EDUCARE PER COSTRUIRE. CICLO DI INCONTRI PROMOSSO DALLA COMPAGNIA DELLE OPERE

"Si vis Pacem para bellum".
Il mondo del 2000: pax americana?

Lunedì 23, ore 11.30

Relatori:

Gabriele Gatti,
Segretario di Stato per gli Affari Esteri della Repubblica
di San Marino

Lamberto Dini,
Ministro degli Affari Esteri

Giulio Andreotti,
Senatore della Repubblica Italiana

Moderatore:

Giorgio Vittadini

Vittadini: L’idea della pax americana è un’idea ultimamente positiva. L’America, di fronte a tutti, è il paese della libertà; basti pensare alle sue origini e al ruolo che ha giocato e vuole giocare nel mondo. Un’idea di paese che quasi rifacendosi alla tradizione, a 2000 anni fa, vuole assicurare la pace e lo sviluppo tra i popoli. Questa idealità ha avuto forti contraddizioni sia all’interno degli stessi Stati Uniti, come nel caso del genocidio degli indiani, sia all’esterno, come nel caso più recente della guerra nei Balcani. I motivi di questo cedimento sono molti, ma certamente il fondamentale in questi anni è stato il venir meno del rispetto della tradizione cristiana su cui l’Europa si è sviluppata, e che è anche all’origine della stessa tradizione americana.

Gatti: Come rappresentante di un piccolo paese, mi sia concesso di esprimere alcune considerazioni utopiche. San Marino non ha nessuna forza né di carattere politico, né militare, né economico. L’unica forza gli deriva dalla forza del diritto e dalla partecipazione agli organismi internazionali. A un paese così piccolo credo sia concessa un’utopia: che le ingenti ricchezze impiegate per la guerra, per gli armamenti, in futuro, guardando al terzo millennio, possano essere utilizzate per combattere la grande povertà presente in gran parte dell’umanità. I problemi del debito estero dei paesi in via di sviluppo potrebbero trovare importanti soluzioni con l’impiego delle ingenti ricchezze che sono usate per la guerra.

Questa pace deve essere garantita dalle Nazioni Unite, unico organismo a tutela di tutta la comunità internazionale. La Repubblica Italiana si sta impegnando all’ONU proprio per la ristrutturazione e la riforma del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. In alternativa si dovrebbe proseguire con la pace armata di questi anni. Alle soglie del III millennio sembra però necessario sfatare il principio del passato: le armi in qualsiasi caso creano ingiustizia e guerra, o comunque creano una pace dettata dalla paura delle armi. La pace dovrebbe diventare una condizione normale dell’esistenza dell’uomo e dei popoli.

Un grande ruolo lo potrà giocare l’Europa. Il nostro continente è un continente molto importante, di grandi potenzialità. Ci sarebbe bisogno di un’Europa meno impegnata nell’economia e nella burocrazia e più legata agli ideali: un’Europa dei popoli, un’Europa che sappia garantire le varie identità nazionali.

Dini: La comune riflessione sulla pace alla soglia del nuovo secolo prende avvio da molti interrogativi. A quali codici deve essa ispirarsi, chi devono essere i guardiani? Possono pace e stabilità essere responsabilità di un solo paese? Una potenza, gli Stati Uniti, per tanti aspetti unica padrona del campo, vorrà e potrà assumere il peso schiacciante e solitario di un ordine ancora in parte da costituire, affinché il secolo non finisca in una selva oscura?

