
La mostra del Meeting 2011 dal titolo “Ante Gradus. Quando la certezza diventa creativa. Gli affreschi del Pellegrinaio di Santa Maria della Scala a Siena” è stata allestita all’Università di Ancona dal 24 al 29 novembre scorso. Una bella esperienza per Marco Santarelli e i suoi amici Marco, Carmine, Silvia e Chiara. Li abbiamo intervistati.
Com’è nata l’idea di proporre la mostra nella vostra città?
Marco S.:
La motivazione che ha portato alla scelta di proporre tale mostra a Medicina è scaturita in seguito a diversi fatti che mi hanno coinvolto in prima persona. Nella nostra Facoltà sono previsti dei tirocini per le cliniche, a termine delle lezioni semestrali. Io e gli altri miei compagni di corso siamo stati per 4 giorni presso la clinica di cardiologia. Durante il giro visite ci siamo imbattuti in un paziente affetto da un tumore al polmone, oltre ai problemi cardiaci preesistenti, che ancora non gli era stato comunicato ufficialmente dal personale medico. Il professore incaricato di seguirci durante il tirocinio ci disse di andare a visitare il paziente ma di non dirgli niente della sua nuova condizione clinica. Una volta arrivati al suo letto, abbiamo visto che la persona in questione era agitato e di cattivo umore. I miei compagni dissero che era meglio lasciar stare, che non valeva la pena andare lì a rompergli le scatole solamente perché dovevamo auscultare il suo cuore e capire di quale malattia cardiaca fosse affetto. Io, del tutto inconsciamente, ho insistito, dicendo che almeno avrei avuto il desiderio di conoscerlo, fargli delle domande e poi di visitarlo se era possibile. Con tutta la mia inesperienza ed il mio impaccio mi sono avvicinato al paziente. Mi sono presentato, gli ho chiesto come si chiamava e dopo alcune domande gli ho chiesto se era disponibile a farsi visitare. Il malato si è reso disponibile per farsi auscultare il cuore. Mentre stavo facendo l’esame obiettivo, ho alzato gli occhi verso il paziente che, incrociando i miei occhi, mi disse queste parole: “Non vale la pena vivere in questo modo!”. I miei compagni non sapevano che fare, cosa rispondere. Stando di fronte al dramma di quella persona, i miei sforzi nel cercare di consolarlo e di dirgli qualche frase per rassicurarlo erano totalmente inutili. Più guardavo quegli occhi desiderosi di essere amato totalmente, più anch’io mi accorgevo bisognoso di essere amato come lui. Nella mia vita solo lo sguardo che Cristo ha avuto su di me, tramite le persone del movimento che ho conosciuto in questi anni, poteva permettermi di stare di fronte a quel signore sul letto di un ospedale. Dopo averlo visitato, l’unico gesto che ho fatto su di lui è stata una carezza sulla fronte mentre lo salutavo. Non mi scorderò mai i suoi occhi che piangevano mentre lo accarezzavo. Prima di entrare in quella stanza ero in uno stato d’ansia; quando sono uscito, invece, mi sono ritrovato lieto e grato per quell’esperienza. La cosa che più mi ha sorpreso è stato l’atteggiamento dei compagni nei miei confronti: mi domandavano come riuscivo a stare di fronte a queste situazioni ed ogni qualvolta che entravamo in stanze con pazienti che avevano condizioni critiche mi chiedevano se potevo rompere il ghiaccio ed instaurare un rapporto con questi.
Di fronte a questo fatto, ho cominciato a prendere sul serio l’idea di portare la mostra nella mia facoltà per rispondere alle domande che mi hanno posto i miei amici. Io nella vita ho incontrato Cristo e questa Presenza è talmente certa che riesco a stare di fronte a tutto quello che mi accade nel reale, anche se di primo acchito è incomprensibile. L’esempio di “Ante Gradus” è questo: un popolo che donava parte del suo tempo o tutta la vita per la costruzione di quest’opera di carità, non per puro volontariato, ma perché nella loro vita avevano incontrato Cristo.
Quale ruolo hai ricoperto nella mostra (organizzatore, curatore, ecc.)?
Marco S.:
Nella mostra ho ricoperto il ruolo di organizzatore e guida.
Ci sono stati dei volontari che hanno partecipato alla mostra e in che modo si sono coinvolti?
Marco S.:
Si, ci sono stati 4 miei amici che hanno dato la propria disponibilità per fare da guida durante la mostra. Con loro ci siamo trovati diverse volte assieme per vedere come andava lo studio della mostra, se avevamo delle difficoltà. E’ stato davvero un grande lavoro, perché ognuno di noi si è messo in gioco totalmente affinché l’esperienza della mostra non fosse limitata per quella settimana di esposizione, ma fosse d’aiuto per noi in tutte le circostanze. Il metodo di lavoro era quello di raccontare quello che più ci ha colpito del testo del catalogo e poi rapportarlo con l’esperienza che facciamo tutti i giorni (quando hai lezione, quando studi, quando vai a tirocinio…).
