Il primo e più grande compagno di cammino:

ricordando don Francesco Ricci

 

Giovedì 29, ore 21.15

Relatori:

Stanislaw Grygiel

Shodo Habukawa

Juan Leuridan Huis

Pietro Tiboni

Moderatore:

don Giancarlo Ugolini

 

Ugolini: Come sapete il 30 maggio è morto don Francesco Ricci. Il Meeting, che a lui deve moltissimo, questa sera ci vuole mettere di fronte a questa figura umanamente così significativa non appena per coltivare dei ricordi, ma perché attraverso la sua testimonianza ognuno di noi possa affidarsi a dei segni vivi di una presenza, perché questo è davvero il lavoro che ridà alla vita continuamente un moto in più di verità. E la vita di don Francesco è stata una segnalazione di questa presenza. Io personalmente degli ultimi tempi di don Francesco vorrei ricordare due fatti che mi hanno particolarmente colpito. Innanzitutto il clima di quella asettica cameretta d’ospedale in cui si avvertiva, invece, decisamente una serenità, una consapevolezza, un’affabilità, direi quasi un luogo di lavoro che comunicava in maniera estremamente evidente lo spessore di quell’"offro" che don Francesco personalmente ridiceva al Signore nel cuore diverse volte al giorno nella sua giornata. E vorrei poi ricordare l’omelia che don Giussani ha pronunciato in occasione della Messa di suffragio il giorno prima del funerale a San Filippo. Mi è sembrato che continuasse la lunga consuetudine di un parlarsi a fondo, da amici da sempre, ma, se è possibile, una consuetudine ancora più intensa, ancora più profonda, direi ancora più misteriosa, perché don Francesco dal mistero era posseduto ed è posseduto e don Giussani avvertiva sensibilmente la presenza di questo mistero.

Questa sera vogliamo recuperare le impronte di questa presenza sparse nel mondo, letteralmente, proprio perché l’ambito in cui viveva don Francesco era il mondo; i suoi viaggi, le parole, le iniziative, i rapporti, le comunità sparse nel mondo sono come le impronte di questa presenza. Ed è per questo che le persone che abbiamo con noi e che ci daranno una testimonianza provengono dalle più diverse parti del mondo.

Stanislaw Grygiel è docente di antropologia filosofica all’Istituto Giovanni Paolo II presso l’Università Lateranense ed è membro consultore del Pontificio Consiglio per la Famiglia.

Grygiel: Cyprian Kamil Norwid, forse il più grande poeta polacco, descrisse così ciò che aveva vissuto durante la visita al suo amico morente Fryderyk Chopin: "Fui da te in quei penultimi giorni / D’impenetrabile trama / Colmi come il Mito, / Pallidi come l’alba... / Quando la fine della vita sussurra all’inizio: ‘Non ti lacererò – No! – Io, ti darò rilievo!’".

Con queste parole di Cyprian Kamil Norwid, le cui molte poesie sono apparse in Italia proprio grazie a don Francesco Ricci che si era innamorato della bellezza e della profondità del pensiero di questo poeta, si accomiatano da lui gli Europei Centro-Orientali.

I suoi penultimi giorni sono stati "d’impenetrabile trama... / Colmi come il Mito, / Pallidi come l’alba...".

Veniva in quei Paesi riprendendo l’antico sentiero dell’ambra; non veniva però come un commerciante di opinioni, di teorie occidentali che indicano come usare la realtà, ma come un uomo di ultimi e di primi principi, che ci chiamano ad amarla, ad esistere cioè secondo la sua verità. Egli è stato un uomo giusto, è vissuto rendendo giustizia a ciò che è nella prospettiva di come tutto dovrebbe essere. Proprio per questo fu costretto a scendere nella clandestinità con tanti abitanti di entrambe le parti dell’Europa. Sì, diciamolo sinceramente, i testi pubblicati da CSEO, fondato da don Ricci, funzionavano anche qui, in Occidente, come il cosiddetto Samizdat nel mondo orientale. Il suo primo viaggio in Polonia, fatto insieme con il compianto Antonio Setola, è stato un’avventura dalle conseguenze in quei tempi difficilmente prevedibili.