L’Alleanza Atlantica, intervenendo nei Balcani, ha incrinato il principio antico per il quale gli uomini sono secondari rispetto alla sovranità ed al sovrano. La legalità, che in questi mesi viene emergendo, fatica ancora a trovare un codice, una disciplina politica, un rigore. Il vecchio ed il nuovo restano mescolati e confusi. Siamo ricorsi alle armi non per il consueto bagaglio di egoismi di Stato o di nazione, ma per impedire che si violassero dei diritti. Una ragione ideale che ha coinciso anche con gli interessi italiani, in termini di prevenzione di ondate di profughi, sicurezza, effetti sociali ed economici, con al fondo una ragione morale. Fortunatamente la misura del dare e dell’avere non consiste più in territori, egemonie, difese dei confini; la comunità internazionale non è più impacciata dalle immunità che alle peggiori dittature ed alle persecuzioni violente hanno sempre garantito le frontiere. Maggiore sarà, d’ora innanzi, la speranza della protezione delle vittime.

La mondializzazione economica e finanziaria è accompagnata, spesso, da una tribalizzazione culturale e politica. Più il villaggio è globale, tecnicamente parlando, più i suoi abitanti, psicologicamente, si barricano nel quartiere. Si è passati dal vecchio equilibrio del terrore a propositi di riorganizzazione etnica del mondo che non potrebbero non implicare ricomposizione o decomposizione cruente, un "nuovo Medioevo senza imperatori né cattedrali". Pendono guerre che sfuggono ad ogni condotta ragionata ed ad ogni astuzia strategica; non limitate, come le guerre classiche, in funzione di obiettivi circoscritti, essa straripano da ogni parte, senza ritegno né proporzione tra fini perseguiti e mezzi usati. Guerre civili che si vogliono guerre sante, pretese di "potere temporale di Dio".

Nei Balcani la guerra è stata giusta, fondata tuttavia su un principio di ingerenza le cui regole abbiamo definito più compiutamente solo in aprile a Washington, nel cinquantenario dell’Alleanza Atlantica. La responsabilità della NATO si estende su spazi più vasti. Ma come si concilia con la legittimità delle Nazioni Unite? Gli Stati Uniti sono stati ancora una volta protagonisti, hanno compensato le carenze dell’Europa come entità politica, la sua scarsa esistenza in termini militari. Per ben tre volte nella storia di questo secolo, l’Europa ha reso omaggio alle scelte fondamentali degli Stati Uniti. Come potremmo non essere amici degli americani, che sono sempre stati al nostro fianco, come nemici dei nostri nemici? La tragedia dei Balcani, d’altra parte, lascia dietro di sé interrogativi ai quali stiamo cercando, insieme con gli Stati Uniti, di dare una risposta. La tutela dei diritti si mescola con situazioni concrete, interessi di paesi circostanti, affinità che proteggono, regimi incriminati, possibilità effettive di intervenire, disponibilità di mezzi adatti a raggiungere lo scopo. Sarebbe un errore nascondersi dietro queste imperfezioni per invocare l’inerzia. Sarebbe anche un errore trascurare i problemi che possono derivarne: di legittimità, ma anche di rapporto tra fine e strumenti della guerra.

Come costruire, allora, una pace che non sia solo americana, anche se continuerà ad avere gli Stati Uniti come potere indispensabile? La prima condizione è la crescita dell’Europa, la realizzazione, finalmente, di una politica estera e di sicurezza dell’Unione. Dopo la guerra del Kosovo il rapporto tra l’Unione e il mondo che la circonda è divenuto l’elemento più dinamico del processo di integrazione. La definizione di una politica estera e di sicurezza si avvicina con una subitaneità ancora ieri impensabile. Anche se resta l’emergenza occupazione, tutto lascia supporre che il nuovo impulso all’unificazione europea avrà questa volta contenuti politici piuttosto che economici; riguarderà i rapporti esterni rispetto a quelli interni; farà leva sull’azione piuttosto che sulla legislazione.

