servizio. Guardate che sul servizio idrico ci sarebbe tutto un ragionamento da fare post referendum, magari lo facciamo in una seconda tornata. Il servizio idrico è il servizio, fra quelli gestiti in Hera, che ha il minore ritorno in termini economici, ha una marginalità che è veramente molto, molto modesta, e però è il servizio nel quale il gruppo Hera ha fatto i maggiori investimenti degli ultimi dieci anni. L’aver fatto circa 100 milioni di euro di investimenti nel sevizio idrico ci ha consentito di raggiungere delle performance di sostenibilità e di qualità del servizio che se non avessimo investito in misura così significativa non avremmo raggiunto. Se avessimo fatto soltanto un ragionamento di produzione, di marginalità e di remunerazione degli azionisti, non avremmo investito così tanto nel servizio idrico, avremmo investito più nel settore energetico, nel settore del gas e in una certa misura anche nell’attività di trattamento dei rifiuti. Questa scelta deriva da un approccio multi stakeholder che tiene conto delle tematiche di sostenibilità tra le problematiche fondamentali. Un secondo esempio è il trattamento dei rifiuti: anche su questo ci sarebbe da parlare per cinque ore. Abbiamo fatto la scelta di investire nella realizzazione di termovalorizzatori di ultima generazione e lì abbiamo investito in pochi anni quasi 500 milioni di euro: i nostri impianti oggi hanno emissioni dieci volte inferiori ai limiti di legge. Si poteva fare anche un po’ di meno, un investimento meno costoso, oneroso, avremmo comunque raggiunto il risultato. Così facendo, abbiamo raggiunto un obiettivo che va oltre i limiti di legge e abbiamo ottenuto, credo, risultati significativi. Il fatto di investire in termovalorizzatori non vuol dire evidentemente che la linea guida fondamentale nel settore dei rifiuti per noi sia la raccolta differenziata: oggi abbiamo superato il 50% della differenziata, siamo leader a livello nazionale, ma troviamo che su questo tema si faccia molta ideologia. C’è impreparazione, poca conoscenza di come stanno le cose, sento dire cose che mi lasciano perplesso. Per esempio, adesso gira molto questo tema della società post-inceneritore: superiamo gli inceneritori. Da un punto di vista di ritorno politico, è una cosa che colpisce molto. In Italia, abbiamo il 48% dei rifiuti che sono smaltiti in discarica, il 17, 18% nei termovalorizzatori, il resto è differenziata. Allora, se uno si deve dare degli obiettivi di sostenibilità, non dice che bisogna superare il termovalorizzatore, dice che bisogna superare le discariche come hanno fatto i principali Paesi più evoluti a livello europeo: Svezia, Germania, Olanda, Paesi Bassi, dove la raccolta differenziata è al 60% e il rimanente è incenerimento senza discariche. Ecco, questa è un’evoluzione sostenibile in un settore molto delicato. Parlare di società post-inceneritore non è sostenibile, è pura demagogia. Grazie.

BERNHARD SCHOLZ:
Ho appena concordato con il Direttore Clini che lui parlerà dopo il primo round, per fare anche una specie di sintesi, secondo la sua esperienza politica riguardante la green economy. Faccio quindi la seconda domanda a Francesco Conforti. Abbiamo sentito che occorrono investimenti, lei ha fondato una società finanziaria dopo varie esperienze in America nel sistema bancario: suppongo che lei debba investire in modo che ci sia una redditività. A questo punto, cito un suo articolo pubblicato a febbraio, nel quale dice: “L’economia verde potrà contemporaneamente tutelare la qualità del nostro ambiente ma anche contribuire alla ristrutturazione del nostro sistema economico, riducendo sprechi di energie e materie prime e creando nuovi settori economici, imprese, professionalità, dando sbocchi altrimenti spesso inutilizzato dai nostri giovani”. Chi non è d’accordo? La domanda è questa: si tratta di un auspicio o qualcosa che funziona anche per chi deve investire?

FRANCESCO CONFUORTI:
Quando parliamo, abbiamo una base di visione economica: tutto quello che diciamo ha generalmente un impatto positivo sui bilanci, quindi sul ritorno economico alle persone e alla società. Veniamo da una società dove si fanno le cose ma non si dicono. Io sono nato a Matera e sono cresciuto negli Stati Uniti, quindi sono un’evoluzione veloce dell’homo sapiens, da Matera sulla Murgia agli Stati Uniti. Da questo punto di vista, abbiamo colto l’opportunità del carpe diem. Cosa significa? Significa che le migliori economie al mondo sono quelle più rispettose e sensibili alle problematiche delle loro genti, delle loro persone e dell’ambiente in cui vivono, quelle meno spendaccione, che usano con giusta dose tutto quello che viene loro dato. Da questo, può solo nascere profitto perché il profitto viene con la diligenza nell’uso delle materie prime e con l’incentivazione per le persone che si sentono parte di un sistema sociale. Quindi, la sostenibilità sociale come positività per le persone, l’ambiente come posto dove vivere e poter progredire migliorando e usando quello che abbiamo in maniera adeguata. Rispetto al passato, la distanza di opinione tra ecologisti e economisti si è molto attenuata. Abbiamo economisti importanti e ortodossi come William Nordhaus, o Jeffrey Sachs, che sottolineano la gravità del problema ecologico, legato in particolare al riscaldamento globale, e la centralità della sostenibilità sociale nello sforzo di crescita. Nel contempo, un gigante della strategia aziendale, Michael Porter, ha recentemente sviluppato il concetto di “Shared Value” (“Valore condiviso da tutti gli stakeholder”), che dovrebbe sostituire lo “Shareholder Value” (“Valore solo per gli azionisti”) come obiettivo strategico delle aziende più lungimiranti. In Italia, un simile approccio dovrebbe essere applicato a tutte quelle filiere del valore aggiunto che caratterizzano in modo positivo la competitività del Paese nel mondo (il cosiddetto “made in Italy”), facendo dell’Italia un importante “hub” (snodo) di sostenibilità a tutto campo, con tutti i benefici che ne derivano. Il nostro lavoro è molto tecnico: ha aggiunto alle definizioni di default, di fallimento di un’azienda, concetti importanti definiti dal costo del denaro, dalle esigenze che un’azienda ha e dal modo in cui tratta le persone. Queste definizioni mostrano come il fattore ambientale migliori la capacità di competere, di accedere al denaro e quindi ai crediti e al mercato dei debiti e accresca la capacità di creare valore per gli azionisti che così diventano leader di un processo. La riflessione della scienza economica sul tema del rapporto fra ambiente, sostenibilità e crescita economica mostra oggi non più una contrapposizione, e un puro costo, ma li vede come elementi fondamentali e complementari di un nuovo modello di crescita basato sull’innovazione e la ricerca, e strutturalmente robusto. Questa visione va ad arricchire il territorio e a inserire al suo interno nuovi elementi di impulso anche all’occupazione, con grandi opportunità per le giovani generazioni. Queste infatti si sentono più partecipi e protagoniste di un modello di crescita migliore e più equilibrato, dove la loro istruzione riesce ad avere un vero impatto positivo sulla realtà circostante. Questo tuttavia senza nulla togliere all’occupazione esistente, ma incidendo così nello specifico sull’occupazione giovanile. I giovani quindi assumono un ruolo paragonabile a quello del periodo della grande ricostruzione dell’Italia nel secondo dopoguerra, in quanto vanno a ricostruire un nuovo modo di operare sul territorio, nonostante non ci siano macerie per la strada – ma solo una società in via di frantumazione, con grande disoccupazione e mancanza di idee. Gli ingredienti di questo modello virtuoso di crescita, che definiamo a Advantage col termine costruire, sono la riqualificazione dell’ambiente in una prospettiva di sostenibilità economica, finanziaria e sociale. Grazie.

