‘Roma non fà la stupida stasera...’. Quale potere per le regioni?

 

 

Giovedì 27, ore 18.30

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Relatori:

Piero Badaloni, Presidente della Regione Lazio

Giancarlo Galan, Presidente della Regione Veneto

Roberto Formigoni, Presidente della Regione Lombardia

 

Badaloni: Ho vissuto la mia esperienza di Presidente della Regione, la sto vivendo e intendo viverla fino alla fine - fino al 2000, anno del Giubileo - come un’esperienza da cittadino impegnato in politica, perché sono convinto che la cosiddetta società civile debba recuperare il suo spazio e impegnarsi a tutti i livelli possibili. A partire dalla semplice militanza, bisogna riappropriarsi della politica affinché la politica torni ad essere con la P maiuscola. Questa esperienza è stata per me molto utile, è stata un’esperienza di servizio e come tale intendo viverla fino in fondo.

Ho voluto fare questa premessa, perché credo che da questo punto di vista i cattolici debbano sporcarsi le mani e lo debbano fare con coraggio, impegnandosi, rischiando e non lasciando soltanto ad altri alcune forme di protagonismo. Il principio di sussidiarietà di cui tanto si parla è un principio che per un cattolico non è una novità, è uno dei principi cardine della dottrina sociale della Chiesa insieme a quello della solidarietà. Il principio della sussidiarietà può essere una delle strade per risolvere il problema del lavoro: non credo per esempio che si debba o che si possa interpretare il principio di sussidiarietà soltanto in senso verticale - dallo Stato alle regioni e agli enti locali -, sono convinto che si possa e si debba anche realizzare una sussidiarietà orizzontale, dando la possibilità ad associazioni o a gruppi organizzati di gestire senza fini di lucro servizi di pubblica utilità.

La sussidiarietà per molti è una bandiera facile da impugnare, ma può anche essere vuota di contenuti concreti. Per me che sono un cattolico sussidiarietà significa lavoro, significa impegno sociale, volontariato e quindi anche lavoro. Di recente un decreto legislativo sulle organizzazioni non lucrative di utilità sociali, le ONLUS, ha finalmente introdotto una serie di sconti e di agevolazioni fiscali a favore delle imprese non profit: questo è solo un primo passo, ma non basta. Manca per esempio un unico contratto di lavoro per i lavoratori del non profit, e quest’assenza è avvertita in modo molto forte, ed è anche la causa di situazioni lavorative irregolari. Bisogna far capire al sindacato che questo settore è importante e che deve collaborare per realizzare una regolarizzazione unica. Già sarebbe un grosso passo in avanti se si arrivasse all’approvazione dello statuto dei lavoratori sociali. C’è un impegno da chiedere al governo, quello di accogliere le istanze in favore della creazione di un servizio civile nazionale per le realtà del terzo settore, come servizio di leva alternativo e senza bisogno dell’obiezione di coscienza; soprattutto occorre arrivare all’approvazione di una legge quadro di riferimento di tutto il non profit che superi l’attuale frammentazione per regolamentarlo come un settore a sé stante dell’economia. In America il non profit regolamenta il 6,8% del PIL; in Germania la Costituzione stessa è fondata sul principio di sussidiarietà, anche inteso in senso orizzontale. Da questo punto di vista occorre fare un grande salto di qualità e di maturazione politica; questo può essere un compito specifico dei cattolici impegnati in politica al di là degli schieramenti. Attualmente in Italia infatti arriviamo con il non profit a coprire solo l’1,1% del PIL nazionale, anche se in prospettiva si potrebbero creare addirittura 20.OOO posti di lavoro se si regolamentasse questo settore. È con questo spirito che nella nostra regione stiamo organizzando per novembre una conferenza regionale per lo sviluppo e l’occupazione: per la prima volta in Italia si tenta di mettere insieme a uno stesso tavolo a livello regionale i soggetti sociali per arrivare ad uno stesso obbiettivo.