In questi viaggi, o piuttosto in questi pellegrinaggi, come d’altronde nella sua vita quotidiana, Francesco Ricci si è rivelato come un uomo mandato agli altri. Egli era missione, cioè persona. Se l’umanità consiste nell’essere mandato, cioè essere dato agli altri, don Francesco è stato un’epifania di essa. Sempre, perfino "in quei penultimi giorni", pensava non a sé ma agli altri. Proprio per questo egli era se stesso. Questa abitudine di essere se stesso gli ha reso più facile ricevere la grazia di pensare nell’ultimo giorno a Cristo. Perciò siamo sicuri che egli, non avendo più nulla, è già colui che è pienamente se stesso nel Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe; nel Roveto chiamato Francesco arde Dio e arde sempre di più.

I paesi come la Polonia, la Cecoslovacchia, l’Ungheria, gli rimarranno debitori per il prezioso lavoro le cui tracce, rimaste nei suoi scritti, ed ancora di più lasciate dalla sua presenza negli uomini di cultura, saranno per noi tutti di grande aiuto nel ricercare le strade dimenticate verso l’Europa di San Benedetto, dei santi Cirillo e Metodio e di Sant’Adalberto. La sua presenza ci rincuorava e ci liberava dai confini di filo spinato in ogni senso del termine.

Francesco rompeva l’isolamento che non ci permetteva di vivere nella comunione delle persone. Apriva l’uomo all’altro uomo, la famiglia all’altra famiglia, la nazione alle altre nazioni. Facendo questa politica dell’amore, creando cioè la cultura, egli rompeva perfino le conseguenze dell’alleanza forzata ed artificiale tra l’Unione Sovietica ed i paesi dell’Occidente. Le rompeva vivendo l’Europa come essa è nel suo Principio e che oggi emerge davanti a noi come compito che esige lavoro e sacrifici. Essa lo chiamava già trent’anni fa.

Ogni compito di creare qualcosa, ponendoci davanti al Principio della realtà da compiere, ci chiama ad un’azione per l’Avvenimento, in cui questa realtà comincia e si compie. Francesco Ricci ne era pienamente cosciente ed è ciò che ha unito la sua azione a quella del cardinale Wojtyla, divenuto poi Giovanni Paolo II. Cercando il Principio di tutto ciò che accadeva nella sua vita, don Ricci ha vissuto il suo essere se stesso in sintonia con l’essere se stesso di questo Papa, sintonia che non ha avuto bisogno di dichiarazioni d’amore. Era una cosa di per sé ovvia.

Rispondendo al Principio dell’Europa, don Ricci era in grado di parlarne con competenza; egli era un europeo a pieno titolo. Con una simile competenza poteva parlare del cristianesimo e della fede cristiana e, in fin dei conti, dell’uomo. Egli era uomo! Egli era cristiano!

Quando lo vidi la prima volta nel 1966 a Milano Marittima durante un incontro con gli studenti, pensai a don Chisciotte, a causa non solo della sua altezza ma anche del suo lottare per le cose lontane. Ma subito sentii il suo amore segreto di quell’Avvenimento che è Cristo e fui sicuro di aver incontrato il cavaliere della Tavola Rotonda, un Galahad o un Lancillotto, per i quali valeva la pena di vivere solo per il Santo Graal, cioè per la grandezza della grazia divina.

Andava nei nostri Paesi con le vele alzate, cercandovi il vento favorevole che lo portasse, per dirla con Socrate, verso le isole della felicità sognate da lui. Talvolta quando bussava alla porta della mia casa a Cracovia, dove si fermava condividendo con noi la strettezza e tutte le incomodità di essa, avevo l’impressione che una di queste isole sognate si fosse avvicinata.

