Mercoledì 24 agosto, ore 11

GIOVANNI PAOLO II SCOPRITORE ED EDUCATORE DEL SENSO RELIGIOSO DEI POPOLI: TESTIMONIANZE

Partecipano:

Thomas Hongsoon Han

docente di Economia Politica

Joseph Khoury

arcivescovo di Tiro e Terra Santa.

Conduce l’incontro:

Luigi Negri.

Giovanni Paolo II ha intessuto un dialogo autentico con il cuore dell'uomo in due situazioni molto diverse fra loro: il Libano e la Corea. La radice di questo dialogo personale risiede nella capacità di ridestare il senso religioso nell'uomo, mediante l'annuncio di Cristo.

L. Negri:

Ottobre 1978: nell'omelia della messa di inizio del suo servizio di supremo pastore della Chiesa universale, Giovanni Paolo II diceva: "Oggi così spesso l'uomo non sa cosa si porta dentro, nel profondo del suo animo, del suo cuore, così spesso è incerto sul senso ultimo della sua vita su questa terra, è invaso dal dubbio che si tramuta in disperazione, permettete quindi vi prego, vi imploro con umiltà e con fiducia, permettete a Cristo di parlare all'uomo. Lui solo ha parole di vita eterna". In modo straordinario Giovanni Paolo II ha vissuto davanti ai nostri occhi, nello spazio del mondo, questo dialogo intenso ed ininterrotto con il cuore dell'uomo con ciò che c'è in ogni uomo prima e più profondamente delle divisioni razziali, sociali, culturali, economiche, politiche e, addirittura, religiose. Un dialogo ininterrotto che il Papa ha vissuto e vive con ogni uomo, in qualsiasi situazione. Sua Eccellenza Monsignor Joseph Khoury, e il Professor Thomas Hongsoon sono due testimoni di questo dialogo fra il Papa e il cuore dell'uomo che vive in una delle zone più martoriate del mondo, il Libano, e dell'uomo che vive nella situazione della Corea del sud, anch'essa gravida di tanti problemi ma con una comunità ecclesiale cattolica straordinariamente viva ed appassionata. A tutti e due abbiamo chiesto una testimonianza che in qualche modo risponde a questa domanda: "Che cosa ha significato, che cosa significa, per il cristiano che vive in Libano, per l'uomo che vive in Libano e per il cristiano che vive nella Corea del Sud per l'uomo che vive nella Corea del Sud, questa quotidiana testimonianza che il Papa ci dà di saper parlare al cuore dell'uomo perché porta Cristo?"

