"Che ne hai fatto del tuo fratello
senza tetto?"

In collaborazione con AVSI

Giovedì 22, ore 18.30

Relatori: George Gattoni, Lionello Gabrici,
Pietro Garau, Senior Urban Adviser della Responsabile della Cooperazione
Rappresentante Speciale Banca Mondiale Economica per l’area dell’America
per l’Europa del Segretariato Latina della Commissione Europea
Generale Conferenza Habitat II

Garau: La sigla "Habitat II" vuol dire "Seconda Conferenza delle Nazioni Unite sull’Habitat"; la prima infatti si tenne a Vancouver, in Canada, nel 1976, dove fu coniato il termine "insediamenti umani" e fu proposto per la prima volta all’attenzione del mondo il tema delle condizioni di vita precarie e spesso inumane di numeri sempre crescenti di abitanti del nostro pianeta in tutti i tipi di insediamenti, dalle bidonville agli slum, dalle favelas dalle grandi metropoli, fino ai più remoti nuclei rurali. Infine, fu quella conferenza a creare, consolidando programmi e progetti già esistenti, il Centro delle Nazioni Unite per gli insediamenti umani, noto a tutti come Habitat.

La conferenza Habitat di Vancouver diede una grande importanza al ruolo centrale dei governi, affidando allo Stato e agli organismi pubblici in generale il compito di affrontare e risolvere i problemi degli insediamenti umani nel mondo. Nel corso dell’attuazione dei programmi e della rivisitazione delle politiche internazionali e nazionali ci si accorse presto che le risorse pubbliche non sarebbero mai bastate a risolvere questi tipi di problemi: l’unica maniera per risolvere questo problema era quello di convogliare nel processo l’intera società civile ed è questo il tema che ha informato l’intera conferenza Habitat II.

Gli obiettivi fondamentali della conferenza, tenutasi a Istanbul, sono stati il conseguimento di un alloggio adeguato per tutti e lo sviluppo sostenibile degli insediamenti umani. Si è discusso molto anche del rapporto tra questi due obiettivi, e questa discussione si è in sostanza conclusa in un clima di fiducia: esistono oggi gli strumenti per migliorare la quantità, la qualità e l’accessibilità del bene casa, attraverso una strategia sostenibile di impiego dei materiali necessari (suolo, materiali edilizi, risorse umane e finanziarie) per produrlo. La scommessa è che un impiego sostenibile delle risorse possa portare ad un abbassamento dei costi e quindi ad un innalzamento sia della domanda che dell’offerta del bene casa.

Un altro risultato finale di Habitat II è stato il collegamento concettuale ed operativo tra il tema dell’abitazione e quello dell’ambiente di vita, ed all’interno di quest’ultimo la caratterizzazione degli ambienti di vita di percentuali sempre più crescenti della popolazione di questo pianeta come ambienti urbani. Di fatto la maggior parte della popolazione mondiale vive in insediamenti urbani, e questo ha spesso significato il mancato riconoscimento della differenza e della legittimità di forme di insediamento e di uso della città diverse da quelle formulate nelle codificazioni convenzionali di organizzazione del territorio. In troppi casi, soprattutto nel terzo mondo, l’oppressione dei poveri è stata giustificata da una interpretazione distorta dei criteri dell’urbanistica tradizionale: in nome dell’igiene, degli standard e dei piani regolatori, si è resa legittima la distruzione di insediamenti precari e marginali, che precari e marginali erano solo perché considerati illegittimi in partenza, cioè a dire insistenti su aree di norma pubbliche, o di incerta attribuzione catastale, e regolate da destinazioni d’uso diverse da quelle residenziali. Inoltre le aree destinate ad uso residenziale erano in partenza chiuse ai settori economicamente più deboli della popolazione, perché regolati da standard di urbanizzazione ed edilizi tali da comportare costi proibitivi delle abitazioni. Se vogliamo dare una risposta seria al problema dei senza tetto e dell’accesso dei meno abbienti alla casa, occorre innanzitutto prendere sul serio le loro risposte a questa esigenza: occorre dare cittadinanza ai meccanismi di produzione informale di edilizia residenziale e mettere in atto processi che possano aiutare gradualmente la transizione da clandestini a cittadini. E questa è la modalità con cui l’AVSI ha operato per molti anni in Brasile a Belo Horizonte.