BERNHARD SCHOLZ:
Allora, quando ero giovane passavo le vacanze lavorando nella fattoria di mio zio e sentivo come continuo ritornello che chi lavorava in agricoltura non faceva altro che inquinare i terreni, allevare il bestiame in modo inadeguato e contro natura, sfruttare la natura per avere profitto. Questo è stato un mantra quotidiano contro il quale si faceva fatica a difendersi, perché in parte era vero. La domanda evidente è: è ancora vero? E la domanda più precisa è: se faccio un’agricoltura che rispetta l’ambiente, per esempio nell’ortofrutta, e cerco di creare vantaggio con una cura specifica di questi prodotti, è sostenibile dal punto di vista ambientale e anche economico o vivo una contraddizione fra queste due sostenibilità?

MARIO GUIDI:
Praticamente volete la vera storia dell’agricoltura, dal dopoguerra ad oggi, in poche battute.

BERNHARD SCHOLZ:
Hai esattamente dieci minuti per rispondere a questo tema complesso.

MARIO GUIDI:
Nell’immediato dopoguerra, duecento milioni di cittadini europei sono affamati, abbisognano di tutto e la crescita industriale, il miracolo italiano ed europeo, richiama nuove abitudini alimentari che devono essere assolutamente soddisfatte, a qualsiasi costo. La chimica, la tecnologia di quegli anni aiuta l’agricoltura a moltiplicare la propria capacità produttiva, passando da 15 quintali per ettaro di grano a 60 quintali per ettaro di grano. In quegli anni nasce la politica agricola comunitaria e attorno ad essa nasce la Comunità Europea, unica vera politica comune a livello europeo, forse anche ai giorni nostri, con tutte le difficoltà che ci sono di relazione in un’Europa che non è più a 15 ma a 27. C’è stato un prezzo da pagare, quello che diceva il Presidente prima, non rendersi conto che questa crescita esponenziale della produzione agricola veniva fatta a scapito dell’ambiente. Non lo sapevano, non pensavano di danneggiare l’ambiente in cui vivevano. La chimica, le grandi multinazionali, ci hanno aiutato a risolvere il problema alimentare di tante persone: siamo stati talmente bravi che, attorno agli anni Novanta, producevamo più di quello di cui abbisognavamo: e così una nuova Europa, più satolla dal punto di vista alimentare, quindi meno bisognosa di prodotti, ma allo stesso tempo più consapevole dell’impatto che questo tipo di agricoltura aveva e delle problematiche dell’ambiente – si parlava per la prima volta di sostenibilità -, cominciò a cambiare la politica monetaria. C’è voluto un po’ di tempo perché noi agricoltori ci rendessimo conto del fatto che la sostenibilità ambientale non era necessariamente legata alla crescita agricola. C’è voluto un po’ di tempo perché la tecnologia chimica, la tecnologia e la conoscenza agricola si adattassero a una nuova prospettiva di crescita socioeconomica. Non solo in agricoltura ma anche nell’industria e nella finanza stiamo cambiando idee, come lei diceva prima, la crisi può essere salvifica perché può aiutare, se ti poni le domande giuste, a cambiare i parametri di sviluppo, e noi in Italia dovremmo sfruttare questo momento e questa crisi nel miglior modo possibile. Ma tornando all’agricoltura, progressivamente si afferma un modello molto più rispettoso dell’ambiente, in cui gli stessi agricoltori vedono l’ambiente come un fattore di produzione, addirittura di business. E così comincia a cambiare il modo di essere agricoltore. Vi descrivo in pochissime battute che cosa è oggi un’azienda agricola. Un’azienda agricola è oggi uno spazio in cui beni che hanno un riflesso sulla collettività – terra, acqua, aria, ambiente – sono posseduti o comunque gestiti da un soggetto privato. Oggi è molto chiaro che gli effetti della coltivazione del nostro terreno si ripercuotono sul futuro e nelle aziende che confinano con noi. In questo spazio, che è fatto da terreno, acqua, ambiente, piante, noi produciamo cibo ma anche fibre, legno, bioplastiche, energia da fonti rinnovabili, che sequestriamo carbonio e quindi favoriamo il contenimento dell’effetto serra. Anche se siamo soggetti passivi, svolgiamo una funzione sociale. Le fattorie sociali sono uno degli elementi più moderni per gestire gli handicap, le difficoltà delle persone, perché l’agricoltura è anche portatore di valori etici, in particolare per quanto riguarda il contatto con l’ambiente. Addirittura, offriamo ospitalità con gli agriturismi. So che ieri il Presidente Letta ha finito il suo intervento parlando di tempo, di terra e di bellezza. Bene, in agricoltura la terra c’è sicuramente, la bellezza di un campo di file ordinate, pure, il tempo in agricoltura è dettato dai ritmi della realtà. Quindi, noi siamo perfettamente coerenti: io faccio il mestiere più bello del mondo, se dovessi scegliere domani mattina che mestiere fare, farei sicuramente l’agricoltore e lo farei con questa consapevolezza. Che cosa ci riserva il futuro? Sfide che fanno tremare le vene e i polsi. Noi siamo in Italia ma l’Italia è un paese dell’Europa e il futuro ci riserva la sfida di produrre il 70% in più di alimenti entro il 2050, che non è un tempo lunghissimo, a parità di input produttivi: la stessa acqua, lo stesso concime, lo stesso input energetico. Tutto questo nel perfetto rispetto della sostenibilità, che significa utilizzare oggi risorse senza pregiudicarne l’utilizzo da parte delle generazioni future, ed è quello che noi dobbiamo fare con la nostra terra, reggere la sfida produzione, quindi la produttività declinata secondo le logiche della sostenibilità, ambientale e anche economica. Di questo non si parla mai, chiedo scusa ma pare che per gli agricoltori non sia necessario avere un reddito, siamo una sorta di missionari nella nostra attività. In realtà, vorremmo avere una crescita, un minimo di felicità, anche con questa produzione sostenibile. Noi pensiamo di realizzare un servizio alla collettività e a noi stessi, che può essere realizzato utilizzando le migliori tecnologie. Ci sono molti esempi, domani presentiamo un progetto che si chiama EcoCloud, uno spazio in cui le aziende che hanno avviato processi di sostenibilità ambientale ed ecologica mettono in rete le proprie esperienze in modo da far crescere la consapevolezza a tutti i livelli. Ne hanno poi fatto un elemento di business, quindi la sostenibilità è per noi oggi un fattore di produzione ma allo stesso tempo un fattore di business. Noi abbiamo quattro sfide che ci consegna la Comunità Europea: garantire la sicurezza alimentare anche in Italia – non dimentichiamo che lavoriamo sulla qualità, sull’export, ma la sicurezza alimentare è un tema anche Italiano -, gestire le risorse naturali in maniera sostenibile, ridurre la dipendenza rispetto ad elementi non rinnovabili. L’agricoltura è rinnovabile, tutti gli anni io semino e tutti gli anni raccolgo 100, 200 volte il seme che ho seminato: è l’unico elemento di sostenibilità. E infine dobbiamo lavorare per contenere gli effetti dei cambiamenti climatici. Come lo facciamo? Domani presentiamo aziende che sono passate dalla lavorazione tradizionale, quella che si fa con l’aratro che rovescia la zolla del terreno, e che nel farlo produce la CO2, ad aziende che adottano una tecnica a minima lavorazione, dove non viene mai toccato il terreno perché la terra, nel tempo, produce l’humus sullo strato necessario per accogliere al meglio il seme. Ed è un elemento che va favorito nello sviluppo e anche nell’applicazione delle nuove politiche agricole comunitarie, che vanno proprio in questa direzione. Sarà un processo difficile, che l’agricoltura non può fare da sola ma all’interno della declinazione dell’intero sistema del Paese, se non si ritiene che l’agricoltura sia solo un elemento marginale, un elemento di tradizione, romantico, se si ha la consapevolezza che tecnologia e tradizione possono accompagnare l’Italia in una valorizzazione della produzione, non a livello di prossimità ma nei mercati internazionali. Poi, se avrò tempo, spiegherò che questo assioma tra vendita di prossimità, km 0 e sostenibilità, non è proprio un esempio calzante. I nostri prodotti vanno in tutto il mondo, devono andare in tutto il mondo per avere un PIL valido in termini economici ma anche in termini di qualità, perché promuovere l’Italia nel mondo è uno degli elementi che l’agricoltura, o meglio il settore agroalimentare dell’industria, sa fare meglio.
BERNHARD SCHOLZ:
Grazie, tanto è vero che tantissime persone in giro per il mondo cominciano a conoscere l’Italia attraverso il cibo. Giuseppe Nucci, devo fare una confessione: fino a un anno fa ho pensato che Sogin si occupasse solo dello smaltimento dei reattori di vecchia data, quindi fosse in un certo senso retroattivo; poi ho scoperto che avete il compito di fare un parco tecnologico, che fate una scuola, che vi occupate dello smaltimento dei sommergibili russi, quindi che fate un’attività assolutamente proattiva e cercate anche di trasmettere – cosa che ritengo poco scontata in questo momento – competenze alle future generazioni. Ci può spiegare meglio il tema complessivo che riguarda Sogin nel suo impatto sociale in questo Paese?

