Il massacro degli innocenti

Martedì 20, ore 11.30

Relatore:
Christian Duraffourd,
Presidente della Società Francese
di Fitoterapia

Duraffourd: Erode I detto il Grande, autore della strage degli innocenti, fece uccidere tutti i piccoli della città allo scopo di sopprimere un solo neonato, Gesù Cristo: oggi per cercare di risparmiare un solo bambino, mettiamo a repentaglio la vita di tutti i neonati della città, e così ogni giorno ripetiamo la strage degli innocenti.

Consideriamo per esempio il diritto alla vita di un neonato: nell’antichità, il potere della scelta spettava al padre: alla nascita del piccolo, la levatrice stendeva un certificato di conformità, lo dichiarava sano o meno, e poi prendeva il neonato e lo posava per terra; il padre poteva lasciarlo per terra se non lo voleva, se invece decideva di tenerlo, lo raccoglieva e in questo caso disponeva ancora di tre mesi per potersene disfare a piacere. Oggi la decisione spetta alla madre, che dispone sempre di tre mesi dalla data del concepimento, per decidere di una vita o di una morte. La differenza sta nel fatto che il bambino è nel ventre della madre, nel suo grembo, nascosto, quindi, invisibile, e il carico della coscienza viene alleviato dalla semplice dissimulazione dello sguardo. L’eliminazione egoista dell’altro considerato come ostacolo vale ad ampliare il diritto all’autodifesa e conduce a prevenire la potenziale minaccia che la semplice presenza dell’altro può costituire sul cammino della vita.

Ma il diritto a disporre di sé e la libertà di scelta si devono aggiungere a una consapevole responsabilità individuale: un uomo è libero e responsabile anche se si trova attualmente sottoposto a diversi condizionamenti, perché deve poter rispondere alla chiamata di Dio per una reale conversione. I condizionamenti sono i limiti imposti all’espressione libera delle nostre funzioni dal luogo in cui viviamo; è opportuno anche accostarvi la nozione di determinismo, che è relativa esclusivamente alla qualità potenziale della nostra struttura e del suo ruolo nei nostri movimenti, nei nostri gesti, quando anche minimi, nei nostri pensieri, fossero anche i più futili. La nostra è dunque una libertà condizionata: la strutturazione eccessiva, l’incasellamento, la specializzazione, hanno però ridotto la vita civilizzata ad un insieme di sistemi, che costringe a porre il punto di partenza della vita all’ingresso nel sistema e non più al concepimento. Si è così generato il nichilismo, che è rifiuto e negazione di ogni struttura. Negare la struttura vuol dire negare la materia, negare la materia vuol dire negare la vita potenziale: negare la struttura vuol dire dunque negare la vita sulla terra. La fisica quantistica ha voluto negare la materia a difesa dalla relatività, alla ricerca dell’essenza della vita, ma è giunta a negare la vita stessa. La virtualità immateriale ha generato la materia virtuale, sottraendola al caos; l’essenza è ridiventata materia, il disordine ordine. Credenza, convinzione, certezza... la scienza è giunta a falsare tutto.

L’esclusione di ciò che non è dimostrato ha rilanciato l’esoterismo nella forma dell’iniziazione alle sette. L’ecumenismo, depersonalizzando o spersonalizzando Dio, ha precipitato l’impianto massiccio del nichilismo nella corrispondente reazione opposta, l’integralismo. L’ossessione di ciò che è dimostrabile e della sua riproducibilità ha cancellato le variabili, poi ha cancellato le personalità, infine ha cancellato l’uomo. La negazione della materia e la negazione dell’uomo che di essa è immagine, hanno portato l’uomo negato a negare Dio. Negare l’uomo come personalità individuale e libertaria ha portato l’uomo gregario a generare l’entità comunitaria. È un contrasto suggestivo: l’uomo destrutturato si trova imprigionato in un vincolo societario di uniformità funzionale. Rinchiuso nella sua sistemica sistematizzazione, assetato di etere, disperato di vita, l’uomo ha polverizzato le sue icone e adora ormai l’energia di cui esse erano costituite: è tornato ad essere la polvere di cui è fatto. Oberato da contrari incoerenti e non più sinergici, di cui egli è pure il modello vivente, l’uomo neuronico è uscito da se stesso, si è allontanato dalla propria vita. La scienza ha escluso l’uomo in quanto osservatore da tutte le sue esperienze: per essere scienza, la medicina ha voluto far lo stesso, dimentica del semplice fatto che l’uomo è proprio il suo terreno di esperienza. In tutte le scienze la ragione prima dell’esclusione dell’uomo è stata la necessità di ridurre il numero di variabili, poiché l’uomo da solo rappresenta un numero troppo grande di incognite. Era quindi opportuno nella medicina ridurlo a una sola incognita: la malattia.

A mio parere l’unico rimedio sostanziale a tutti i mali che proliferano in quest’alba di millennio è quello di reintrodurre l’uomo come entità individuale nella nostra società, e in primo luogo nella scienza che ne ha l’incarico, la medicina.

Il problema odierno della medicina è che giunga ad una impostazione globale, attenta a tutte le componenti dell’uomo. Questo è il primo passo verso la trascendenza: per questo è importante giungere ad avere delle cose e delle persone, una visione globale, il che in medicina si traduce nella necessità di fare una sintesi delle conoscenze e stabilire i collegamenti che legano l’una all’altra. Solo così ci si rende conto del fatto che non ci sono atti isolati, poiché tutti gli atti che uno compie – camminare, parlare, correre, mangiare, dormire, svegliarsi – sono animati dalla vita, vita come attività globale e permeante tutto il nostro essere.

Come tutto questo si traduce nella mia esperienza concreta? Ho studiato per specializzarmi e per cercare di fare l’impossibile. Soprattutto nei primi 10 anni della mia pratica, ho avuto davanti pazienti per i quali tutte le medicine – ufficiali e alternative – avevano fallito; erano quindi tutti casi difficili, e di tutte le varie specialità mediche. Dopo questo primo periodo sono passato ad una specializzazione più specifica, l’oncobiologia: mi occupo dei malati di cancro, ma lo faccio con il cosiddetto approccio globale, nel senso che cerco di fornir loro un aiuto psicologico oltre che biologico, per vincere la loro situazione di malattia. Si parte dall’accettazione e dal riconoscimento di questo parassita che è la malattia, per passare poi alla lotta che serve ad aiutare l’organismo a sopravvivere e a lottare contro l’aggressione della malattia. Con questa impostazione si possono aiutare e assistere i pazienti qualunque sia il grado di evoluzione della malattia, tanto nella fase di prevenzione quanto nella fase in cui la malattia è ormai conclamata. Questo anche con l’aiuto degli straordinari progressi che la scienza mette a nostra disposizione: malgrado il carattere provocatorio di molte mie affermazioni, non intendo rinnegare la scienza. Ne riconosco i progressi e l’utilità, ma nel contempo constato che ripiegandosi su se stessa e sullo studio della malattia è giunta a dimenticare i pazienti, in particolare i cosiddetti "pazienti sani", ovvero i pazienti capaci di curarsi da sé, imponendo loro le stesse cure che devono invece essere somministrate agli altri, a quelli che da sé non si possono curare.