Un altro tema di grande rilievo di tutto il processo preparatore di Habitat II è stato quello del diritto alla casa. A livello di principio, il diritto alla casa era già stato affermato in documenti conclusivi di varie conferenze delle Nazioni Unite; riferimenti si trovano inoltre nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, nel Patto Internazionale per i Diritti economici e sociali e culturali, e in altri documenti e convenzioni approvati da successive deliberazioni ufficiali dei paesi membri dell’ONU. Ma l’intero periodo preparatorio della conferenza è stato caratterizzato da forti divergenze sul tema del diritto alla casa. Alcuni paesi infatti vedevano, nel riconoscimento formale e circostanziato di questo diritto, la possibilità che singoli cittadini potessero trascinare i rispettivi governi in tribunale e pretendere in virtù di questo diritto un alloggio adeguato ai propri bisogni. Fortunatamente questa importante questione è stata conclusa in modo positivo: la formulazione del capitolo dell’Agenda Habitat – il documento conclusivo di Habitat II – dedicato al tema dell’alloggio adeguato per tutti, esordisce con l’affermazione che i governi dovranno intraprendere azioni appropriate per promuovere, proteggere ed assicurare la piena e progressiva realizzazione del diritto ad un alloggio adeguato. A parte la chiara formulazione di compromesso, resta il fatto che il diritto alla casa è stato riconosciuto e ribadito. Il testo prosegue con la esemplificazione, dichiaratamente non esaustiva, di una serie di azioni utili a ottenere l’obiettivo del raggiungimento del diritto alla casa. Tra esse figurano: proibizione di ogni forma di discriminazione nell’accesso all’alloggio, forme di riconoscimento della proprietà, protezione contro espulsioni forzose, procedure ed incentivi atte ad incoraggiare la produzione di alloggi a prezzi accessibili sia per l’affitto che la proprietà, e meccanismi per il monitoraggio e la valutazione delle condizioni abitative, inclusa l’estensione del fenomeno dei senza tetto, e dell’inadeguatezza delle condizioni abitative. Come si vede esistono gli elementi per richiamare i governi alle responsabilità precise che essi hanno assunto ad Istanbul: credo che questo sarà in primo luogo il compito delle molte organizzazioni non governative che in Italia e in tutto il mondo operano a fianco delle Nazioni Unite per garantire migliori condizioni di vita per gli emarginati ed i diseredati.

Per chiudere vorrei sottolineare due aspetti esemplificativi relativi all’esperienza di Habitat II. Il primo è il fatto che la conferenza Habitat II è stata una conferenza di partners, in cui per la prima volta si sono seduti attorno allo stesso tavolo rappresentanti non solo di governi, ma anche di città e di amministrazioni locali, di organizzazioni non governative, di agenzie internazionali... insieme i rappresentanti di questi enti hanno redatto la bozza del piano di azione che è stato poi adottato dalla conferenza. L’altro aspetto è il ruolo particolare conferito alle amministrazioni locali, ovvero il diritto di partecipare in ogni fase anche del negoziato finale del documento ad Istanbul. Questo diritto non è stato esercitato in maniera univoca e indolore, ma è convinzione di tutti che da questa strada non si ritorna indietro, cioè che le conferenze e i negoziati delle Nazioni Unite nel futuro saranno sempre più aperti alla partecipazione della società civile.

Gattoni: La Banca Mondiale venne creata 50 anni fa, per affrontare i problemi della ricostruzione dei paesi europei dopo la guerra, e con l’obiettivo di diventare una banca perché le nazioni potessero riuscire a trovare l’aiuto di cui avevano bisogno per svilupparsi; è stato soltanto 20 anni fa, che la Banca Mondiale ha dato il via al primo progetto che riguardava il problema dei poveri, delle classi meno abbienti che vivevano nelle città.

Parlando del ruolo futuro che la Banca Mondiale intende proporsi dopo Habitat II, dividerò il mio intervento in quattro parti: innanzitutto, quello che la Banca Mondiale ha avuto modo di apprendere in questi 20 anni di attività in rapporto alla povertà urbana; in secondo luogo la risposta che la Banca Mondiale vuole dare agli stimoli che vengono da Habitat; in terzo luogo le strategie, le priorità che ci siamo proposti di utilizzare, e infine le forme di partnership con i poveri che stiamo proponendo.