GIUSEPPE NUCCI:
Grazie e buonasera a tutti. Sogin è una società dello Stato al 100%, recentemente siamo riusciti a farla funzionare in modo adeguato al compito che ha. Lo Stato non sempre funziona: in questo caso, mi permetto di dire che Sogin sta portando risultati che fanno funzionare le aziende e, soprattutto, il nostro funzionamento è anche la sicurezza dei cittadini Italiani. Mi spiego meglio, noi ci stiamo occupando della più grande bonifica ambientale della storia di questo Paese. In concreto, stiamo smantellando le quattro ex centrali nucleari italiane e i quattro ex siti Enea all’interno dei quali ci sono prodotti radioattivi di bassa, media e alta attività. Però non facciamo soltanto questo ma anche un altro mestiere molto delicato, quello di occuparci dei prodotti medicali radioattivi, e anche di quelli industriali. Non so quanti di voi sappiano che ogni anno facciamo circa ottocentomila visite di tipo radiologico o altro, per prevenire, per capire o curarci di eventuali malanni. Tutto questo materiale che viene prodotto in circa cinquecento metri cubi l’anno viene da noi messo in sicurezza in depositi temporanei. Quando facciamo una scintigrafia, una cronografia o una radiografia, produciamo rifiuti radioattivi e di questo ci dobbiamo preoccupare perché questi rifiuti, se non messi in sicurezza, possono essere dannosi alla salute. E’ una cosa che di solito non si valuta, non si calcola bene, perché gli ospedali, le ASL, fanno tutto il possibile per fare in modo che questi prodotti vengano messi in sicurezza ma poi devono essere comunque condizionati e messi al sicuro per la loro vita attiva residuale. Mettere al sicuro i materiali radioattivi è il nostro mestiere e a mio parere una società dello Stato che garantisce la sicurezza, quindi che non fa business, può essere qualificata per garantire la tranquillità a tutti quanti che questo materiale viene messo in sicurezza per sempre. In altri Paesi, in trentasei Paesi, è stato fatto un deposito di superficie per mettere al sicuro la massima e media radioattività. In Italia c’è un progetto, un’idea che ancora non è partita ma come tecnico posso affermare che c’è l’esigenza di creare un posto all’interno del quale sia tutto al sicuro. Penso sia meglio avere un posto dove tutti sanno che cosa c’è, come per esempio in Spagna o in Francia, dove i depositi di superficie sono frequentati da migliaia di ragazzi delle scuole che vanno a vedere come questi prodotti vengono stoccati, dove non c’è nessun pericolo per chi li visita e soprattutto per chi ci lavora, 300, 400 persone. Non facciamo soltanto questo ma ci occupiamo anche di fare lo smantellamento dei sottomarini russi: è un know how di questa azienda, di una società di Stato che in qualche modo si sta facendo valere. Siamo il terzo Paese in Europa per rapporto qualità-prezzo: con i soldi che ci vengono dati per questo incarico, siamo riusciti a fare già cinque sottomarini. Stiamo per altro facendo un tavolo, a livello europeo, dove si parla del decommissioning. Mi spiego meglio, l’Italia ha deciso in due referendum di azzerare il nucleare ma il nucleare deve essere messo al sicuro, non soltanto in Italia ma in tutto il resto del mondo, tutto quello che è vecchio o obsoleto. Dopo Fukushima, abbiamo visto che le problematiche del nucleare possono e devono essere risolte ma deve essere risolto anche tutto il problema delle scorie radioattive e del decommissioning a livello mondiale, che vale circa 160 miliardi di euro e, in Europa, 80 miliardi di euro. E’ un’opportunità per molti giovani, circa quarantamila che possono essere impiegati in questo tempo che è stato stimato dai venti ai trent’anni. Soprattutto, ci sono cifre che vengono messe a disposizione dalla Comunità Europea per lo studio della messa in sicurezza di questi rifiuti radioattivi, che significa trasformare un problema in opportunità. Sogin oggi fa lavorare circa 400 imprese Italiane, e anche straniere, ovviamente, e ha 1000 dipendenti, però abbiamo un piano di sviluppo ben chiaro, dobbiamo fare questo lavoro che vale circa 4 miliardi e mezzo di euro: chiaramente, se ci verrà dato il via, anche questo deposito potrà rappresentare un’ulteriore possibilità, soprattutto di sicurezza ma anche di investimento, per i cittadini. Garantiamo la sicurezza, siamo – permettetemi la battuta – la banca d’Italia del rifiuto radioattivo: ringrazio tutti i nostri dipendenti che ogni giorno lavorano per questo, mettendo a disposizione la tecnologia e la loro prestazione perché i problemi vengano risolti. Grazie.

BERNHARD SCHOLZ:
Leo Wencel. Parto da un annuncio che Nestlé ha fatto, di aiutare almeno ventimila giovani europei, di età inferiore ai trent’anni, a trovare un impiego nei prossimi tre anni. Questo è lodevole ma presuppone che il business funzioni. Allora, occorre capire bene quale sia il modello di business di una società come la vostra, che si prefigge di utilizzare in modo efficiente risorse naturali in tutti gli stadi del ciclo di vita dei prodotti, cercando di realizzare l’obiettivo zero sprechi e, fra parentesi, anche di tutelare in modo particolare l’acqua. Qual è l’idea con cui voi vi proponete su un mercato di miliardi di consumatori in giro per il mondo?