È necessario costruire non solo un’Europa più forte, ma anche un’Europa più larga. I capi di governo dei maggiori paesi ed i loro Ministri degli Esteri si sono raccolti a fine luglio 1999 a Sarajevo, per una prima conferenza sulla ricostruzione dei Balcani, volutamente aperta a suggestioni evocative. Il secolo più cruento della storia europea lo si vorrebbe così terminare là dove simbolicamente era cominciato. Chi volesse attribuire una linearità ed un progresso alla traiettoria che cominciò nel giugno del 1914 ora potrebbe concludere che i nazionalismi europei sono stati progressivamente marginalizzati, circoscritti, quasi debellati. Il più pericoloso tra i nazionalismi sopravvissuti, quello serbo, si è appena arreso nel Kosovo. Restano tuttavia odi latenti e scoperti, capaci di produrre recrudescenze tragiche in quell’Europa irrisolta appena oltre l’Adriatico. I vincitori del Kosovo si impegnano ora ad attrarre l’intera regione nell’Europa matura, guidandola attraverso democrazia, sviluppo, integrazione; strumenti che hanno già guarito, o quasi, gli europei d’Occidente. L’integrazione dei Balcani sarà lunga ed accidentata, ma almeno il cammino è cominciato.

Negli ultimi mesi il governo italiano ha perseguito il traguardo di una pace più larga con tenacia particolare. Ci sono ovviamente ragioni geopolitiche: non avere di fronte a noi paesi che producono criminalità, droga, commercio di esseri umani, traffici clandestini che fruttano, secondo una recente ricerca, 3600 miliardi all’anno. Al suo fianco si è trovata tutta l’Unione Europea: la sua sicurezza ed il suo benessere sarebbero minacciate se essa fosse circondata da mali e rischi continui, quali instabilità ed oppressione politica, guerre nazionali, persecuzioni etniche e religiose. Adoperarsi per ridurre quei mali e quei rischi è, per i paesi ora rappacificati nell’Unione, anche un dovere storico e morale. L’Unione ha le risorse e le conoscenze necessarie per operare efficacemente: è l’area più ricca del mondo dopo gli Stati Uniti e conosce storia, lingue, cultura, strutture economiche e politiche dei vicini. Meglio di altri può l’Europa evitare di rialzare nel continente muri che abbiamo appena demolito.

Non basterà un’Europa più forte e più larga. Occorre accrescere il carattere istituzionale della difesa dei diritti, perché l’uso della forza possa essere la "prosecuzione della morale con altri mezzi". Il ricorso alle armi non può che essere l’ultima "ratio". Nei Balcani stessi l’intervento è avvenuto contro uno Stato colpevole di violazioni gravi, massicce e ripetute. Il Consiglio di Sicurezza lo aveva più volte ammonito perché ponesse termine ad una situazione di illegalità e un gruppo di Stati si è impegnato nella ricerca estenuante e infruttuosa di una soluzione diplomatica.

La forza, quindi, è ammessa per arrestare un progetto criminale, ma solo dove ciò non sia possibile con le armi della comunicazione, con gli strumenti dell’economia e della politica. Armi, queste ultime, che 10 anni fa hanno piegato un avversario ben più potente e imponente di Milosevic: il comunismo totalitario.

È necessario rafforzare i codici di condotta internazionali, gli strumenti legalitari, a cominciare dai tribunali internazionali, per garantirne l’osservanza. Sarebbe un guaio suscitare l’immagine di un diritto internazionale contraria alla concezione umanistica e contrattualistica della nostra politica e della nostra cultura, secondo la quale il diritto è la legge che protegge il più debole contro la prevaricazione del più forte. Il terzo grande obiettivo della nostra politica estera, accanto all’approfondimento dell’integrazione europea e della sua estensione oltre il periodo attuale, è proprio il perfezionamento degli strumenti della legalità internazionale, per accentuarne il carattere pluralistico e democratico, anche oltre il bilanciamento del potere degli Stati Uniti ad opera dell’Europa. Gli stessi Stati Uniti saranno così meglio in grado di riconoscere quello che possono e non possono fare, di coniugare idealismo morale e superiorità tecnologica. Gli Stati Uniti hanno iniziato come nazione all’ombra di un destino più che di un passato e hanno di fronte un’Europa troppo spesso tragica e pessimista.