Negli ultimi 20 anni la Banca Mondiale ha finanziato circa 200 progetti relativi appunto al problema della povertà urbana, collocati in circa 90 paesi: da questa esperienza abbiamo imparato varie cose. Innanzitutto ci siamo resi conto che è difficile riuscire a fornire l’aiuto necessario a tutti i poveri nel terzo mondo: i nostri progetti sono riusciti a fornire un sostegno solo al 20/40% della classe più povera. Ci siamo poi resi conto del fatto che anche le classi dei meno abbienti hanno la possibilità di fare delle cose per se stessi, hanno la possibilità di costruirsi qualcosa, una rete necessaria per avere l’acqua in casa, ma anche una casa, purché venga data loro l’opportunità di farlo. Un investimento in questa direzione genera un reddito pari a venti volte tanto in termini di occupazione! Infine c’è da dire che l’entità delle popolazioni urbanizzate aumenta con una velocità incredibile – negli ultimi 20 anni si è passati da 20 milioni di persone che vivevano nelle città a 60 milioni in più ogni anno – e a questi mutamenti, come Habitat ha chiarito, bisogna attribuire la massima attenzione possibile: se 20 anni fa non eravamo in grado di offrire l’aiuto necessario alle persone che vivevano allora in città, come possiamo pensare di riuscire a farlo adesso, visto che il loro numero aumenta con questa rapidità?

Per quanto riguarda la risposta a questi problemi, la Banca Mondiale si è proposta tre linee di azione principali: la necessità di ridurre il massimo possibile la povertà nel mondo; la necessità di fare maggiori sforzi per migliorare l’ambiente in cui l’uomo vive soprattutto nelle città, e infine la necessità che governi ed enti locali trovino il modo di fornire i finanziamenti necessari, per poter dare a tutte queste persone i servizi di cui abbisognano.

Per questo motivo – e veniamo alle priorità – nel corso della conferenza di Habitat, la Banca Mondiale si è impegnata per i prossimi 5 anni, a fornire dei finanziamenti pari a 5 miliardi di dollari per migliorare le infrastrutture e i servizi rivolti alla popolazione urbana più povera. Quello che si sta cercando di fare attualmente è proprio trovare nuove modalità, nuove formule per creare delle forme di collaborazione e di partnership che permettano di raggiungere gli obiettivi che ci siamo proposti. Il tipo di partnership di cui c’è bisogno – come abbiamo appreso dalla esperienza dell’AVSI in Brasile – deve necessariamente includere le persone meno abbienti che vivono nelle città, che hanno il ruolo fondamentale di decidere il tipo di politica e di interventi che possono essere attuati a loro vantaggio. La Banca Mondiale certo è una banca creata per lavorare con i governi, ma noi cerchiamo di concentrare la nostra attività su una partnership con quei governi che intendono cercare di sviluppare le soluzioni a livello locale. Intendiamo dare origine a dei programmi in cui i governi si limitino a tracciare un quadro di azione, che deve essere poi svolto a livello di partnership locale.

Un’altra cosa che ci siamo proposti di fare è trovare il modo per far che un progetto attuato in una determinata città riesca a far sentire i propri effetti a tutti i poveri che vivono in quella città. L’esperienza che ha avuto l’AVSI in Brasile ha sempre rappresentato per noi un modello di grandissima importanza, perché ha dimostrato che lavorando con una comunità per costruire gli alloggi per coloro che ne hanno bisogno si ha la possibilità di creare questi servizi per 2000 famiglie: quello che noi ci proponiamo di realizzare, è la stessa cosa per un numero molto maggiore di famiglie, creando magari una struttura nella quale governi centrali, governi locali, enti locali, organismi come l’AVSI o le ONG possano trovare un quadro di azione per queste operazioni di più vasto respiro.

Gabrici: L’esperienza dell’AVSI ha avuto successo perché ha trovato un sistema per coinvolgere i beneficiari e perché nel contempo ha fatto un lavoro con le autorità locali. Quello che l’AVSI ha fatto adesso in Brasile, dieci anni fa non lo avrebbe potuto fare, perché solo da poco il Brasile è diventato un paese democratico. Cosa sta succedendo in America Latina, a livello politico? Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay, hanno deciso di fare il loro mercato comune, MERCOSUD. Dall’accusa che rivolgevano all’Europa di essere una fortezza, un blocco, accusa risalente al ’92, quando l’Europa si pose l’obiettivo del Mercato unico europeo, nel ’96 questi paesi hanno fatto esattamente la stessa cosa, in modo ancora più veloce. I paesi di MERCOSUD non si possono aprire al resto del mondo senza avere un loro mercato interno e un loro minimo di produttività: un minimo di produttività significa delle persone che comprano, una società civile che funziona; società civile significa anche i poveri, quindi significa che loro stessi stanno cominciando a preoccuparsi che il loro povero stia un po’ meglio, se non altro per poter comprare. È dunque in atto un duplice processo in America Latina: da una parte una spinta economica, dall’altra parte un processo di democratizzazione, finiti gli ultimi rigurgiti di dittatura.

