
Dal 2 al 4 dicembre scorso la mostra allestita al Meeting nel 2014 dal titolo “Un dramma avvolto di splendori. Uomini e donne al lavoro nella pittura di Jean François Millet” è stata esposta in Bocconi, a Milano. Vi proponiamo l’intervista ad una delle organizzatrici, Carla Sacchi.
Com’è nata l’idea di proporre la mostra nella vostra città?
L’idea di proporre la mostra di Millet a Milano, e più nello specifico nella nostra università (Bocconi), è nata quando l’abbiamo vista al Meeting e ne siamo rimasti affascinati. Confrontandoci tra di noi, subito dopo aver sentito la visita guidata, ci siamo trovati tutti colpiti dalla concezione del lavoro che Millet ha così sapientemente espresso nei suoi quadri. Quella mostra parlava innanzitutto a noi, del nostro lavoro futuro e dell’attuale fatica che viviamo nello studio e in alcuni momenti della vita. Ci è venuta allora l‘idea di portarla in Bocconi, principalmente perché siamo coscienti che la nostra università punta molto sul formare studenti che siano quanto più brillanti e determinati nel loro lavoro, ma lascia poco spazio a una riflessione personale sul significato stesso del lavoro e dello studio. Era questo che ultimamente desideravamo mostrare ai nostri compagni e professori: un’idea del lavoro con cui potessero confrontarsi, in alternativa a quella che la nostra università, roccaforte della concezione “moderna” del lavoro, insiste nel metterci davanti ogni giorno.
Abbiamo avuto fin da subito la conferma di non essere i soli a sentire l’esigenza di paragonarsi con “una voce fuori dal coro” come Millet. Infatti, già nell’invitare alcuni professori all’incontro di presentazione della mostra, che abbiamo organizzato la settimana precedente l’esposizione, ci siamo accorti che questo tema stava a cuore a molti.
Ad esempio dice una di noi: “Quando abbiamo cominciato ad invitare i nostri amici alla mostra di Millet, ho deciso di invitare la mia professoressa di Bilancio, la quale si era dimostrata sempre molto disponibile nei nostri confronti e molto desiderosa di entrare in relazione con i suoi studenti. Mi ha colto di sorpresa la sua reazione: era entusiasta che degli studenti avessero deciso di portare qualcosa da far vedere a tutti in università. Quando la mostra è stata allestita, lei stessa ha ricordato a tutta la classe che ci sarebbe stata e l’ultimo giorno mi ha chiesto di spiegargliela. È stata un’ora molto intensa, in cui io le spiegavo la mostra e lei mi riempiva di domande. Mi ha molto colpito la sua osservazione a proposito del lavoro contadino: lei diceva che quell’occupazione più facilmente fa rendere conto di come l’uomo dipenda; infatti, chi semina non può sapere come sarà il raccolto, ma può solo affidarsi ad un Altro e chiedere che sia buono. Dall’altra parte, invece, nella nostra società sembra che la vita la costruiamo noi, a partire dal curriculum universitario fino alla carriera lavorativa. Tutto sembra basarsi su di noi e sul nostro impegno, senza che si dia mai spazio ad un Altro, che lo stesso Millet mette così tanto a tema. È stato stupefacente mostrare una realtà così vera e così pertinente in un luogo dove siamo poco abituati a parlare delle verità ultime”.
Quale ruolo hai ricoperto nella mostra (organizzatore, curatore, ecc.)? Ci sono stati dei volontari che hanno partecipato alla mostra e in che modo si sono coinvolti?
La mostra è stata organizzata attraverso la nostra associazione studentesca, “Obiettivo Studenti”. Una decina di noi si è presa a cuore l’iniziativa e ha studiato il materiale in modo da poter poi fare le visite guidate a tutti. Abbiamo inoltre invitato la curatrice Mariella Carlotti a presentare la mostra, per un incontro di introduzione aperto a tutti. In questa occasione, abbiamo chiesto anche a due professori della Bocconi di intervenire, per raccontare la loro reazione al messaggio di Millet, alla luce della loro personale esperienza.
C’è stata molta affluenza? In particolare chi sono stati i maggiori fruitori della mostra: giovani, meno giovani, adulti, bambini o scuole?
C’è stata moltissima affluenza, sia all’incontro di presentazione – hanno partecipato all’incirca 120 studenti e una decina di professori – sia alla mostra, dove in totale circa 300 studenti si sono fermati per la visita guidata, oltre a molti altri che sono passati a vedere i pannelli.
Ci racconteresti la tua personale esperienza in mostra: persone incontrate, fatti accaduti, aneddoti, persone e realtà coinvolte o testimonianze particolari?
Abbiamo allestito la mostra nell’atrio dell’edificio dell’università dove si tiene la gran parte delle lezioni, e che perciò è uno dei punti di maggiore passaggio degli studenti. Molti perciò si fermavano perché colpiti semplicemente dal fatto che ci fosse una cosa inconsueta e particolarmente bella al centro dell’atrio.