LEO WENCEL:
Grazie. Il dott. Scholz ha chiesto a tutti noi di parlare in modo semplice. Per me, non è un problema perché sono straniero, polacco, e il mio italiano, come potete sentire, non è perfetto ma vi chiedo, come ha fatto un grande polacco una volta a Roma, di correggermi se sbaglio. Grazie mille. Essendo parte del gruppo Nestlé, che è al secondo posto in Italia come cibo e primo nel mondo come relazione tra sostenibilità e business, penso che queste due cose oggi vadano insieme. Tutti noi siamo parte dei problemi ma anche, spero, della soluzione. Adesso che la guerra della soluzione è più importante di quella del problema, dobbiamo fare due cose: ridurre i problemi e trovare soluzioni. Penso che la sostenibilità non sia un soggetto di cui parlare solo, come accadeva 10, 15 anni fa. Oggi per noi è tempo di parlare ma per i nostri bambini, come ha detto Shakespeare, il problema è “to be or not to be”. E’ l’ultima scadenza per fare qualcosa. Il mondo è diventato più piccolo e non possiamo più distinguere tra sostenibilità e business, perché noi, come persone, siamo lavoratori dell’azienda ma anche persone che vivono in un ambiente: e quando non ci prendiamo cura dell’ambiente, a lungo termine non è possibile nemmeno fare business. Se l’organismo non è in salute, non possiamo fare più niente. Per le nostre aziende questa è una delle molte sfide perché dipendiamo da latte, acqua, caffè: per questo abbiamo scelto l’acqua, l’agricoltura e la nutrizione come pilastri della nostra nuova filosofia di business, che qualcuno ha chiamato “creazione di valore condiviso”. Senza questo elemento, non abbiamo la possibilità di fare business. Abbiamo molti programmi per migliorare l’agricoltura, anche tenendo conto che l’acqua è una risorsa naturale non illimitata. Una volta sono rimasto scioccato nello scoprire che la Polonia ha meno acqua dell’Egitto: si tratta di risorse senza prezzo, come un dipinto raro che non ha prezzo, non come un materiale che non ha prezzo perché non ha valore. Spesso apprezziamo cose che costano molto, ma ci sono cose che non costano molto e che sono preziose: l’aria, l’acqua, la vita. Per questo, abbiamo sviluppato la nostra attività nel mondo, e anche in Italia, con tre sfide. In Italia abbiamo ridotto il consumo di energia, del 20% in 5 anni, di acqua, il 35%, e di emissione di CO2 per il 40%. Ma penso che le persone anziane come me debbano essere più sensibili a questi problemi, in un momento in cui i giovani, in tutti i Paesi, si dimostrano più sensibili della maggioranza dei dirigenti anziani. Quando mi faccio la barba, vi confesso che il rubinetto è aperto: mia figlia che ha 17 anni mi chiude sempre il rubinetto. Devo imparare dai miei bambini la sensibilità per l’ambiente. Penso che tutti qua possiamo e dobbiamo fare questo lavoro, dando più responsabilità ai giovani perché il pianeta del futuro è loro. Sicuramente, la loro voce sulla sostenibilità si alza in modo più forte e importante della nostra. Come straniero, posso dire che l’Italia ha fatto qualcosa di fantastico, è il secondo Paese al mondo per potenza fotovoltaica installata e anche per il riciclo di olio usato: molto bravi. Ma allo stesso tempo ci sono molte potenzialità, come la struttura ferroviaria che può ridurre i costi dei trasporti su gomma di CO2, ecc. Ci sono sempre molte opportunità per migliorare. Nella seconda parte, vorrei tornare sui giovani che sono interessati a queste cose. Tutti noi siamo parte dei problemi ma siamo anche parte della soluzione. La sfida è che la soluzione sia più grande dei problemi.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie, Leo Wencel. Allora, direttore Clini, abbiamo visto che da una parte occorre incentivare la tutela dell’ambiente e, al contempo, garantire una sostenibilità economica. Le lancio due parole sulle quali ha lavorato nel Governo Monti e sulle quali penso che lavori anche in questo Governo: fiscalità ambientali, in termini di incentivo e semplificazione nelle autorizzazioni, per facilitare processi utili e veloci nella conquista di un’economia verde, o green economy che dir si voglia.