Egli sognava un’Europa di uomini creativi e lungimiranti. Sognandola cercava i luoghi in cui essa è nata, perché è il Principio che decide della Fine. Egli lavorava nel vero senso del termine, cercava cioè la verità perduta dell’uomo. Dovunque costruiva ponti tra Paesi, edificava il ponte tra la cultura e la fede. Egli su questa terra è stato un uomo ponti-ficale; libero e pieno di dignità. La dignità del suo essere che si rivelava nel carattere missionario del suo agire proveniva dal suo saper ricevere i doni, talvolta molto difficili, che Dio gli faceva e che esigono di saper soffrire; senza la sapienza del soffrire, Francesco non avrebbe potuto mai rispondere adeguatamente alla realtà dei doni. Avrebbe costruito teorie che avrebbero testimoniato soltanto i limiti della sua ragione umana. Francesco è stato testimone del Dono. Ha compiuto la missione a lui affidata da Dio; ha conosciuto il Dono e Colui che glielo aveva fatto. La vita di Francesco era un dialogo con Cristo, dialogo che rammentava quello che la Samaritana ha vissuto al pozzo di Giacobbe, dando da bere a Colui che glielo aveva chiesto. Come la Samaritana, anche lui è stato mandato a tante città.

C’è qualcosa di simbolico, quindi profetico, nel fatto raccontatomi qualche giorno fa dalla sorella di Francesco, Signora Eugenia. Negli ultimi mesi della Seconda Guerra Mondiale, mentre sua madre insegnava l’italiano ai soldati polacchi, Francesco, ragazzo di dieci anni, portava loro nelle taniche l’acqua dal pozzo...

Cosciente del Dono che lo aveva mandato, don Ricci non dipendeva da nessuno. Egli fu un’autorità reale, non quella illusoria la cui forza deriva dall’avere qualcosa. Francesco poteva permettersi il lusso di non avere nulla. In altre parole, egli era troppo grande per cercare onori; gli bastava l’onore di essere uomo.

Mi colpiva il suo realismo che si esprimeva nell’umiltà e nel coraggio, tutti e due signorili. L’umiltà proveniva dal suo vivere pienamente il presente; nel coraggio invece si rivelava la sua speranza, con l’aiuto della quale intravvedeva il futuro di questo presente. Mirando lontano, senza abbandonare ciò che era ancora incompiuto, lavorava creativamente. L’umiltà e il coraggio gli hanno permesso di essere un uomo buono e poetico di fronte alla realtà. Siamo quindi sereni, perché, per citare ancora Norwid, di tutte le cose di questo mondo rimarranno soltanto due: la bontà e la poesia. La sua vita era ricolma di entrambe.

Don Francesco Ricci offriva sempre tutte e due ad ogni uomo che lo incontrava. Non ricordo nemmeno un incontro con lui che sia stato guastato da parole vuote e vane. In ciò che diceva era presente lui, era presente con il suo sogno pieno di speranza, pieno di fede e pieno d’amore. Perciò non ci meravigliamo che sia stato padre e maestro per tanti suoi amici; egli rimarrà nella Memoria dell’Avvenimento, quale è Cristo Crocifisso e Risorto, Memoria poetica che è la vita della Chiesa.

Egli sognava la realtà e non i fantasmi. Perciò è stato amato, anzi è meglio dire è amato in tanti paesi, in tanti continenti. Ciò significa che don Francesco è entrato profondamente nella verità della vita. Ogni formalismo, compreso quello di carriera, al quale parecchi riducono la propria vita, gli era totalmente estraneo. Quando si trovava di fronte ad uno dei fautori di un’esistenza così ridotta, i suoi occhi erano quelli di una persona che si era incagliata nell’incomprensibile, cioè nella mancanza dell’amore.

Don Francesco ha fatto tante cose nella sua vita e le ha fatte per i valori che liberano l’uomo dalla prigione del proprio corpo ridotto a se stesso. L’uomo, così liberato, è libero dappertutto, perché è libero dalla morte. È a questa libertà che mirava la sua politica. Il vero politico, perché non ha sete di potere, sembra vivere al margine della vita sociale. Eppure don Francesco ha vissuto proprio l’essenza di essa. Francesco è stato politico nel senso più nobile, cioè nel senso socratico e cristiano del termine. Essendo se stesso, cioè pensando agli altri, li conosceva e conoscendoli poteva ricondurli ai fondamenti della società, quali sono la comunione con la verità e la liberazione dalla menzogna. È nel ricondurre gli uomini a questi fondamenti che consiste l’ars gubernandi. Colui che non ha imparato questa arte di governare realizza una politica che chiamerei ars devastandi.