Silvia:
Per me studiare la mostra, in particolare osservando i dettagli degli affreschi, lasciandomi colpire, è stato scoprirmi affascinata e rapita dallo sguardo degli oblati sui bisognosi e i malati. Questa evidenza, soprattutto dovendola testimoniare agli amici che sono venuti a vedere la mostra, mi ha costretto ad approfondire e a chiedermi se è lo stesso sguardo gratuito che ho io, se è lo sguardo che desidero imparare il prossimo anno andando in tirocinio e ad avere di fronte alle persone che incontro nella giornata di oggi; perché questo sguardo libera dalla condizione in cui ci si trova e che si ha davanti agli occhi. Ho scolpite in testa certe scene e intensità di volti (quasi che trapassava il muro) del pellegrinaio, che ormai niente può togliermi, come memoria degli occhi e il cuore che desidero avere. Studiare e riproporre alla gente la storia del pellegrinaio (prendendone così più consistenza) E’ stata un’occasione per accorgermi di più e “fare un pezzettino” della strada che ho scelto.
Marco O.:
Sono grato dell’esperienza della mostra perché studiando la storia dell’ospedale di Santa Maria della Scala mi ha colpito molto il fatto che gli oblati non hanno fatto progetti particolari per l’opera ma hanno solo seguito il loro bisogno e il bisogno che avevano i cittadini di Siena.
Si sono completamente affidati a Dio, certi che quell’ospedale era nelle Sue mani.
Questo mi colpisce molto perché spesso mi accorgo di volere avere tutto sotto controllo, e questo mi fa affogare. Quindi desidero imparare questo affidamento.
Inoltre mi hanno molto colpito gli sguardi descritti negli affreschi e in particolare quello che hanno gli oblati nell’affresco “Cura degli infermi”: è uno sguardo carico di affezione verso un giovane con una profonda ferita alla coscia. Ho pensato che magari era la trentesima persona che incontravano quella giornata ma quei due oblati hanno ancora lo stupore del primo paziente, perché in lui riconoscono Cristo. E quindi non possono che accoglierlo in quel modo: lavandogli i piedi prima di curargli la ferita, perché il malato per loro viene prima della malattia.
Probabilmente è solo un affresco. Ma quello sguardo l’ho incontrato e ho visto che è possibile.
E cerco proprio questa posizione di fronte allo studio e di fronte alle persone che incontro, e davanti ai miei compagni di appartamento.
C’è stata molta affluenza? In particolare chi sono stati i maggiori fruitori della mostra: giovani, meno giovani, adulti, bambini o scuole?
Marco S.:
L’affluenza non è stata elevata. Principalmente sono venuti studenti della facoltà di medicina, ma anche nostri amici di altre facoltà.
Ci racconteresti la tua personale esperienza in mostra: persone incontrate, fatti accaduti, aneddoti, persone e realtà coinvolte o testimonianze particolari?
Marco S.:
Per me ci sono stati 2 incontri che più mi hanno colpito. Il primo è stato durante il primo giorno di esposizione. Stavo per cominciare la spiegazione della mostra quando ad un certo punto arriva una infermiera anziana, per noi sconosciuta, che era lì di passaggio ed è rimasta colpita dai pannelli della mostra. Vedendomi che ero in procinto di iniziare, si è unita al gruppo tutta curiosa di sentire quello che stavo per raccontare. Durante il percorso mi ha tartassato di domande; era la più attenta del gruppo. Alla fine mi domanda se esistono ancora oggi delle strutture in grado di generare opere identiche a quelle dell’ospedale Santa Maria della Scala! Inoltre, mi ha detto che avrebbe diffuso agli altri colleghi della presenza della mostra in Facoltà.
Il secondo incontro è stato con uno studente che prima di essere entrato a Medicina ha studiato Arte a Urbino. E’ rimasto colpito dall’ultimo pannello, in cui veniva raccontato del testamento del “Vecchietta” e mai avrebbe pensato che un pittore noto come lui decidesse di dedicarsi totalmente all’opera dell’ospedale senese.
Chiara:
E’ stato sorprendente riaccorgersi del valore di questa mostra proprio spiegandola ed attraverso lo stupore di chi è venuto a vederla! Mi ha sorpreso tantissimo che una mia amica, dopo aver ascoltato la spiegazione della mostra, ha chiamato sua sorella e gliel’ha spiegata perché ci teneva che anche sua sorella la vedesse (era l’ultimo giorno e stavamo per smontarla).
Carmine:
La mostra è stata un’occasione per riaffermare lo sguardo sulla nostra tradizione e sulla nostra storia. Ha documentato la creatività medievale nell’andare incontro al bisogno dell’altro, una creatività che deriva dalla certezza che ciò che desideriamo ci è venuto incontro, che Dio si è fatto uomo. Tutti gli amici che ho invitato (e io anche grazie a loro) sono rimasti colpiti proprio da questa umanità: in particolare dall’affresco che rappresenta un medico che, prima ancora di curare una ferita, lava i piedi al paziente, lo guarda nella sua interezza, gli comunica che c’è qualcosa di più grande di quella ferita. Questa mostra ha riacceso in me il desiderio di guardare così l’altro e ciò che mi accade, con la possibilità di scorgere in controluce i tratti inconfondibili del volto di Cristo.
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