Spetta soprattutto all’Europa ed agli Stati Uniti pensare regole e procedure nuove, che rendano accettabili l’erosione graduale della sovranità nazionale, in nome di una responsabilità globale. Sarà così più facile evitare che dietro la difesa del diritto si nascondano aspirazioni egemoniche; oppure la ricerca di nuove missioni per l’Alleanza Atlantica, priva del nemico di ieri; o anche di egoismi dell’Europa, fortezza assediata dai mali del mondo. L’autoinvestitura dell’Alleanza Atlantica non può diventare la regola.

Nella tradizione europea e italiana, la difesa della libertà comporta una sempre più precisa definizione della legalità internazionale, nella quale i diritti siano il punto di riferimento morale per la valutazione della politica, anche di una politica di potenza. Questo evita di affidarsi sempre al connubio, appunto, di una generosità umanitaria e di una logica di potere, anche all’ombra di una tradizione così gloriosa come quella americana. Noi europei, gli sconfitti del 1945, abbiamo appreso che una sconfitta può anche essere una liberazione. Fino a quando i diritti umani saranno poco istituzionalizzati permarranno sempre dubbi sul rapporto tra legittimità ed efficacia. La graduale costruzione di una "cittadinanza universale" è un processo di apprendimento che tutti dobbiamo portare a compimento, altrimenti avremo una corsa alla frammentazione, alla ricerca di indipendenze ottocentesche, soffocate economicamente e culturalmente, asservite a potenze limitrofe.

Soltanto le grandi istituzioni, regionali come l’Unione Europea e l’Alleanza Atlantica, universali come le Nazioni Unite, possono chiudere il cerchio tra applicazione vincolante del diritto e codificazione democratica della coesistenza tra gli Stati. Senza una robusta rete istituzionale, ogni intervento rischierebbe di apparire un modo di far giustizia da sé, l’equivalente, su scala nazionale, delle polizie private o di quartiere. Paolo VI aveva detto che lo sviluppo è oggi "il nome vero della pace". Secondo un’indagine delle Nazioni Unite il patrimonio complessivo delle 358 persone più ricche della terra corrisponde a quello del 45% della popolazione mondiale, cioè 2,3 miliardi di persone.

Proprio l’emarginazione di tanta parte del mondo ha messo in risalto un ruolo particolare, politico e morale, anche della Chiesa cattolica e del suo Pontefice. Il loro atteggiamento è sempre più critico verso ogni eccesso, ogni dismisura di un capitale e di un mercato privo di freni, quasi che la fine dell’impero sovietico consentisse oggi un comportamento meno indulgente, ieri forse messo in ombra dalla crociata contro il comunismo. La risposta delle istituzioni dovrebbe essere data non solo con una politica di aiuti ma anche con la revisione del sistema finanziario internazionale e del suo funzionamento.

Il dialogo tra le culture, soprattutto per noi che siamo ai confini meridionali dell’Europa, è un’altra condizione imprescindibile di pace. La mondializzazione sostituisce il conflitto con la competizione. Persino la guerra, lo abbiamo visto nel Kosovo, non è più un confronto frontale fra due patrie e nemmeno tra due popoli, ma mette in concorrenza poteri con una diversa legittimazione. "Essere specialisti dell’universale è ciò che più ci rende europei" scriveva Paul Valéry. Il cosmopolitismo europeo è ben altra cosa dalla globalizzazione cui spesso assistiamo. Il primo presuppone la conoscenza, lo scambio e il dialogo delle culture; la seconda non di rado persegue l’omogeneizzazione, cioè il tentativo di imporre una cultura globale. È l’alternativa tra rispetto e imposizione. Gli uomini di buona volontà convengono che non c’è ragione perché alle guerre di ieri subentrino le guerre di religione di oggi. Del resto nel Kosovo un’alleanza occidentale e prevalentemente cristiana è intervenuta a tutela di una minoranza musulmana. È da tempo che i venti integralisti, tanto forti e tanto temuti, si vanno smorzando anche nel mondo musulmano. Stanno spegnendosi persino in Algeria, che pareva dover esserne la base per investire l’Occidente. Anche la resistenza conservatrice a Teheran è una battaglia di retroguardia, a Teheran le forze migliori di governo, i giovani, le donne, vogliono uno Stato moderno, nel quale l’individuo sia riconosciuto e rispettato, nel quale la religione non si ponga come un’ideologia totalitaria e repressiva. Non è un caso che ovunque i paesi si avviino verso la modernità, le donne si pongano alla testa della volontà di cambiamento.