Da una tale comunione con lui, da una tale arte di governare, è nata la rivista Il Nuovo Aeropago. Essa si appoggiava su di lui. Don Ricci continuerà a sostenerla, perciò non gli diciamo ancora "grazie". Credo che sarebbe troppo presto esonerarlo dai nostri doveri comuni. La sua politica di ricevere i doni e di farli, o meglio di esserli, proprio in questi giorni può aiutarci a liberare l’Europa dalla minaccia del fare politico privo dell’amore e della conoscenza dell’uomo. Il suo ultimo libro Cronache d’Europa perdute e ritrovate dovrebbe essere donato a tutti coloro che cercano non una teoria sull’Europa, ma l’Europa. Sia in Polonia sia negli altri Paesi che la stupida malizia dei comunisti devastava impietosamente, don Ricci aveva stretto amicizia con tanti intellettuali e con tanti uomini di cultura che hanno contribuito a smascherare la menzogna illuministica. Sapeva trovarli nella loro solitudine ed intravvedere il futuro che essi creavano con l’aiuto della parola libera, cioè legata alla verità, nonostante vivessero persino nella mancanza della libertà della parola. È lui che ha presentato ai lettori italiani Havel, Mazowieski, Zverina, Milosz, Patocka e tanti altri, quando i loro nomi ancora non erano un business. È lui che li ha fatti conoscere l’un l’altro malgrado le frontiere di filo spinato, raccontando in un Paese ciò che aveva visto in un altro.

Tale è stata la sua politica, quel "servizio divino", per usare l’espressione di Socrate, servizio di cui poco o nulla era più prezioso negli Stati totalitari.

Don Francesco è rinato nel Giorno dell’Eucaristia. Dopo aver ricevuto il Corpo e il Sangue del Signore, ha chiuso la sua vita terrena con la stessa dignità con cui chiudeva tante volte il tabernacolo dove abita Dio. Ma, essendo in Dio, verso il quale egli è esistito, è rimasto in tutti coloro per i quali egli è vissuto. Ringraziamo Dio per la vita di Francesco e per la sua morte, in cui albeggiò il compimento del suo ricevere il Dono. Della vita e del suo ultimo atto, qual è la morte, don Francesco Ricci, accettando la Grazia, è riuscito a fare un’epifania del Padre. Ed è ciò che costituisce l’essenza stessa della sua missione, vale a dire del suo essere se stesso, cioè del suo essere persona umana.

Padre Leuridan, domenicano belga, è responsabile nazionale del Movimento di Comunione e Liberazione in Perù dove è giunto nel 1968. Il suo incontro con don Ricci risale a tre anni fa.