T. Hongsoon Han:

Sono venuto per darvi la mia testimonianza sulla visita del Santo Padre in Corea. Il Santo Padre ha visitato la Corea agli inizi del maggio 1984. La Sua visita era un avvenimento veramente storico non soltanto per la Chiesa coreana, ma per tutta la Corea. Non era infatti una visita apostolica alla Chiesa coreana, ma anche una proclamazione solenne della buona novella a tutta la nazione coreana. Tutto il popolo coreano ha accolto il Santo Padre non come capo dello stato, ma come educatore spirituale che non si esaurisce mai nel difendere i valori spirituali della giustizia, della pace e dell'amore. Per tutto il popolo coreano, il Santo Padre è l'apostolo della pace che mette in pratica la preghiera della pace di S. Francesco. Ma perché il Santo Padre è venuto a visitare la Corea! Voleva celebrare il bicentenario della Chiesa coreana insieme al popolo coreano e in mezzo al popolo coreano. La chiesa coreana è molto giovane, ha compiuto appena più di cento anni nell'84, ma la sua storia è tutta particolare. Ogni tanto mi chiedono, soprattutto in Europa o anche negli Stati Uniti: "Ma chi erano i primi missionari in Corea?". Rispondo subito, i missionari eravamo noi stessi. Un gruppo di studiosi coreani che avevano sete del Dio ignoto, studiavano libri sulla fede cattolica pubblicati qualche anno prima in Cina e nel 1784 mandarono uno fra di loro a Pechino per essere battezzato. Questi, al suo ritorno battezzava i suoi colleghi. Così nacque la prima comunità ecclesiale 204 anni fa. Fu quel gruppo di cercatori di infinito a fondare, come costruttori di storia, la Chiesa nel paese del mattino calmo, che è il soprannome di Corea. Infatti la Chiesa cattolica fu il primo contatto diretto nato spontaneamente col mondo occidentale, il primo impatto della cultura occidentale in Corea che allora era completamente chiusa. I primi cristiani laici non avendo alcun sacerdote, formarono la gerarchia eleggendo i preti e fra di loro il vescovo. Questa notizia raggiunse l'autorità ecclesiale a Pechino che la proibì e mandò un prete cinese. Qualche decennio più tardi arrivarono i preti francesi così la Chiesa Coreana fondata dai laici fu senza preti per quasi cinquant’anni. Nei 200 anni di storia della Chiesa coreana, la prima metà fu occupata dello scontro frontale con le religioni tradizionali (persecuzioni severissime durante le quali furono massacrati migliaia e migliaia di cattolici). I martiri innumerevoli offrirono la propria vita sull'altare di Dio in un modo così umile che neanche i loro nomi furono conosciuti. Neanche la seconda metà è stata senza sofferenze. Fu la caduta della dinastia, il disordine sociale, l'occupazione giapponese, la liberazione e la divisione della nazione, l'invasione dei comunisti del nord che iniziò la guerra coreana nei primi anni cinquanta. Quindi la persecuzione è continuata nel nord. Non abbiamo alcuna traccia visibile della Chiesa cattolica nella Corea del nord. Solo dagli anni sessanta la Corea ha iniziato uno sviluppo economico ed ora viene considerata uno dei paesi più industrializzati del terzo mondo: il primo paese nel terzo mondo ad ospitare tra meno di un mese i giochi olimpici. La Corea viene ormai chiamato un paese industriale, quindi si sono succeduti tanti problemi sociali, economici politici e culturali in conseguenza del processo di uno sviluppo industriale così accelerato (sfruttamento degli operai, diseguaglianza, consumismo, decadenze morali, ecc.). In questo contesto storico cosa ha portato la visita del Santo Padre? Anzitutto ha svegliato e ha fatto capire a tutto il popolo coreano che le sofferenze, la via crucis del popolo coreano è un processo inevitabile da percorrere per realizzare un nuovo cielo e una nuova terra in Corea. Nei diversi discorsi il Santo Padre ha dato al popolo coreano un insegnamento chiaro, un criterio assoluto della giustizia e della pace, il rispetto della dignità dell'uomo. La sua visita alle persone che soffrono la povertà, la malattia, soprattutto i lebbrosi, l'oppressione politica e i suoi incontri con i giovani e gli operai, con i leader delle altre religioni, con i personaggi del mondo culturale, ci hanno offerto un esempio vissuto nella realtà, come Gesù Cristo fece nel suo tempo. La stretta di mano del Santo Padre con i leader delle religioni tradizionali è stata stimata come un gesto molto significativo perché proprio lo scontro con queste religioni tradizionali, con i valori tradizionali, sono la causa principale delle persecuzioni. Quindi, con tale gesto, il Santo Padre ha trasformato la storia dell'intolleranza nell'era della riconciliazione. Il suo viaggio in Asia, la sua persona, può rappresentare il tentativo sincero di scoprire il valore delle culture orientali e di sviluppare il dialogo con il cristianesimo per un eventuale evangelizzazione della cultura. Aggiungerei che il suo viaggio in Asia dovrebbe essere un'occasione preziosa per i cristiani dell'occidente per conoscere meglio i valori orientali. Si può dire che il Santo Padre con i suoi viaggi compie la sua missione di scopritore ed educatore del senso religioso non soltanto per il popolo che visita, ma anche per tutti i popoli del mondo. La canonizzazione dei 103 martiri santi, che è stata fatta dal Santo Padre a Seul durante la sua visita, ha costituito un avvenimento storico, non soltanto per la chiesa coreana ma anche per tutta la chiesa universale. È da notare anzitutto che questa è la prima canonizzazione che abbia mai avuto luogo fuori Roma con un numero così grande di Santi, 103, in una sola volta e una forte prevalenza di laici. Infatti, fra i 103 santi solo 11 sono sacerdoti e 92 sono laici e fra questi ultimi il più giovane è un ragazzo dodicenne patrono santo della mia parrocchia. Questa canonizzazione ci ha dato conferma che la chiamata al cristianesimo è la chiamata al martirio quotidiano del vivere la fede. Questa canonizzazione ci ha rinnovato ancora una volta la nostra missione evangelizzatrice nel nostro paese, ha reso la Chiesa più visibile nella