CORRADO CLINI:
Grazie. Un secondo solo per riallacciarmi a quello che è stato appena ricordato, i giovani. Nella giornata di apertura della Giornata Mondiale della Gioventù a Rio de Janeiro con il Papa, abbiamo presentato il manifesto per la salvaguardia del creato, che ha un contenuto importantissimo che spero nei prossimi mesi e anni venga raccolto pienamente. Dice che i giovani chiedono alle classi dirigenti di non rubare il loro futuro, chiedono alle classi dirigenti del pianeta di usare in modo razionale le risorse naturali e le risorse energetiche, anche perché questo è il modo migliore per favorire la crescita economica e la competitività. Questo è il quadro di riferimento che dovremmo avere in mente oggi perché, quando per esempio parliamo di fiscalità ambientale, io avevo provato a fare approvare dal parlamento precedente la norma sulla fiscalità ambientale che recepisce un criterio raccomandato dall’OCSE e dall’Unione Europea: spostare la fiscalità dal lavoro al consumo di risorse, che vuol dire liberare risorse a favore degli investimenti sostenibili. Ma, credo più per difficoltà culturali che per obiezioni politiche, non siamo riusciti a far approvare questa semplice norma che avrebbe semplicemente introdotto nel nostro Paese, come già avviene in altri Paesi europei, un criterio di tassazione più importante: aumento delle tasse a chi spreca e vantaggio fiscale per chi conserva. Ad esempio, aumento delle tasse per chi butta i rifiuti in discarica, e vantaggio fiscale per chi recupera materia ed energia perché gli inceneritori, o come vogliamo chiamarli, sono uno strumento per valorizzare i rifiuti, come sanno bene gli olandesi che ricevono i rifiuti da Napoli per riscaldarsi e avere elettricità mentre a Napoli devono teorizzare il post inceneritore. E’ troppo comodo. Fiscalità ambientale è uno strumento per spostare risorse a favore dell’uso efficiente di risorse naturali ed energetiche. Peraltro, corrisponde anche al driver della competitività, come abbiamo indicato a livello europeo nel Piano per l’occupazione e la crescita che è stato approvato a giugno del 2012. E’ molto chiaro, l’indirizzo: gli investimenti vanno finalizzati a valorizzare il recupero di efficienza in tutti i settori e perciò la riduzione del consumo di risorse naturali, a cominciare dall’acqua e dal suolo, e la riduzione del consumo di energia. Ma questa fiscalità ambientale, di vantaggio per l’ambiente, è di vantaggio per la competitività perché, oggi, chi offre sul mercato tecnologie e prodotti che riescono a ridurre i consumi è più competitivo degli altri, ma anche chi offre sul mercato, per esempio alimentare, prodotti che sono certificati per la loro qualità ambientale, ha un vantaggio competitivo. La Coop ci insegna che con la caduta dei consumi, che è stata attorno al 30, 35%, c’è stato un aumento del 20% delle vendite dei cosiddetti prodotti verdi. Perciò c’è un vantaggio, nelle iniziative, nelle produzioni, nell’offerta di efficienza, nell’uso delle risorse naturali ed energetiche, però questo ha bisogno di un contesto perché altrimenti rimangono casi isolati, e il contesto in Italia ancora non c’è. Perché purtroppo il contesto in Italia sta continuando a premiare per inerzia, o perché abbiamo una struttura economica ancora troppo radicata nei primi anni della seconda metà del secolo scorso, per cui è molto difficile in Italia riuscire ad avere una fiscalità di vantaggio che premi l’innovazione, per esempio il risparmio energetico. Perché premiare il risparmio energetico vuol dire cambiare la struttura della generazione, della distribuzione e del consumo di energia. E noi abbiamo l’Italia piena di centrali termoelettriche, anche relativamente nuove, che come sapete producono più elettricità di quanto venga richiesta, che sono perciò in overcapacity, che perciò rappresentano in qualche modo una infrastruttura superata nella generazione di elettricità ma anche un peso enorme nella nostra economia, per cui non si riesce a lavorare su una fiscalità di vantaggio a favore dell’efficienza energetica perché questo spiazza la struttura industriale che è stata costruita negli anni ’50, ’60, ’70 e ’80, e che è ancora quella dominante. Salvaguardarla, non è una garanzia per il futuro ma una garanzia del ritardo dell’economia italiana rispetto a quello che si sta muovendo a livello europeo, e non solo. La stessa cosa vale per l’acqua. Io sono sbigottito quando si associa all’idea che l’acqua è un bene pubblico il fatto che l’acqua non debba essere oggetto di iniziativa economica. Non si capisce perché investire nell’uso efficiente delle risorse idriche voglia dire avere un vantaggio competitivo dal punto di vista economico per chi investe e garantire un servizio ai cittadini. Invece, stiamo entrando in un loop per cui, sostanzialmente, non si può investire perché l’investimento non deve essere redditizio, così che abbiamo metà dell’Italia che ha perdite dalle reti idriche che superano il 60%: in alcune regioni, stiamo al 75%. Abbiamo delle impalcature organizzative che vengono chiamate aziende che servono per erogare l’acqua e che sostanzialmente stanno a guardare uno spreco enorme di risorse idriche. Una fiscalità di vantaggio che desse un vantaggio economico a chi investe per un uso efficiente della risorsa idrica, crea una risposta ai cittadini e crea valore per chi investe in questi servizi. Ma questo è un altro dei temi sui quali purtroppo in Italia abbiamo grandissime difficoltà. E l’altra difficoltà enorme che abbiamo, proprio nel momento in cui dobbiamo affrontare la sfida della competitività, è quella delle regole ambientali. Io ho fatto di tutto, molti risultati li abbiamo ottenuti, non voglio darmi una martellata sui piedi. Però non abbiamo in Italia ancora la consapevolezza di quanto pesi sulla competitività del nostro Paese, sulla capacità di innovazione della nostra industria, la procedura amministrativa dell’autorizzazione ambientale. Un’autorizzazione ambientale in Germania o in Danimarca, che sono Paesi che hanno l’ambiente in cima ai loro obiettivi, prende dalle 5 alle 10 volte di tempo meno che in Italia. Perché in Italia si è costruita una burocrazia che ritiene che la lunghezza e la complicazione della procedura servano a garantire la qualità dell’ambiente. Invece, come ha detto il Procuratore della Repubblica di Napoli, a Bagnoli, dopo dieci anni di studi e di investimenti per capire come si fa a bonificare Bagnoli, che è inagibile, nessuna bonifica è stata fatta e nel frattempo ci sono conferenze di servizi aperte da dieci anni per capire come si fa a bonificare Bagnoli. Pensate se questo fosse avvenuto a Rotterdam, piuttosto che nella Ruhr o nelle altre zone industriali europee che hanno problemi analoghi. Ebbene, noi in Italia abbiamo come barriera per la riqualificazione ambientale del nostro territorio, per l’innovazione tecnologica, delle norme cosiddette ambientali che ci impediscono di fare gli investimenti che servono per migliorare l’ambiente e la nostra economia. Questi due pezzi, le regole fiscali da un lato e le regole diciamo amministrative dall’altro, sono palle al piede per lo sviluppo sostenibile del nostro Paese. A queste se ne aggiunge una terza, che riguarda purtroppo il modo col quale stiamo interpretando il patto di stabilità. Da Ministro, ho chiesto alla Commissione Europea se era possibile liberare dal vincolo del patto di stabilità gli investimenti necessari per la protezione del nostro territorio, per la prevenzione del dissesto idro-geologico, per l’adattamento al cambiamento climatico. La Commissione Europea ha detto che questo sta dentro i criteri del patto per la crescita e l’occupazione. Il Governatore Visco è intervenuto ripetutamente a ricordare che, proprio sul tema del dissesto idro-geologico, è molto più conveniente, dal punto di vista della riduzione del debito, investire piuttosto che correre dietro ai danni. Eppure siamo ancora fermi perché la cultura del debito, gestita prevalentemente dalla Ragioneria Generale dello Stato, è una cultura che non guarda il conto economico, non vede cioè se conviene di più investire per prevenire un danno piuttosto che correre dietro al danno quando questo si è generato. E la mancanza di questa visione, che è poi la mancanza della cultura della sostenibilità, sta creando situazioni imbarazzanti in Italia, perché ci sono regioni e comuni che hanno risorse pronte da spendere in cassa, che sono spesso colpite da fenomeni gravi di dissesto idro-geologico, e non possono spendere i soldi che hanno in cassa per difendere il proprio territorio. In questo modo si genera più debito perché quei soldi restano fermi ma ne servono altri, poi, per liberare le strade, per rimuovere le case che sono crollate, per rifare gli argini e via di questo passo. Sarebbe molto meglio fare una politica di prevenzione di medio periodo, che affronta questi temi per prevenire i danni, come abbiamo fatto presentando al CIPE il Piano per l’adattamento ai cambiamenti climatici del nostro Paese. Purtroppo su questo siamo ancora fermi.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie. Forse si può introdurre questo nella famosa “golden rule” che si discuterà adesso a Bruxelles, per non fare entrare investimenti infrastrutturali, e quindi forse anche quelli ambientali, nella determinazione del 3% della relazione PIL-debito, un tema già affrontato a giugno del 2012 dal Consiglio Europeo ma che non è stato chiuso. Sono trattative che si terranno a settembre al Consiglio Europeo. Allora, visto che vi siete tutti prenotati per un secondo round e avete già bene in mente cosa volete dire, mi permetto solo di riprendere un’osservazione che è emersa in modo esplicito da Leo Wencel, ma implicitamente da tutti i vostri contributi: tutti noi, qua presenti, facciamo parte del problema. Consumiamo acqua, consumiamo energia, utilizziamo risorse in un modo piuttosto che un altro, e quindi non possiamo pensare che qua ci siano le grandi aziende che gestiscono in un modo o in un altro l’ambiente e che noi siamo fuori e facciamo gli spettatori che dicono “va bene” o “va male”: facciamo tutti parte del gioco. Nel secondo step vi chiedo di essere molto sintetici e anche di fare un cenno a quel cambiamento culturale, perché qualsiasi cambiamento economico è sempre basato su un cambiamento culturale, prioritario da considerare in questo momento perché questo sviluppo può essere consistente e non solo superficiale, per quanto riguarda la gestione di alcune aziende e non solo il tessuto sociale nel quale avviene. Farei di nuovo gli interventi secondo l’ordine alfabetico, cominciando da Chiarini. So che vi chiedo un grande sacrificio di sintesi ma, ogni tanto, la sintesi aiuta anche la chiarezza. Grazie mille.