Leuridan: Cari amici, il padre Francesco Ricci ha un significato molto particolare per il movimento di Comunione e Liberazione in Perù. Egli ci ha accompagnato nei primi anni con le sue visite periodiche al nostro Paese. Senza dubbio questa presenza è stata per noi determinante. Ci si è presentato come un amico e come un missionario; i molti che hanno potuto conoscerlo si sono sentiti tutti suoi amici personali. Un uomo di così vasta cultura è stato capace di ascoltare e conversare anche con le persone più umili. Per tutti aveva parole di incoraggiamento, la sua presenza era una presenza che faceva rinascere e rivivere le persone; la sua allegria ci commuoveva. Il padre Francesco Ricci era un autentico missionario. Era venuto per annunciare il Cristo, le sue conferenze non erano propaganda a buon mercato di Comunione e Liberazione, non ci parlava di quanto grande fosse ciò che aveva realizzato o stava per fare, in Italia o in altri paesi, Comunione e Liberazione. Gli importava invece comunicarci l’accadimento del grande Mistero. Non era un ripetitore di formule e termini imparati a memoria. No, invece ha espresso con tutta e sola la forza della sua intelligenza e personalità il carisma di Comunione e Liberazione. Non dava ricette facili ma invitava con l’estensione del suo spirito e la grandezza del suo cuore a prendere parte alla storia nuova iniziata dentro di noi con la presenza di Cristo. Non era un vigilante di una verità senza vita, apriva invece una strada nuova verso una vita più piena in cui la verità faceva vibrare le persone attraverso la grandezza dell’Evento che si stava producendo nella sua esistenza. L’autenticità della vita missionaria di don Francesco si manifestava inoltre nel suo profondo rispetto per le persone e le culture. Non ha mai posto condizioni o preteso qualcosa per sé. Mi azzarderei a chiamarlo un san Paolo del secolo XX, ebreo con gli ebrei, greco con i greci, barbaro con i barbari e giapponese con i giapponesi. Quest’uomo che non aveva un luogo in cui dormire o mangiare, sottoposto a una varietà di orari, di fusi di continenti diversi, di va e vieni di persone diverse, seppe conciliarsi con la gran varietà di culture e riconoscere le differenze fra i popoli, senza negare le sue stesse radici culturali. Distingueva chiaramente fra l’Annuncio atteso da tutti i popoli e le circostanze diverse. Quest’uomo colto, dotato di un’acuta intelligenza, avido nel conoscere le ultime notizie, i progressi della scienza e della tecnologia, la problematica di tutti i popoli, lettore della grande filosofia, era un sacerdote che viveva il suo sacerdozio in tutte le dimensioni, sacramentali, evangeliche e pastorali. Il suo interesse nell’approfondire e discutere le conoscenze restava arricchito dall’intelligenza attraverso il miracolo dell’incontro con la gente, anche la più semplice che rendeva possibile l’appartenenza al Grande Mistero. Il padre Francesco Ricci faceva crescere gli altri. Speriamo che ci accompagni nella via del carisma e la sua lealtà a don Giussani sia per noi una ispirazione permanente del primo e più importante compagno.

Habukawa, un monaco buddista del monte Koia, è attualmente rettore dell’università del Koiosan. Come maestro di novizi ha formato numerosi bonzi sparsi in tutto il Giappone. È uno degli ultimi incontri che don Francesco ha fatto.

Habukawa: Voglio cominciare il mio intervento ringraziando don Ricci. Siamo stati caldamente invitati da voi e siamo ritornati anche quest’estate al Meeting di Rimini. Io vorrei adesso pregare insieme al rettore Takagi e altri professori e collaboratori dell’università del monte Koia per don Ricci e mi inchino profondamente davanti a lui che è stato nostro amico, anche se abbiamo avuto poco tempo da quando ci siamo incontrati nella nostra università, ma con lui è nata lo stesso un’amicizia molto profonda. Come ho già detto, ci siamo conosciuti per un periodo molto breve, ma la nostra è stata un’amicizia molto profonda e sentivamo di condividere la stessa missione. Mi sembra che abbiamo avuto meno di una settimana di tempo per stare insieme e mangiare insieme. Nel gennaio del 1990 don Ricci venne in Giappone per visitare i gruppi di Comunione e Liberazione di Hiroshima e di Tsukuba. In quella stessa occasione venne al monte Koya e gradì molto il cibo buddista, mangiando coi bastoncini, e il bagno caldo in una vasca grande abbastanza per accogliere anche le sue lunghe gambe. Il giorno seguente egli tenne una lezione in università intitolata: "Il desiderio di felicità che esiste nel profondo di ogni uomo". Gli studenti e i professori furono molto colpiti dalla sua lezione e non finivano più di fare domande perché volevano capire meglio la sua posizione.

Poco tempo dopo la sua lezione alla nostra università, abbiamo saputo che la sua salute non era molto buona. Noi abbiamo pregato. Guardavamo il tramonto: il sole scendeva nel mare vestendo le montagne con una velatura di rosso, e in lontananza, su questo schermo pittoresco, era come se vedessimo l’Italia e pensavamo a don Ricci, nel suo letto, e pregavamo. E poi abbiamo scritto una lettera in ospedale. "Nell’università dove volevi tanto ritornare ancora, ora cinquanta studenti hanno quasi finito la loro preparazione. Noi aspettavamo il tuo arrivo e ti sentivamo presente durante gli esercizi. Pregheremo nel nostro tempio che tu guarisca presto. Ti preghiamo di accettare che sia fatta la volontà divina e speriamo che presto tu guarisca e sia in grado di ritornare in Giappone e al monte Koya che hai molto amato".