Un altro obiettivo fondamentale è il quadro attraverso il quale i soggetti politici regioni possano svolgere un ruolo più penetrante: il federalismo potrebbe essere un’azione di stimolo nei confronti dei sindacati, dei partiti, del governo, ma se non si mettono le regioni nelle condizioni di poter sperimentare al proprio interno questo stesso federalismo, si rischia soltanto di restare a guardare e di svolgere un ruolo dall'esterno. Quale è la reale volontà politica del Parlamento nei confronti del federalismo? Per avere un vero federalismo occorrerebbero anzitutto l’elezione diretta del Presidente delle regioni, il che si può ottenere attraverso il ricorso all’articolo 138 della Costituzione, e un decentramento fiscale che consenta effettivamente alle regioni di svolgere una politica economica propria. Ciascuno poi si assumerà le sue responsabilità e ne risponderà di fronte ai cittadini che gli hanno dato la fiducia: attualmente questo ci è impossibile, perché i soldi che noi regioni riceviamo dallo Stato sono soldi in qualche modo obbligati, ci vengono date delle cifre che devono essere spese per una certa cosa, per un’altra cosa ancora, non c’è nessun margine di autonomia e di scelta, non c’è nessun margine per impostare ad esempio delle politiche economiche di sostegno a progetti legati al non profit. Il decentramento fiscale è la chiave di volta, il cardine per effettuare un effettivo federalismo, insieme all’elezione diretta del Presidente della regione.

Anche le regioni possono svolgere e debbono svolgere la loro parte nel decentramento: il decentramento significa lo snellimento dei tempi, delle procedure, delle autorizzazioni. Le regioni sono nate come organismi per programmare, per indirizzare, per stabilire le regole e per salvaguardare rispetto a queste stesse regole, ma non per gestire: la gestione spetta agli enti locali, ai comuni, alle province. Sono d’accordo sulla necessità di invocare dallo Stato l’attuazione di un effettivo federalismo, un federalismo fiscale, un federalismo di autonomia, ma nello stesso tempo la coerenza ci impone di attuare già all’interno del nostro territorio questo decentramento, proprio per consentire ai cittadini di avere una risposta più efficace ed immediata ai loro bisogni.

La sussidiarietà richiama il tema della solidarietà: la solidarietà è il contrario dell’egoismo, può sembrare un’affermazione tautologica ma in realtà non è così, perché spesso, così come la parola sussidarietà rischia di diventare una scatola vuota, anche la parola solidarietà rischia di diventare solo una parola vuota o per lo meno di essere soltanto una bandiera. Solidarietà significa comportamento concreto e coerente nei fatti: la solidarietà di chi svolge certi compiti diventa doppia rispetto a quella dei cittadini, invece paradossalmente si ha una cultura della solidarietà molto più diffusa a livello di base rispetto a quella che c’è tra coloro che hanno compiti di governo importanti, come il Presidente delle regioni. Credo che la vera solidarietà passi attraverso un’attenzione nei confronti dei soggetti più deboli, quindi ad esempio nei confronti delle regioni che sono più in difficoltà rispetto alle altre. Questa è la strada che noi abbiamo deciso di seguire tra le regioni del centro Italia, attuando una forma di federalismo solidale che ci ha consentito di mettere in rete le nostre esperienze in modo che ciascuna potesse aiutare l’altra nel settore in cui è più carente.

Galan: Le regioni, le venti regioni del Polo, dell’Ulivo, del Nord, del Sud, a statuto speciale, a statuto ordinario... chiedevano insieme ai comuni, alle province, alle comunità montane, una cosa abbastanza semplice che in qualche modo era stata percepita dalla Bicamerale: l’attuazione di un federalismo. La Bicamerale è fallita non per un oscuro disegno o per qualche motivazione non politica, è fallita perché non è stata capace di produrre un prodotto accettabile sull’aspetto finanziario: ma non esiste federalismo senza autonomia finanziaria, e l’autonomia finanziaria deve essere autonomia finanziaria totale, ovvero potere di imporre, riscuotere e amministrare i tributi. Ci vuole una riforma federale dello Stato, perché questo Stato non funziona più, è troppo costoso, ed anche perché stiamo andando in Europa. Gli Stati necessitano di una profondissima riforma: proprio perché c’è l’Europa, il federalismo deve attuarsi. Lo Stato ha un solo sistema di sopravvivere alla sua crisi che è quello di consentire il massimo dell’autonomia.