MAURIZIO CHIARINI:
Cercherò di essere rapidissimo riprendendo il ragionamento che ha fatto il dottor Clini, che condivido al 100%. Aggiungo un punto che è fondamentale per capire cosa si intende quando parliamo di crescita, di sostenibilità. Negli ultimi 5 anni, dal 2007 al 2012, in Italia il prodotto interno lordo, che certo non è l’unico indicatore ma comunque è un indicatore fondamentale della crescita del Paese, è calato del 6,9%. L’1,4% all’anno: quindi è un Paese che va verso la povertà. Gli elementi che sono alla base di questo calo sono prevalentemente la riduzione degli investimenti privati che spiegano questo calo nella misura del 6%. Che cosa è successo in questo Paese, in questi anni? Gli investitori italiani ed esteri non hanno più fiducia nel Paese e non investono. Molte delle ragioni sono quelle che ha detto con chiarezza il dott. Clini: se non si inverte questa tendenza, rischiamo di andare a sbattere, cioè che il Paese non riparta più. Non ho bisogno di ricordarvi i tassi di disoccupazione che hanno superato il 12,5% e la disoccupazione giovanile che è quasi al 40%. Senza gli investimenti privati, non si va da nessuna parte. E ho l‘impressione che qualcuno usi la sostenibilità in maniera demagogica, pensando che sostenibilità voglia dire non crescita. E’ questo l’errore fondamentale che sta alla base dei problemi che ha il Paese e del concetto errato di sostenibilità che c’è nella maggior parte della gente. Ci sono esempi lampanti, il dottor Clini li ha fatti chiaramente, nel settore idrico. Non ci torno sopra, anche se il referendum ce l’ho qua, ma lasciamo perdere. Prendiamo invece una cosa apparentemente molto sostenibile, il fatto che l’Italia, in pochissimi anni, è diventato il secondo Paese di produzione di energia elettrica da fotovoltaico. Uno dice: che bella cosa! No, non è una bella cosa, vi spiego il perché. Per fare questi investimenti massicci nel fotovoltaico, abbiamo speso e messo in campo una quantità di incentivi che oggi tutti quanti noi stiamo pagando, nelle nostre bollette di energia elettrica, nella misura di 11 miliardi all’anno. Vi ricordo che il Governo è lì che sta traballando perché si parla di 4 miliardi dell’Imu, Imu sì, Imu no, sembra che venga giù il mondo. Noi paghiamo nelle nostre bollette energetiche 11 miliardi all’anno per il finanziamento e l’incentivazione al fotovoltaico, con due conseguenze. Primo: il costo dell’energia elettrica in Italia è ancora largamente il più alto d’Europa, l’anno scorso è cresciuto del 15% a fronte di una media europea di crescita del 5%. Come fanno le imprese italiane ad essere competitive quando uno dei fattori fondamentali del costo di produzione, cioè l’energia elettrica, continua ad essere il costo più alto a livello europeo? Quindi, si fa fatica a pensare che questo sia un approccio sostenibile al tema della produzione di energia elettrica. Secondo effetto, citato già dal dott. Clini: in questi ultimi dieci anni, siccome l’Italia è sempre stato un Paese deficitario dal punto di vista della produzione di energia elettrica, abbiamo sempre comprato energia elettrica dalla Francia, dalla Svizzera, che la producevano attraverso le centrali nucleari. Da una decina d’anni, molti produttori hanno detto: vuoi vedere che forse investire nelle centrali di produzione di energia elettrica non è tanto sbagliato? E così è stato. Ci sono stati dieci anni di investimenti importanti nelle centrali turbogas, che sono centrali di produzione di energia elettrica attraverso l’uso del gas, quindi a impatto ambientale 0. Siamo riusciti a mettere insieme un disastro complessivo: bollette dei cittadini, costo dell’energia elettrica più alta e impianti realizzati che non funzionano. Allora, attenzione: c’è la sostenibilità vera, che è quella di cui si è parlato molto oggi, e c’è la sostenibilità demagogica, che è la sostenibilità contro lo sviluppo economico.

BERNHARD SCHOLZ:
Infatti, io penso che uno dei temi più difficili, uno dei problemi più gravi che abbiamo, è questo: più la società diventa complessa, e l’ecologia sicuramente è un fattore di complessità enorme nella sua comprensione, più si diventa ideologici, cioè si riduce tutto a due, tre schemi con i quali si cerca di affrontare le cose. Penso che incontri come questi siano importanti anche per poter affrontare la complessità che abbiamo di fronte, non possiamo esentarci, potendo entrare in merito e comprendendo le dinamiche che, altrimenti, vengono sempre ridotte a due, tre formule ideologiche. Confuorti, questo tra l’altro vale anche per l’economia, ma non è il tema di oggi.

FRANCESCO CONFUORTI:
La cosa importante che secondo noi può avere un impatto positivo per l’Italia e per gli italiani è che i sistemi economici moderni sono sufficientemente de-correlati. Si possono avere delle enclavi di sostenibilità e di attività specifiche che possono veramente diventare un volano. Su questo abbiamo cercato di prendere i dati che sono sul mercato e in Italia: non ce ne sono, siamo all’era della preistoria. Analizzare i bilanci italiani per far sì che le aziende possano avere un miglioramento è molto difficile: una preghiera, un sogno, è che in Italia si inizino a mettere assieme i dati per verificare dove il nostro sistema sta facendo acqua. Sappiamo che sta facendo acqua da tanti posti però, su sostenibilità ed ecologia, il nostro sistema non ha dati di riferimento, a differenza dell’America, del Giappone e di tanti altri Paesi. L’unico settore dell’economia che misura l’ecologia in maniera economica vera è la ri-assicurazione perché misura a medio, lungo termine gli effetti di quelle che possono essere le catastrofi sulle quali vengono prezzate le varie polizze. L’Italia è un Paese in cui non ci sono per le aziende medio-piccole, stiamo cercando di metterle assieme. Tra le grosse aziende, quelle italiane sono poche o assenti. Cosa sta facendo Advance Financial? Ha preso 3.000 dati e li ha riportati in uno: ci fanno capire che in Italia l’uso della sostenibilità e dell’ecologia può diventare un volano di grande propensione al futuro, alla ricerca e all’occupazione giovanile. Su queste basi, abbiamo promosso un premio che si chiama “Costruire”, dove andiamo a cercare le aree di dissesto per fare un progetto economico profittevole: infatti noi crediamo nel profitto e nell’azienda privata, non crediamo molto nello Stato e, diciamola tutta, specialmente nello Stato italiano, perché non sembra in grado di accedere a quelle visioni che il Ministro Clini aveva già nel 2012. Su queste basi, cerchiamo di portare un modello innovativo su un territorio, su dei progetti particolari, dove l’uso della sostenibilità per le medie e piccole aziende, per i giovani, sia fattore fondamentale di crescita. Insieme a questo, ripeto che la fiscalità è un oggetto importante per una democrazia economica che voglia essere leader; la fiscalità moderna va pensata in maniera di uso e di consumi, come accade per le economie evolute, tra cui gli Stati Uniti, invece di una fiscalità onerosa che poi va a bloccare tutte le forme di sviluppo e di contenimento di sprechi. Grazie.

BERNHARD SCHOLZ:
Mario Guidi.