Cosa può la Commissione Europea fare per appoggiare questo processo? La Commissione non è un organismo internazionale, non è un paese sovrano membro delle Nazioni Unite, quindi ha potuto prendere lo spunto da tutto ciò che è emerso dai dibattiti delle Nazioni Unite, come nel caso della conferenza di Habitat II, e tentare di interpretarlo e metterlo in pratica nei suoi rapporti di cooperazione con quei paesi. Come? Introducendo un minimo di dialogo e di condizionalità dell’aiuto che la Commissione fa a questi paesi. Ovviamente questo è un processo molto delicato, perché la Commissione non è un paese sovrano, ma ha quindici paesi membri che quindi devono approvarne i progetti.

Per questo la Commissione, per quanto riguarda l’America Latina, ha trovato una soluzione originale: ha introdotto il concetto di produttività marginale dell’ECU speso nella cooperazione, ovvero l’approssimarsi della società civile europea con la società civile latino-americana. Invece di usare il vecchio schema di cooperazione bilaterale abbiamo messo a disposizione dei paesi beneficiati una società civile, un capitale umano, un capitale di persone. Cominciando con le piccole e medie imprese, le Camere di Commercio, le federazioni di industrie e di commercio... Si crea una rete di mercato tra Europa e America Latina, con la Commissione Europea che coofinanzia, e i paesi in rete che danno la produttività marginale massima dell’ECU comunitario.

Questo ha cominciato a funzionare con le piccole e medie imprese, e quindi siamo passati alle Università, perché l’Università per definizione è formata da persone già preparate, che già hanno una capacità di ricezione di programmi di cooperazione. Anche per le Università, abbiamo fatto la stessa cosa che per le piccole e medie imprese: una volta ogni sei mesi pubblichiamo in tutti i giornali europei e latino-americani gli estremi di un programma decentralizzato per le Università, che permette di ottenere i cofinanziamenti della Commissione a tutte quelle Università che rispettano una serie di prerequisiti, i principali dei quali sono mettersi in rete e sviluppare un argomento che abbia un certo valore comunitario, come ad esempio tutta una serie di questioni sulle norme, gli standard industriali. Sono programmi volti a sviluppare i curriculum, gli interscambi di professori, le congiunzioni Università-impresa... insomma, ricerche fatte dalle Università e finanziate dalle imprese, per poi dare ad una certa impresa la tecnologia che è stata messa a punto nella Facoltà; però tutto questo deve avvenire in rete.

È evidente che il progetti di questo tipo sono mille volte migliori di quelli che si facevano prima con la cooperazione bilaterale, ed infatti i risultati che stiamo ottenendo sono abbastanza impressionanti: più di 1200 Università da una parte e dall’altra lavorano in rete, e ogni sei mesi riceviamo oltre 400 progetti, di cui ne selezioniamo 120 attraverso un comitato scientifico paritario, di accademici scientifici latino-americani ed europei.

Un altro progetto che abbiamo appena montato ha invece lo scopo di coinvolgere la società civile: si chiama Urbal, e prevede 15 milioni di ECU in quattro anni per promuovere incontri di amministrazioni locali – Comuni, Regioni, Province... – da una parte e dall’altra. Gli amministratori dovranno presentare e sviluppare progetti congiunti su problemi comuni, quali il problema della droga, o quello dei trasporti urbani, o ancora quelli dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani e così via, attraverso interscambi di tecnici, di specialisti, di esperienze. Se ci saranno almeno tre amministrazioni locali europee e almeno tre dell’America latina, in rete, noi finanzieremo il progetto. L’AVSI puntualmente sta lavorando a Belo Horizonte sfruttando queste opportunità ed è riuscita a mettere una realtà locale in movimento con l’amministrazione locale.

Per concludere, vorrei aggiungere che prima di occuparmi di America Latina sono stato anche in Uganda, dove già avevo incontrato l’AVSI, e già lì mi ero reso conto che cooperazione e sviluppo funzionano bene quando c’è un certo spirito di sacrificio e un forte desiderio di movimentare il beneficiario ultimo, rendendosi conto di qual è il problema per risolverlo insieme anziché limitarsi a spiegare dall’alto cosa gli assistiti devono fare.