Le regioni hanno dunque fatto questa richiesta; abbiamo avuto in cambio una Bicamerale con un prodotto indecente, crollata per i suoi stessi demeriti; abbiamo avuto in cambio alcuni decreti celebrati dalla propaganda come un fenomeno di autonomia di federalismo, i decreti Bassanini, che sono solo su alcuni punti un buon caso di decentramento, tutt'altra cosa rispetto al federalismo, e che contengono due grandi lacune, quella di operare un trasferimento da pubblico a pubblico - dallo Stato ai comuni, dallo Stato alle regioni, dalle regioni agli enti locali -, non certo un trasferimento al privato, alle organizzazioni sociali e l’imposizione alle regioni di trasferire agli enti locali competenze prima ancora di sapere che cosa lo Stato trasferirà in termine di risorse finanziarie, umane e tecniche alle regioni. Con i decreti Bassanini le regioni trasferirebbero debiti, trasferirebbero competenze che i comuni non saprebbero come gestire, e lo Stato trasferirebbe e rischia di trasferire alle regioni competenze senza le risorse necessarie per gestirle: è un trucco contabile, uno dei tanti grazie ai quali siamo entrati nell’Europa ma con cui le regioni e in fondo i cittadini dovranno fare i conti.

Se questo è il federalismo che intende questo Parlamento, noi intendiamo qualcosa di diverso, soprattutto il Veneto - regione estremista guidata da un pazzo estremista... - intende qualcosa di molto più forte, una riforma federale seria, una riforma federale che si estrinseca in brevissimi principi: restringimento delle competenze statali in materia di politica estera, difesa, moneta, giustizia e organi istituzionali dello Stato; livelli minimi di assistenza da aggiungere; podestà legislativa in tutte le altre materie alla regione; mantenimento a livello locale di tutte le funzioni amministrative; potere di stipulare accordi con altri Stati o con altri enti territoriali; partecipazione e possibilità di provvedere in modo autonomo all’attuazione degli atti comunitari; possibilità per ogni regione di determinare la sua forma di governo e il suo sistema elettorale; possibilità - è su questa possibilità che la Bicamerale si è arenata - di istituire, accertare e riscuotere tutti i tributi, devolvendo alo Stato una quota non superiore a un terzo delle entrate, perché lo Stato deve esercitare i suoi poteri e perché comunque esiste una forma di solidarietà verso le regioni meno fortunate che deve essere ricompresa in quel terzo.

Formigoni: Ciò di cui stiamo parlando è estremamente serio, perché senza federalismo e senza sussidiarietà - dal punto di vista tecnico non sono sinonimi ma dal punto di vista della concreta esperienza di vita lo sono - il nostro paese rischia di morire, rischia di morire dal punto di vista amministrativo e politico perché governare ai diversi livelli è diventato estremamente complicato se non impossibile; rischia di morire dal punto di vista sociale, perché ormai è chiaro che una società come quella italiana bloccata, strangolata dai livelli di statalismo e di centralismo, di controllo sociale cui siamo arrivati, se non le viene data la possibilità di riformarsi può seriamente esplodere, come sta accadendo al Sud, che sta esplodendo sotto il peso drammatico della disoccupazione.

Siamo alla vigilia di una nuova fase molto grave, non di ribellione del Nord ma di una situazione che non può più essere sopportata da regioni che hanno retto lo sforzo maggiore dell’ingresso dell’Italia in Europa e che non sono messe in condizioni di lavorare. Ritornare oggi a parlare della necessità di una riforma è puntare il dito su un qualcosa che non dovrebbe essere ulteriormente rinviato.