società coreana. La chiesa in Corea è diventata il punto di riferimento per la società pur essendo minoranza (il 5% della popolazione). La chiesa coreana è cresciuta con un ritmo straordinario (io direi ordinario). Nel 1960 i cattolici erano più o meno mezzo milione in tutta la Corea e 25 anni dopo sono più o meno 2 milioni, mentre adesso, alla fine dell'87, sono 2 milioni e 300 mila, ciò significa, un aumento di 160 mila rispetto alla fine dell'86 e di questi 160 mila, 140 mila sono adulti. Ciò significa un aumento di 600 mila fedeli dopo la visita del Santo Padre. I cattolici coreani sono giovani, 35% sono di età inferiore ai 20 anni, 36% sono di età compresa tra 20 e 39 anni, ci sono 730 parrocchie, 120* preti coreani, 200 preti stranieri, 4700 suore coreane e 200 suore straniere. Nel 1981 c'erano due seminari maggiori ma adesso i seminari maggiori sono 4. Per entrare in seminario bisogna passare l'esame di ammissione perché c'è una concorrenza assai forte. Più di 10.000 giovani universitari offrono la loro opera come insegnanti nelle classi del catechismo che si tengono ogni domenica. Si sta verificando nella terra coreana la famosa frase di Tertulliano: "Il sangue dei martiri è il seme dei cristiani". Come il Santo Padre ha presentato i suoi insegnamenti? Anzitutto devo dire che sono stato totalmente sbalordito quando il Santo Padre ha cominciato a pronunciare il Suo messaggio d'arrivo in coreano (ha pronunciato in coreano almeno una parte di quasi tutti i suoi discorsi). Parlare in coreano indicava già il grande successo della sua visita in Corea: tutto il popolo rendeva il massimo rispetto e amore al Santo padre che voleva identificarsi come un amico vero, pronto a sacrificarsi per loro. Il Suo messaggio d'arrivo diceva in coreano: "Non è davvero una gioia avere un amico che viene da lontano?". Tutto il popolo capiva che parlare in coreano rappresentava il suo amore profondo per loro. Comprendevano quanto sarà stato duro per il Santo Padre imparare una lingua orientale completamente diversa dalla sua (una lingua utilizzata solo per una visita e che non avrà quasi mai l'occasione di utilizzare) - Lo sforzo di parlare in lingua coreana esprimeva il suo rispetto per la cultura coreana (come voi sapete la lingua è un elemento essenziale della cultura), esprimeva il suo desiderio di stare insieme al popolo, in mezzo a loro come un buon pastore che ci insegna l'indirizzo nuovo dell'evangelizzazione, (incarnarsi nella cultura per evangelizzarla). Tramite la visita del Santo Padre molti coreani hanno avuto conferma dell'immagine buona che avevano fino ad allora, della Chiesa cattolica. Molti erano fieri del fatto che i cattolici coreani loro compaesani erano riusciti ad ottenere un successo così grande nell'organizzazione della visita al Santo Padre. Il giorno della canonizzazione si erano radunati più di mezzo milione di cattolici nella piazza più grande in tutta la Corea. Arrivati già prima delle 3 del mattino, vi rimasero fin dopo l'una del pomeriggio. Allora l'autorità municipale aveva predisposto 50 camion della nettezza urbana fuori dalla piazza per raccogliere i rifiuti che inevitabilmente produce un'adunanza di folla cosi grande. Ma alla fine della cerimonia, poiché tutti i presenti avevano già pensato alla pulizia, questi 50 camion rimasero senza lavoro. Questo episodio fu riportato favorevolmente da tutta la stampa coreana. Il successo di tale organizzazione aveva dato ai coreani un certo senso di fiducia, che può far bene anche nella preparazione delle olimpiadi di quest'anno. Secondo loro è stato possibile perché la Chiesa cattolica è la religione vera, unita sotto la guida del Santo Padre, pastore splendido. Non sono pochi i coreani a pensare che se dovessero scegliere una religione, non esiterebbero a scegliere il cattolicesimo. Non è una esagerazione dire che tale atteggiamento è sempre più prevalente tra i coreani nei confronti della religione. Devo dire che l'influenza personale del Santo Padre ha giocato molto nel portare un così grande successo. I coreani hanno semplicemente amato e rispettato la Sua persona. Nessun ospite dello stato ha mai visitato i poveri, i lebbrosi, si è mai incontrato con i giovani, ha parlato dei loro problemi. Nessun ospite dello stato ha mai parlato in coreano, quindi la Sua visita e la Sua presenza ha creato un'atmosfera ancora più favorevole, nella storia della chiesa in Corea per l'evangelizzazione. E noi cattolici coreani siamo decisi a trarne il massimo. Alla fine della messa invece di dire: "La Messa è finita andiamo in pace" noi diciamo: "La messa è finita, andiamo ad evangelizzare". La Chiesa coreana ha fatto del suo meglio per rispondere alle esortazioni dal Santo Padre, ha fatto tutto il possibile per stare di fianco ai poveri, per dare voce a coloro che non possono aver voce. Per esempio, è stabilito che almeno il 10% delle risorse della parrocchia debba essere speso per aiutare i poveri. La Chiesa coreana è stata quasi l'unica voce del popolo per promuovere la giustizia e la pace: il tema scelto per il prossimo 44' Congresso eucaristico internazionale che si terrà a Seul l'anno prossimo è "Cristo nostra Pace". Colgo l'occasione per chiedervi di pregare per il successo di questo congresso, per il bene della Chiesa universale: in questa occasione desidereremmo avere un'altra visita del Santo Padre. Anche se siamo una minoranza, non abbiamo mai paura di un confronto con gli altri, anzi la chiesa coreana gode la massima fiducia e rispetto tra il popolo. Noi cattolici coreani siamo consci e fieri della nostra missione evangelizzatrice. Siamo pronti a fare qualsiasi cosa necessaria per la Chiesa. Ci siamo impegnati per i movimenti e per le associazioni dell'apostolato, siamo soprattutto convinti che per trasformare il mondo ciascuno di noi deve essere Chiesa nell'ambito della vita quotidiana, facendo nostro l'esempio del Santo Padre di incarnarsi nell'ambiente dove ciascuno vive, vivendo la parola di Dio. Noi cattolici in Corea siamo convinti che la Chiesa siamo noi.