Sebbene all’inizio avessimo un po’ il timore che il lato artistico della mostra non venisse apprezzato, in quanto molto distante da quello che studiamo, si è rivelato proprio quello che ha catalizzato l’attenzione iniziale di chiunque passasse, facendoli fermare ad ammirare i pannelli. In tanti, poi, rimanevano volentieri a seguire la visita guidata che proponevamo loro, che è stata occasione ricca di incontri e dialoghi inaspettati.
Da un lato, noi che spiegavamo ci siamo trovati ad essere sinceri e liberi coi nostri compagni: infatti, spiegare i vari pannelli era momento di confronto in cui ci siamo spesso accorti di dettagli, sfumature e considerazioni che non avevamo notato nello studiare la mostra. Riportiamo alcuni degli aneddoti successi.
Mentre spiegavamo il quadro de “I piantatori di patate”, dove ci sono due contadini chinati a piantare patate appunto, e sullo sfondo un albero che fa ombra ad una culla, un ragazzo ci ha fatto notare che poteva essere un modo personalissimo di Millet di rappresentare la natività. Ci siamo sorpresi a poter imparare da quei compagni su cui in molti casi difficilmente avremmo scommesso.
Oppure, mentre facevamo fare il giro in inglese a una ragazza cinese, che aveva il viso proprio serio e non si riusciva a capire se stesse seguendo il filo del discorso, davanti al quadro dell’Angelus le diciamo: “Qui ci sono due contadini che interrompono il lavoro per pregare: l’uomo ha bisogno di ricordarsi chi è, la fatica non lo annienta, ma lo spinge a chiedersi il senso di quel che fa. E nella religione cristiana la fatica è il modo per partecipare alla creazione di Dio, cioè accettando il nostro piccolo e umile lavoro collaboriamo con Dio. Ma stai capendo?” E lei inizia a sorridere e dice: “Si si, è proprio vero! Lavorare è questo!”.
Racconta un’altra di noi: “Alla fine della mostra, un compagno di classe mi dice: ‘Ho capito il punto, Millet non dipinge quello che vede, ma la sua idea ideale di lavoro, perché lavorare così è impossibile per l’uomo’. E a rispondergli inaspettatamente non sono io, ma uno degli altri compagni che gli dicono: ‘Non è vero, questa coscienza del lavoro non è solo un sogno per l’uomo. È difficile, soprattutto per molte condizioni per cui oggigiorno la gente imposta il lavoro senza pensare che il lavoro può essere così ‘sacro’, ma questo non è impossibile. Io lo ho vissuto, e l’ho visto vivere ad altri.’
Al termine della visita guidata, un altro ragazzo che aveva continuato a mettere giù le telefonate che riceveva con insistenza durante il giro, dice: “Grazie, adesso posso rispondere al telefono, perché finalmente oggi ho qualcosa da raccontare a mia madre”.
Perciò, crediamo che la mostra sia stata non solo uno spunto di riflessione destinato a scemare poco dopo, ma un’occasione di arricchimento personale per tutti. Prima di tutto a livello personale: non era più lo stesso il rapporto con i compagni dopo che avevamo avuto modo di raccontare di noi attraverso i pannelli della mostra. Il fatto di aver condiviso coi compagni di classe ciò che di più profondo troviamo nella fatica dello studio, ha reso il ritorno in classe proprio diverso dal solito.
Da ultimo, siamo anche usciti dai confini dell’università, perché una nostra amica ci ha chiesto di andare nell’oratorio dove fa l’educatrice al gruppo degli adolescenti per raccontare la mostra di Millet. E’ stato un gesto molto semplice: questi ragazzi vengono da storie e situazioni complicate, e magari non sono stati attentissimi e silenziosi durante la presentazione, eppure è stata grande l’opportunità di dire loro la bellezza che Millet – e indirettamente noi – abbiamo visto.
Tutto questo ci ha fatto stupire ancora una volta dell’intelligenza di alcuni strumenti che il movimento di Comunione e Liberazione ci offre per entrare in dialogo con le persone con cui viviamo, e con cui spesso ci viene più facile fermarci a discorsi superficiali, piuttosto che parlare di noi e di quel che più ci sta a cuore. Come già era successo grazie alla visione in università del video dei 60 anni dalla nascita del movimento, anche la mostra è stata un mezzo privilegiato per esporci con libertà e incontrare personalmente studenti e professori che condividono con noi la vita universitaria.
Come alcuni ringraziandoci hanno detto: “Una cosa così andava proprio fatta, ogni tanto abbiamo davvero bisogno di fermarci e riflettere sul senso di quello che facciamo ogni giorno”.
Foto e video sono disponibili al seguente link:
https://www.facebook.com/obiettivostud/photos/
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