È è ancora possibile parlare di riforme? È il grande tema attorno a cui si è consumato fino alla noia il dibattito politico degli ultimi 15, 20 anni del nostro paese, e i tanti fallimenti a cui abbiamo assistito in questi anni avevano la stessa origine: uno sguardo sulla realtà che non era uno sguardo alle cose così come erano ma era minato in radice dall’ideologia o dalle ideologie contrapposte con cui la realtà veniva esaminata. Oggi c’è il problema di vedere quale metodo utilizzare per ripartire dalle riforme: c’è la proposta dell’articolo 138 o la proposta dell’Assemblea costituente, ma c’è qualche cosa ancora prima, che è la capacità di guardare ai problemi reali. E i problemi reali sono quelli di uno Stato che non ce la fa letteralmente più, di un welfare State, che è poi l’organizzazione concreta della nostra vita, che è diventato non soltanto negativo ma impagabile per la cifra straordinaria a cui è arrivato il debito pubblico e impossibile per i livelli di inefficienza straordinaria. Il welfare State in Italia è costosissimo ed è del tutto inefficiente, ci presenta una fotografia di uno Stato esoso nel chiedere una tassazione sempre più alta e tirchio nel restituirci dei servizi sociali sempre meno soddisfacenti. Bisogna uscire dagli schemi, bisogna rompere le gabbie ideologiche nelle quali il dibattito rischia di essere ingabbiato.

Per questo ho molto apprezzato quanto ha fatto il ministro Livia Turco, che è venuta al Meeting e ha firmato le due petizioni sulla libertà della scuola e sul principio di sussidiarietà. Se altri ministri la seguiranno vuol dire che ci aspetta un bell’autunno, un autunno ancor più movimentato di quanto le cronache giornalistiche di questi giorni ci dicono. Quello che fa male al paese è la stagnazione, questo paese ha bisogno di rimettere in discussione alcuni punti che sembravano consolidati e con i quali si va soltanto alla palude, all’immobilismo: abbiamo bisogno che qualcuno rimetta in moto le cose. Questa firma del ministro Turco mi sembra che dia ragione alle dichiarazioni di Vittadini, secondo il quale in Italia non c’è un Ulivo solo, ma ce ne sono due.

Il nostro paese ha bisogno di un rafforzamento dello spirito di centro: non necessariamente questo avviene buttando a mare l’osservazione delle cose e fermandosi all’esame degli schieramenti. Non sono gli schieramenti da classificare in buoni o cattivi, è il contenuto concreto delle azioni. La petizione sulla sussidiarietà è una bomba perché è il rovesciamento della decisione del Parlamento del 18 marzo. L’emendamento proposto da Guarino, che mirava a salvaguardare la sussidiarietà, fu sonoramente bocciato, e la petizione ripropone quella proposta: è da qui che bisogna ripartire, la sussidiarietà non è solo qualche cosa di giusto, è innanzitutto il riconoscimento che la persona viene prima dello Stato e prima della stessa società. È la libertà riconosciuta al cittadino: in più, la sussidiarietà è anche economicamente conveniente, costa di meno, permette di costruire in un modo meno costoso e meno dilapidatore di risorse di quello che oggi abbiamo.

Il welfare State, lo statalismo, è fallito perché ha messo in piedi un sistema che non cura i cittadini, che non dà lavoro e che porta via costantemente dalle tasche di chi lavora e di chi produce una marea di fondi che potrebbero essere utilizzati diversamente: su queste tematiche la battaglia è non solo politica ma anche inevitabilmente sociale. Badaloni e Galan citavano le leggi Bassanini che sono certamente cariche di molte ambiguità ma che pure aprono una serie di possibilità, per avere delegato alle regioni e al sistema degli enti locali una serie di funzioni, applicando il principio della sussidiarietà verticale dallo Stato alle regioni e da queste agli enti locali.

Ma va anche ricordato che la sussidiarietà verticale, se non c’è sussidiarietà orizzontale, è essa stessa una burletta. Il centro della sussidiarietà è orizzontale, è il riconoscimento del primato della persona, perché altrimenti sarebbe la sostituzione ad un centralismo statalista di un centralismo regionalista, provincialista, comunalista, dei consigli di zona... sarebbe la farsa, oltre che la tragedia. Il pericolo è anche che lo Stato conceda da una parte con una mano quello che con l’altra va a ritirare: il trasferimento di poteri è valido se si danno alle comunità locali le possibilità di finanziare le funzioni nuove che gli sono date. Per questo il tema politico della finanziaria dell’autunno è gravissimo. Sia chiaro che noi non permetteremo che la manovra di decentramento, e neanche quella di federalismo di cui non si parla, vengano attuate dando alle regioni i problemi e riservando al governo e allo Stato il potere di controllare, mettendo le regioni nella difficoltà di gestire i servizi che sono stati loro trasferiti, o nella necessità di emettere nuove tasse.