Ho qui con me una lettera di don Ricci, è datata 8 aprile 1991, quando credo stesse peggiorando, dopo la sua ultima malattia. Vorrei leggervi questa lettera con molta serietà e commozione di fronte all’anima di don Ricci che ha un’anima pura e profonda e piena di amore e verità. "Carissimi professori Takagi, professore Matsunaga e professore Habukawa, grazie per la bellissima lettera con cui avete ancora una volta espresso la profonda amicizia di comunione che ci lega e ci unisce. Il sole che da voi scende rosso la sera, sorge qui rosso al mattino, proprio davanti alla finestra della mia camera di ospedale. Lo guardiamo come un punto luminoso che segnala la presenza del centro del cosmo, al quale dobbiamo l’essere e il vivere. Mille volte arigatò per le vostre preghiere con le quali chiedete che io accetti la volontà divina, anche quella della mia guarigione. Alle vostre preghiere io unisco le mie per voi affinché Colui che adorate e amate vi protegga rendendo felici le vostre giornate e fedeli le vostre preghiere. Anch’io vi dico arrivederci a presto al monte Koia. In grande e definitiva amicizia, il vostro don Ricci".

Questo è tutto, noi speriamo fermamente che la sua anima sia nella pace eterna. Noi ringraziamo moltissimo don Ricci e sentiamo la sua presenza con noi in questo momento. E con noi sarà per sempre con una missione di amore e di verità.

Padre Tiboni, comboniano, è missionario in Uganda dal ‘70. Ha incontrato Comunione e Liberazione dal ‘75 e, pure in quegli anni, ha incontrato don Ricci.