L’Italia gradino dell’Europa e l’Europa gradino del mondo sapranno rispondere alle sfide del secolo nuovo? La lunga storia sarà fonte di solidità o causa di debolezza? La pace non è possibile senza una ragionevole ambizione. Siano soprattutto i giovani a nutrirla, i giovani che sono alla costante ricerca di codici di valori, come disse Giovanni XXIII, "sanno guardare avanti, invece di fermarsi a raccogliere e rilanciare sassi che ci vengono buttati addosso".

Andreotti: Era naturale che il Meeting di questo scorcio del 1999 dedicasse un rapido consuntivo a quello che è il secolo che si sta chiudendo e cercasse di individuare alcune possibili linee, non tanto per tutto il ventunesimo secolo ma almeno per una prima parte di esso.

L’eredità che lasciamo al secolo successivo è ricca di ombre e di luci: due guerre mondiali, tante guerre minori, che, come produttrici tremende di morti e di desolazione, hanno già superato le due guerre mondiali. Come si può lavorare per evitare o almeno per ridurre nell’immediato futuro la conflittualità? Lasciamo al secolo futuro tutta una serie di conquiste straordinarie: lo spazio, le trasmissioni divenute, anche se con qualche problema, oggetto e soggetto di stupore, internet, la medicina con una serie di progressi. L’alfabetismo è molto cresciuto nelle diverse parti del mondo, sia pure in una percentuale non uniforme, l’accordo generale sul commercio è stato raggiunto negli ultimi anni sotto la guida di un italiano, l’ambasciatore Ruggiero. Meravigliose conquiste che lasciano l’amaro in bocca quando non si riesce a porre rimedio a ciò che purtroppo è avvenuto: lo sterminio dei campi di concentramento.

Il termine pax americana può sembrare un termine provocatorio. I messaggi di Pio XII che si incentravano, proprio in nome della pace, sulla ricerca di un ordine diverso, di un vincolo giuridico interno ed internazionale, non a caso, avevano come motto "opus iustitiae pax". Questa giustizia deve essere ancora concretizzata. Abbiamo avuto anni tormentati, ma felici, attraverso un utilizzo del mezzo militare concepito dall’Occidente come deterrente, cioè in una funzione rigidamente difensiva. Questa filosofia della deterrenza ha funzionato, anzi ha funzionato benissimo, perché l’avversario non solo è stato scoraggiato dall’assumere iniziative offensive, ma ha finito con il dissolversi.

Che la sicurezza non sia una sicurezza prevalentemente ed esclusivamente militare è un aspetto ancora da superare. Tra gli esempi che confermano questo dato si può ricordare uno studio importante negli Stati Uniti che indicava le caratteristiche più adatte del paese in cui investire: 99 voci tra le quali la più rilevante era quella della capacità militare e dell’ammodernamento militare. Caso curioso è che in virtù di questo il paese che risultava in testa alla classifica era l’Iran. Ancor più curioso il fatto che in poche settimane chi aveva investito in base a questi dati dell’elettronica si trovò completamente espropriato, non solo degli interessi, ma anche del capitale. Qualche volta sarebbe meglio non sentirsi uomini al servizio delle macchine.