MARIO GUIDI:
Io la metto così, la crisi ha influito su tutti noi e anche sul mio umore. Di solito sono di umore stabile, abbastanza positivo e ottimista, anche nel fare l’agricoltore. Adesso il mio umore è soggetto a sbalzi: a volte mi alzo la mattina con una gravissima preoccupazione sul futuro mio, di questo Paese, dei miei amici, della mia famiglia, altre volte, con grande entusiasmo perché, come dicevo prima, dalla crisi possiamo uscire migliori. Stamattina, per non perdere il contatto con la realtà, sono andato all’ufficio del Catasto del comune di Ferrara per fare un documento. Ho ritirato un ticket che diceva che dovevo andare al numero B5, mi appaleso al funzionario B5, gli espongo la pratica da fare e lui mi dice: “No”. Poi fa: “Marina o Giuseppe?”. Prendo un altro biglietto, per il B7, mi ritrovo da lui e chiedo se posso andare: “No” dice, “la signora Marina non la può ricevere se non ha il biglietto”. Insomma, per dire che questo Paese ha bisogno di un profondo cambio di mentalità. E’ sbagliata la regola per cui il funzionario non mi può accogliere se non ho il biglietto, o ha sbagliato il funzionario che applica la regola pedissequamente, senza capire che io posso stare lì anche due ore e pescare sempre i biglietti B abbinati al funzionario che non riesce a sbrigare la mia pratica? Noi dobbiamo agire su diversi versanti: è un’emergenza anche la scuola, è una emergenza la formazione. Se c’è un’emergenza uomo, c’è un’emergenza formazione degli uomini, e questo Paese deve avere la capacità di fare oggi, il più rapidamente possibile, delle scelte di lungo periodo per diventare, fra non troppi anni, un Paese normale. Un Paese che riconosca, per esempio, nell’impresa un fattore di produzione positivo, un fattore di socialità positiva, che riconosca che non è nemico delle imprese perché una delle difficoltà di questo Paese è che ci sia una capacità di rappresentanza di cittadini e imprese. Oggi pomeriggio il mio umore è cambiato, sono venuto al Meeting, ho visto tantissima gente, tantissimi giovani con cui parlare: penso che dalla discussione, dal confronto che si sta facendo, ci sia una capacità di sviluppo per questo Paese. Certo, ci dobbiamo rimboccare le maniche, cosa altro possiamo fare? Confagricoltura ha fatto cose che non aveva mai fatto, ha messo in piedi un ufficio di collocamento, si chiama “Agrijob”, che mette in contatto l’offerta con la domanda di lavoro. Lo dobbiamo fare per le nostre imprese, per garantire che questo contatto tra il pubblico e il privato dia la maggiore efficienza. Tutti dobbiamo avere un apporto positivo, superando le difficoltà che questo Paese si è creato, che tutti noi abbiamo contribuito a creare. Certo, oggi le priorità sono forse troppe, si fa fatica a discernere quale siano le più importanti, occorre però mettere in campo tutti gli strumenti e tutte le capacità, soprattutto la prima capacità italiana, quella di trasformare i prodotti, l’ingegno. Io dico ai miei agricoltori: “Noi siamo bravi a produrre grano, siamo bravi a produrre pomodori, siamo stati bravissimi a produrre un prodotto eccezionale come la mozzarella di bufala. Ma quello che vi ha messo insieme e ha fatto la pizza, ah!, quello sì, è stato veramente in gamba! Allora, interpretare l’agricoltura, il settore agro-alimentare che è il 17% del prodotto interno lordo in questo Paese, non con la visione romantica che spesso passa sulle televisioni e sui giornali, per cui è ancora bello fare il contadino. Io vengo da una famiglia di contadini ma ci abbiamo messo tutta la vita a diventare agricoltori, stiamo tentando di diventare imprenditori: non riportateci sempre indietro ad un tempo che nessuno vuole se non da un punto di vista romantico. Portare al centro l’agricoltura, l’agroalimentare, investire perché tutela del territorio e qualità della vita è un Made in Italy esportabile in tutto il mondo, un settore su cui investire. Ogni euro che verrà messo in agricoltura, nell’agroalimentare, sarà restituito dieci volte. Concludo con una battuta. Quando mi chiedevano: “Che cosa vorresti per l’agricoltura?”, rispondevo “La diffusione della banda larga in tutto il Paese”. E ai miei agricoltori si accapponava la pelle. “Come? No! Devi chiedere risorse, soldi per investire sul settore…”. No, non è più questo, il tempo. Il 2011 ci deve insegnare che il tempo di oggi è costruire nuove regole, nuove norme che creino un ambiente favorevole allo sviluppo delle imprese e degli uomini. E’ una società di tipo diverso e la banda larga, la connessione delle agricolture che si fanno sulle montagne della Sicilia, del Trentino e della pianura padana è lo strumento per connettersi con un mondo. Essere connessi è un po’ come il Meeting, stare insieme è un fattore di sviluppo: ognuno porta il suo pezzettino del Lego e, in maniera coordinata, si può costruire una bellissima cosa.

GIUSEPPE NUCCI:
La parola nucleare di solito evoca sempre delle giuste paure, però io penso che se riusciamo a far capire che la bonifica nucleare è un fatto necessario per mettere in sicurezza tutte le cose che abbiamo in questo Paese, abbiamo raggiunto un bel risultato. Peraltro, la bonifica nucleare non è soltanto di questo Paese ma di fatto si è aperta in tutto il mondo, creando quelle opportunità di occupazione per i giovani di cui parlavo prima. In Italia saranno circa 15.000 gli occupati dei prossimi anni nell’indotto di questa attività. E’ un’attività che qualcuno deve fare, perché ovviamente abbiamo questa eredità che aumenta anno per anno: parliamo di prodotti, rifiuti medicali radioattivi industriali. Ovviamente, non c’è bonifica senza rispetto delle regole. Il fatto che questa azienda abbia fatto il 24% in più in 24 mesi, vuol dire che ha ricevuto le autorizzazioni e siamo passati da 24 a 150. Perché il Parlamento, circa un anno e mezzo fa, con la Legge 31, articolo 24, ha permesso regole chiare per Sogin e quindi per la bonifica nucleare: in tal modo, ha consentito di avere idee chiare sia a quelli che dovevano andare in altre direzioni sia a quelli che dovevano procedere nella bonifica. Questo vuol dire aumento di fatturati per le aziende che lavorano con noi, a cominciare da Ansaldo nucleare e tutte le altre; vuol dire anche sicurezza, certezza di tempi e di costi. Non a caso, abbiamo risparmiato durante questi due anni un miliardo e 70 milioni di euro a parità di perimetro. La bonifica e la messa in sicurezza sono un fatto dovuto, un fatto di civiltà, è un fatto che accade in altri Paesi e penso debba accadere anche in Italia. E mi permetto di dire che una società di Stato, in questo caso, funziona, sono onorato che funzioni e che rappresenti degnamente lo Stato Italiano. Grazie.

LEO WENCEL:
Io penso che sostenibilità e crescita siano due parole che vanno insieme. Sono assolutamente convinto che in futuro non ci sia possibilità di crescere a lungo termine senza sostenibilità. Adesso, in Italia, il 70% dei consumatori tiene in considerazione la questione o cambia i prodotti che non prevedono sostenibilità, come il 50% in Germania cambia prodotti che non sono fatti con regole di sostenibilità. Non parliamo di un hobby ma del lavoro del futuro. In Germania, per avviare un parco eolico-fotovoltaico servono due anni e sei mesi, in Italia 5 o 6 anni, il doppio del tempo. In Italia manca capitale d’innovazione, capace cioè di generare aumenti della produttività del lavoro. Secondo uno studio McKinsey, l’Italia occupa la penultima posizione tra i 16 Paesi presi in considerazione per l’incidenza che l’innovation capital ha sul PIL, fermandosi al 26% contro il 51% degli Usa o il 35% della Francia. Dobbiamo creare le condizioni per cui questo capitale d’innovazione possa svilupparsi per rendere il nostro Paese competitivo. In Nestlé crediamo alla creazione di valore condiviso per tutti. Sostenibilità per il futuro è anche creare lavoro per i giovani. Nestlé ha recentemente lanciato un piano chiamato Youth Employment Initiative, con il quale intende aiutare almeno 20.000 giovani sotto i 30 anni a trovare lavoro nei prossimi 3 anni. Per Nestlé, significa il 20% circa dell’attuale popolazione aziendale. E’ anche questo un elemento del futuro. Ciascuno di noi è parte della soluzione. L’ambiente e la società sono il risultato delle azioni di tutte le persone che compongono la comunità. Ogni persona, con le proprie azioni e il modo in cui le svolge, influenza l’ambiente e la società. L’uomo è al centro: siamo tutti parte della soluzione e il nostro impegno può fare la differenza. Noi in Nestlé lo sappiamo bene, perché i risultati ottenuti nella tutela delle risorse ambientali e umane sono stati possibili proprio grazie all’impegno di tutte le persone che lavorano in azienda. Se questa combinazione virtuosa è potuta avvenire in un’azienda, pensate quanto migliore può diventare il nostro Paese, il nostro ambiente, il nostro tessuto sociale, se tutti faranno la loro parte. Gli obiettivi che ci poniamo sono difficili e sfidanti. Però, con l’impegno delle aziende, delle istituzioni, della società civile, siamo sicuri che li potremo conseguire. E potremo guardare negli occhi con serenità i nostri giovani, i nostri figli.