Tiboni: La ragione per cui siamo qui radunati a guardare alla figura ammirevole di Ricci è che in lui si esprime nella maniera più viva e gloriosa la dimensione missionaria del carisma di Comunione e Liberazione, insieme con la dimensione culturale, come ha ben espresso il professor Grygiel, che del resto è inseparabile dalla missione. Per me poi come missionario è proprio la ragione per cui nella ricerca di una missione, di un metodo missionario che fosse realmente significativo, ho incontrato il Movimento e ho incontrato don Ricci. Per cui io voglio comunicare brevemente a tutti la grandezza del dono che il Signore ha fatto al Movimento attraverso la persona di Francesco Ricci, e in particolare il dono che ha dato alla missione del Movimento. Nei primi anni, cioè negli anni ‘50, Ricci era cappellano dell’Azione Cattolica e incontrò don Giussani a Roma. In quel momento lui stava cercando qualcosa che potesse essere veramente significativo per la vita degli studenti di cui stava occupandosi e ha incontrato in don Luigi Giussani ciò che cercava. Da allora egli è stato un profondo amico e compagno di Giussani in tutto il lavoro e in tutte le opere. Io quando lo incontravo lo chiamavo "missionario dei cinque mondi", ricordando Garibaldi che è solo "eroe dei due mondi", ma l’esser missionario è una cosa diversa perché lui viveva a Forlì, in Romagna, la parte più rossa dell’Italia e di tutto il mondo, dove il comunismo è profondamente radicato nella cultura del popolo. Poi insegnava, era professore a Bologna, come sapete la capitale del comunismo italiano. E lui ha costruito il movimento proprio in questi luoghi con forza, un coraggio ed un’intelligenza grandiosa. Ma l’infinito orizzonte della sua intelligenza e del suo cuore non poteva trattenerlo in Italia. E subito si è aperto verso l’Est, in particolare verso la Polonia, come è stato ricordato di nuovo dal professor Grygiel. Ha visitato quei Paesi, si è messo in contatto coi movimenti cristiani, ne ha espresso tutta la ricchezza attraveso il Centro di Studi per l’Europa dell’Est, la rivista CSEO. Quello che è interessante è come un po’ alla volta la sua passione per l’Europa dell’Est è stata comunicata a tutto il movimento, che lo seguì in profonda comunione con tutti i cristiani dell’Est europeo, mentre tutti gli altri d’Italia non erano interessati a questa grande realtà. Poi negli anni ‘70 la sua attenzione si è rivolta verso l’America Latina, dove si è recato molte volte. Quando io sono andato in Paraguay nell’88 mi sono reso conto come le comunità dell’America Latina provenienti dal Cile, dall’Argentina, dal Paraguay, dal Brasile, consideravano Ricci come loro fondatore, più ancora come loro padre e mostravano un’affezione, un’ammirazione e un affetto per lui straordinario, che del resto vi è stata testimoniata dal padre Leuridan. Io nell’Uganda sono stato espulso dal presidente Amin nel ‘75. Durante il periodo che ero in Italia dal ‘75 all’80, padre Francesco Ricci andava a visitare i volontari che erano in Uganda a Kitgum. In quel periodo la situazione della comunità di Kitgum nell’Uganda era semplicemente tragica, sia per la situazione esterna che quella interna. E Ricci mi diceva che era stato mandato dall’autorità del Movimento per chiudere definitivamente la presenza dei volontari a Kitgum, porre termine per così dire all’esperimento che non produceva niente, anzi solo afflizioni. E dobbiamo a don Ricci se la presenza a Kitgum è continuata e se più tardi nell’81 ha potuto avere inizio il movimento di Cristo è Comunione e Vita. Don Ricci ha sempre manifestato una grande passione e una grande accoglienza per la nostra presenza in Uganda e nell’Africa. La mia amicizia con lui si approfondì ancora con l’inizio del movimento di Cristo è Comunione e Vita che fece conoscere a tutto il movimento di Cl, specialmente nell’America Latina, così come l’Atto di Affidamento alla Madonna che è diventato comune nell’America Latina e anche in Polonia. Durante gli ultimi tre anni la sua malattia si aggravò. Spesso gli dicevo: "Ricci, tu non morirai prima di avere costruito anche l’Asia". E ho pregato per lui. E difatti, già ammalato di cancro, lui ha potuto andare, come avete sentito, in Giappone a rinforzare la presenza là. E il suo desiderio era anche di aprirsi e di entrare nella Cina. Ma invece il Signore il 30 di maggio del ‘91 l’ha chiamato ad entrare nella gloria dei santi per potere di là seguire tutta la missione ed essere veramente il missionario dei cinque continenti, in una maniera più efficace, con una presenza più efficiente che non quando era in vita. Quando penso a lui ricordo san Francesco Saverio, che allo stesso modo, dopo essere stato missionario in India e Giappone, morì sull’isola di Timor, guardando verso la Cina dove voleva andare. Anche Saverio era un brillante professore all’università di Parigi quando Ignazio di Loyola gli si presentò umilmente, quasi come un mendicante a ripetere continuamente: "Cosa importa guadagnare tutto il mondo e far carriera nell’università se poi rovini la tua vita?". Saverio è diventato il più affezionato discepolo di Ignazio che lo ha mandato in India e in Giappone. Possiamo dire che Francesco Saverio è stato per Ignazio quello che Francesco Ricci è stato per don Giussani, il quale ha fondato la grande compagnia del Movimento e ha mandato don Ricci in tutto il mondo, come san Francesco Saverio. La mia amicizia e ammirazione per lui era profondissima e anche la sua affezione per me era straordinaria, e stranamente, questo non l’ho mai capito, anche la sua ammirazione. E adesso che è morto la nostra amicizia non è per nulla diminuita, anzi, è diventata più grande e la sua presenza più potente, per cui c’è veramente un’affezione anche più grande. E credo che sia quello che succede a tutti voi.

Ugolini: Questa è la memoria viva e commossa che abbiamo di don Francesco. Il Meeting vuole continuare con il suo contributo perché queste orme sparse nel mondo da don Francesco, di una presenza, non si cancellino, anzi si estendano davvero fino ai confini della terra, così com’era la passione e lo spasimo che don Francesco aveva: che l’avvenimento di Cristo fosse conosciuto, si estendesse a tutti i popoli del mondo.