Tornando al tema si potrebbe partire da due osservazioni. Il Presidente Nixon disse in un’occasione che con la scomparsa dell’Unione Sovietica gli Stati Uniti avrebbero avuto anni tremendi perché il monopolio di carattere politico contravviene alla regola della modernità che è l’anti-monopolio. George Kennen, uno dei cervelli dell’équipe di Kennedy che si occupava in modo particolare di comunismo internazionale, in un intervista recente, riportata sul Foglio di qualche tempo fa, rilasciata alla Rivista dei libri di New York, ha detto: "Posso dire senza esitazione che il mondo non sarà mai dominato da un unico centro politico, quale che sia, il suo potere militare". Sono spunti condivisibili per porre il problema del ruolo globale degli Stati Uniti. È stato ricordato, giustamente, e non dobbiamo mai dimenticarlo, che abbiamo molti debiti nei confronti degli Stati Uniti. Gli Stati Uniti sono la Casa Bianca, il Congresso, le università, i giornali, la cultura, la coca cola, i film: un mondo di cose delle quali qualche volta si può rischiare di avere delle piccole indigestioni, ma comunque da guardare.

Sia concesso evocare tra i tanti aspetti dell’America lo spettro della CIA. Nella storia della Repubblica italiana c’è stato un momento nel quale si è avuta una presenza notevole degli americani, superiore a quella che sarebbe stata giusta, nel premere perché si facesse in Italia un governo di centro-sinistra recuperando i socialisti e isolando i comunisti. Ci sono studi, a seguito dell’apertura degli archivi, come per esempio quello di Gentiloni Silveri, che documentano il peso degli Stati Uniti nella formazione del governo di centro-sinistra. Uno ancora più consistente del professor Buti, terza università di Roma, parla di un convegno organizzato a Bologna nel 1961; tra gli invitati risultavano nomi eccellenti tra i quali spicca quello del rappresentante più importante della CIA. Ho letto direttamente tra le pagine d’archivio elogi per Pietro Nenni definito come l’uomo più popolare d’Italia, l’uomo che aveva combattuto contro il comunismo. Da queste ricostruzioni di archivio c’è, d’altra parte un notevole sottofondo di diffidenza nei confronti della Democrazia Cristiana considerata papista. Lo stesso Kennedy aveva avuto le sue difficoltà nella convention dove era stato eletto; l’ultimo degli oratori aveva detto che era un uomo meraviglioso, in pace, in guerra, nella terra, nello spazio, ma su di lui avrebbe potuto esercitare l’influenza il Santo Padre. Truman pubblicamente manifestò la preoccupazione non tanto per l’influenza del Santo Padre ma per quella del padre…

Un altro punto controverso è il rapporto tra Stati Uniti e Organizzazione delle Nazioni Unite. Prima della guerra la Società delle Nazioni, nata dall’idea di un presidente americano, rimase senza gli Stati Uniti perché il Congresso non ne ratificò l’adesione. Nel dopo guerra è stata rifondata in America, a San Francisco, con una prospettiva più ampia e, indubbiamente con una serie di aspettative interessanti. Eppure, ancora adesso, le nazioni Unite non sono un’assemblea generale: cinque nazioni, per ragione storiche, hanno la possibilità di bloccare le decisioni. L’elenco dei veti emessi dal 1948 ad oggi ne presenta 73 degli Stati Uniti, 243 dei russi, fortemente in testa. Per 32 volte gli americani hanno però posto il loro veto sui problemi del Medio Oriente. Il dato è interessante proprio per rivelare una differenza tra Europa e Stati Uniti sul modo di affrontare il problema del Medio Oriente e, specificamente, il problema dei rapporti di Israele con i palestinesi e con gli altri vicini. L’Europa ha cominciato presto a indicare la linea giusta proponendo nel 1976 una risoluzione sullo status di Gerusalemme; l’esito fu la bocciatura della proposta: venne votata con 14 voti a favore e il voto contrario degli Stati Uniti. In questi anni abbiamo però potuto vedere Arafat vicino a Rabin che pagò con la vita questo atto di coraggio; la linea negoziale procede, con mille difficoltà, ma anche con tante speranze.