CORRADO CLINI:
Quando Guidi dice “la priorità è la banda larga”, dà esattamente l’idea di come dobbiamo concentrare la nostra attenzione immaginando quello che avremo di fronte di qui a qualche anno, che qualche volta abbiamo già di fronte. Quando Chiarini fa la sua puntualizzazione sugli 11 miliardi per il fotovoltaico che noi tutti stiamo spendendo, fa una considerazione che riguarda un dato di politica energetica sbagliata che risale alla metà degli anni Novanta, quando contemporaneamente avevamo il Cip6, cioè l’incentivo per le industrie tradizionali, sostanzialmente pagato da tutti, avevamo avviato la politica per lo sblocco centrale, cioè per costruire centrali termoelettriche in Italia che rispondessero alla domanda di energia. Contemporaneamente abbiamo avviato, per effetto anche di una Direttiva europea sulle fonti di energia rinnovabili, il programma per le fonti rinnovabili. A questo abbiamo pure aggiunto il piano per i gassificatori. Tutte queste cose insieme, attaccate l’una all’altra senza una visione di politica energetica, evidentemente generano i risultati che hanno generato, le vecchie o le seminuove centrali termoelettriche italiane che sono chiuse o sono al 40%. Gli incentivi, in particolare per il fotovoltaico, sono andati per la gran parte a produttori che hanno esportato in Italia. Di impianti di gassificazione se ne faranno tre e saranno più che sufficienti, perché non c’era tutta questa domanda. Allora, come per la banda larga sull’energia, a che cosa dobbiamo pensare oggi? Qual è la domanda che c’è, a livello internazionale, di tecnologia? Tecnologia ad alta efficienza, a basse emissioni di carbonio, possibilmente concentrate per i servizi energetici in ambito urbano. Cosa dovremmo fare per legare sostenibilità e crescita nel settore energetico, qual è esattamente il tipo di offerta che l’industria italiana può mettere, a livello europeo e internazionale, per essere competitiva? Perché l’industria italiana non può più essere competitiva a produrre le caldaie, le grandi caldaie per le grandi centrali termoelettriche, ma neanche a fare grandi tubi perché ormai in Cina, piuttosto che in Brasile e in India, le produzioni sono di altissima qualità e il costo è molto basso. Bisogna entrare in quel mercato delle fonti rinnovabili, dell’efficienza energetica, delle reti intelligenti sulle quali esiste ancora un’elevata capacità competitiva del nostro Paese, guardando cosa sta facendo la Corea del Sud, che investe su questo il 4% del prodotto interno lordo ed è un Paese molto simile all’Italia. Noi siamo molto più in basso. Questa è la logica con la quale sostenibilità e crescita si legano: investire nelle tecnologie che rispondono alla domanda di protezione dell’ambiente e di conservazione delle risorse naturali, rispondendo contemporaneamente alla domanda di crescita economica. Questa è la chiave e su questo bisogna investire, su questo in Italia si investe poco, per i vincoli che ci sono, che abbiamo ricordato prima, ma anche perché manca la cultura dell’impresa. E non parliamo della pubblica amministrazione orientata in questa direzione. Abbiamo messo a disposizione di Taranto 70 milioni di euro per erogare crediti allo 0.5%, a lungo termine, di dieci anni, per le imprese che vogliono investire a Taranto in settori innovativi e che assumano giovani che hanno un’età inferiore a trentacinque anni. Non è arrivata una domanda, eppure abbiamo lavorato con Confindustria, abbiamo lavorato a livello locale: ora ci stiamo riprovando. C’è un problema anche di questo tipo, che va affrontato a livello nazionale e che riguarda la visione che l’impresa ha del proprio futuro e del proprio business, perché se la visione dell’impresa Taranto è di essere impresa di manutenzione e pulizie nell’Ilva o nel porto, non c’è speranza di sviluppo. Noi abbiamo fatto tutto per l’Ilva, perché rappresenta una tecnologia importante, ancora decisiva in Italia, ma non sicuramente la tecnologia del futuro sulla quale si può fare crescita. E quando però si confronta e si sfida l’impresa a lavorare sull’innovazione e sulla crescita, la risposta non è poi così pronta, così rapida e così disponibile. Grazie.

BERNHARD SCHOLZ:
Quando nel 2008 scoppiò la crisi finanziaria in America, si parlò subito delle banche, della finanza. Da un certo punto di vista era inevitabile, però, quando tutto questo successe, mi accorsi che ci sono problemi che riguardano tutti e, per questa ragione, vengono anonimizzati: le banche, lo Stato. Dobbiamo renderci conto che tutte queste cose succedono perché qualcuno ha preso certe decisioni, un amministratore delegato ha deciso una certa cosa, un impiegato ha fatto certe scelte. Dobbiamo ritornare a prendere coscienza che ognuno di noi influenza, attraverso le sue decisioni, in modo più o meno importante, a seconda delle responsabilità che ha, il futuro del mondo. Non è una enfatizzazione del piccolo, è un dato di realismo che, soprattutto nel sistema ambientale, è ancora più evidente che in altri settori, perché come ognuno di noi utilizza le risorse influenza anche l’ambiente. Se un presidente o un’associazione dice che la banda larga è più importante di incentivi di altro tipo, vuol dire che dà un indirizzo. Secondo me, dobbiamo avere più fiducia e discutere sui criteri decisionali che abbiamo, perché questo a monte crea tutte le conseguenze che incidono su quello che facciamo. Perché dico questo? Perché al Meeting incontro tanti che sembrano non incidere, immediatamente. Ma io sono convinto che il Meeting è un luogo dove si condividono criteri culturali, approcci, ideali, idee, dove si coglie l’esperienza e la conoscenza, che non hanno un effetto immediato ma un effetto implicito molto potente. Occorrono luoghi di condivisione di criteri, di scelte, dove la gente ascolta, si informa, si forma la mentalità, per uscire da quelle terribili semplificazioni dove ognuno va avanti per personalismi, per protesta o per altri criteri completamente inadeguati alle complessità che dobbiamo affrontare insieme. Per questo vi ringrazio per la vostra pazienza e spero che sia stato un incontro utile per le decisioni e le scelte che dovrete prendere, in famiglia, nelle aziende e nelle istituzioni dove lavorate.
Trascrizione non rivista dai relatori

Data

19 Agosto 2013

Ora

15:00

Edizione

2013

Luogo

Sala D3
Categoria
Incontri