L’Italia può avere una sua politica? Può sicuramente esercitare una politica efficace su paesi che sono più vicini, una posizione che, per un primo momento, può essere fastidiosa e non condivisa, ma che poi viene ad essere riconosciuta. Il Segretario del Dipartimento di Stato in una lunga stagione importante del presidente Regan, disse che il fatto che l’Italia mantenga discreti contatti con vari elementi della comunità palestinese può essere utile come in altre aree di delicata diplomazia. Questo è il criterio con cui noi dobbiamo guardare questi problemi. Se al contrario ci si mette sulla difensiva temendo di essere amici succubi degli americani si è su una strada sbagliata. Certamente gli Stati Uniti sono molto sensibili a chi la pensa come loro: ogni anno pubblicano un volume nel quale prendono in esame tutti i voti che ci sono alle Nazioni Unite per osservare chi converge e chi diverge dalle proprie posizioni. I paesi dell’Ovest sono per il 78,4% nella stessa direzione; i paesi dell’Africa solo per il 48,7%; Israele è il più fedele, 95%, l’India la meno fedele con il 23%. L’Italia con il 73,4% è in una posizione molto giusta che permette una certa distensione.

Uno dei momenti più esaltanti che vi siano stati negli ultimi decenni riguarda la presidenza Regan. Questo presidente, ora molto malato, ha guidato una politica nell’Alleanza aperta ad un quadro più ampio del mondo. Ha concesso fiducia a Gorbaciov che cercava di innovare. Ha impostato la politica della riduzione degli armamenti, riuscendo ad avere la riduzione a metà degli arsenali nucleari, la distruzione di metà degli arsenali nucleari. Mentre si occupava del disarmo esaltava anche i diritti umani con aperture tali da sembrare impossibili. Quando, in una delle riunioni, Regan venne a dire al Consiglio Atlantico di aver proposto al presidente russo una serie di emendamenti al Codice penale sovietico, sembrò quasi improponibile che Gorbaciov accettasse, invece accolse le proposte. Questo abbinamento dei diritti umani al disarmo è veramente una linea che deve essere ripresa dopo anni nei quali sembra essere stata piuttosto dimenticata; c’è una necessità di una concertazione globale.

L’ultimo punto che vorrei toccare è quello relativo ad una delle istituzioni importanti che è ancora ad uno stato potenziale piuttosto poco espresso: l’Organizzazione della Sicurezza e Cooperazione Internazionale, l’OSCE. Qual è la sua caratteristica? Comprende tutti i paesi europei, in più Stati Uniti d’America e Canada. Nacque nel 1975, e per l’Italia firmò con una doppia firma, perché era anche presidente di turno Aldo Moro. In una seduta del Parlamento, a chi vedeva con sospetto la presenza della Russia, Aldo Moro rispose: "Breznev passerà, ma queste cose rimarranno e daranno il loro frutto". Il protocollo di Helsinki fu ripreso nel 1990 a Parigi con una piattaforma sulla quale bisogna lavorare. Ci sono forse troppe istituzioni, bisognerà fare qualche semplificazione, non possiamo non considerare questo dato come essenziale: l’OSCE però è unica perché rappresenta un collegamento sia con l’unione degli Stati Uniti, sia con il Canada. Tale unione rappresenta anche una garanzia giuridica internazionale per i diritti umani. Non sono cose che si improvvisano né in una generazione né in un piccolo numero di anni, ma quando sono stati codificati questi principi di libertà di movimento, di libertà religiosa, di difesa delle minoranze, sono stati segnati degli indirizzi che la mia generazione non potrà vedere completamente attuati, ma che rappresentano l’unica strada vera. L’ideale sarà di avere una polizia europea, una polizia europea che, proprio per la natura stessa di questa piattaforma a cui si è fatto riferimento, è un polizia con Europa, Stati Uniti e Canada.

In conclusione si potrebbe parlare non tanto di pax americana ma piuttosto di pax cum America. In un passo di un libro interessante che ha scritto Martini, per molti anni a capo della Sicurezza, si da di me una definizione che non mi dispiace: "Andreotti comprendeva che l’Italia non poteva non far parte del Patto Atlantico ma la politica del Patto, evidentemente condizionata dalla politica estera degli Stati Uniti, non sempre si adattava alla sua visione ecumenica del mondo, in un certo senso potrei dire che questo tipo di politica gli andava stretto". Ci vuole una precisazione che non irrigidisca la mia posizione nei confronti degli Stati Uniti: nel momento in cui gli Stati Uniti hanno avuto difficoltà ho ritenuto come dovere morale esprimere la mia solidarietà. Nel caso difficile del Vietnam, per esempio, presi una posizione che fu molto apprezzata dall’allora segretario di Stato. Ritenevo infatti che gli americani non avrebbero potuto lasciare i vietnamiti al loro destino; noi europei, invece di condannare l’intervento, dovevamo pensare a cosa avremmo detto se negli anni quaranta gli americani avessero ceduto alle tentazioni isolazioniste e non fossero intervenuti per combattere e per morire nel nostro continente. Nel Consiglio Atlantico del 1983 si parlò di solidarietà atlantica nella fermezza, nella pazienza, nella ragionevolezza, nel dialogo: l’America deve essere presa come esempio di integrazione nella storia.

L’educazione all’accoglienza è la consegna che noi dobbiamo dare alle generazioni del terzo millennio. Le cose non saranno mai facili, perché i contrasti sono inevitabili, gli interessi umani portano ad una serie di contrasti, ad una serie di prevalenze non sempre guidate, anzi forse poco spesso guidate da ragioni di carattere obiettivo. Sembra però importante osservare che sono caduti tanti poteri. L’Impero germanico, l’Austria, l’Impero turco, sembrano preistoria, e sostanzialmente lo sono. Dobbiamo sentire come cristiani e come italiani l’esistenza di linee su cui si possono e debbono fare tutta una serie di ipotesi subordinate, legate al tempo, legate allo spazio, legate alle opportunità. Vi sono alcune linee nelle quali, d’altra parte, non può essere assolutamente ammessa alcuna transizione ed essere orgogliosi di avere, anche nella vita pubblica, la nostra fede di cristiani: non fatto organizzativo, ma stimolo, controllo e condizionatore di carattere morale. Tutto questo che, in altri tempi, sembrava contrastante, tra obblighi civili, obblighi spirituali, obblighi religiosi, oggi noi possiamo vederlo in una sintesi che è racchiusa in una parola vera per la quale Gesù ci ha redento: libertà.

Vittadini: Il titolo di questi incontri è "educazione", che va unito al termine "politica". Oggi abbiamo capito che cosa vuol dire educarci alla politica e poiché continuano a chiedere quale sia la nostra concezione della politica, dopo queste relazioni si capisce che essa è una concezione alta, anzi altissima. Vogliamo imparare questa concezione e non ridurci alla bassa lega degli interessi. Rispetto al tema abbiamo appreso meglio, con Andreotti, la pax cum America, l’idea che valga la pena che ci sia un paese con una forte connotazione ideale, l’America, ma che ci voglia un Europa al suo fianco che non abdichi, che abbia degli statisti che fanno valere il contributo originale in qualche caso anche critico di un continente che ha 2000 anni di storia cristiana. La specificità dell’Europa è la concezione cristiana, comunque la si voglia avere.