J. Khoury:

Lasciatemi spendere due parole sul mio Paese, per quelli che non ne sanno niente, che ne sanno poco, o quelli che rinunciano a saperne di più, poiché il dramma che il Libano sta vivendo da 14 anni è durato troppo e sembra troppo complicato. Non vi parlerò del Libano antico, caro ai suoi veri figli di oggi, questo Libano che aveva per nome Fenicia e che ha dato Tiro e Cartagine, sua figlia, da Enea a Agostino, Byllos, Beryte e molte altre metropoli, che ha inventato l'alfabeto, creato il commercio internazionale su tutti i mari, ha circumnavigato l'Africa prima di Magellano, scoperto l'America prima di Cristoforo Colombo, che ha disseminato nel Mediterraneo e nelle Isole Britanniche le sue "Comptoirs" (piazze, punti di commercio), ha dato al suo tempo più di un illustre scienziato e pensatore. Non mi dilungherò nemmeno sul Libano. della Bibbia dove il profeta Elia aveva trovato rifugio e dove si recò Cristo stesso guarendo la figlia della cananea ed esercitando per la prima volta la carità verso i pagani; il Libano attraversato anche da San Paolo in viaggio verso Roma. Fu proprio a Tiro che egli incontrò una delle prime comunità cristiane già fiorente, Tiro, la mia attuale sede vescovile, eresse la prima Basilica a Maria Vergine, subito dopo la Pace di Costantino, che accolse l'uno dopo l'altro Origene e Attanasio. Il Libano di cui voglio parlarvi è nato nel VII secolo, rifugio di due minoranze perseguitate: i Maroniti, che si dovevano difendere dal monofisismo trionfante, i Drusi, perseguitati dall'ira dell'islamismo che irrompeva su quello che era stato fino a poco tempo prima il glorioso Impero cristiano d'Oriente. Queste due minoranze hanno reso la Santa e Unica Montagna, rocca della loro libertà e della loro fede per molto tempo, in piena e reciproca armonia. Dopo tre secoli di silenzio quasi totale le porte dell'Occidente si aprirono per le Crociate. Quando più tardi le capitolazioni misero i cristiani d'Oriente sotto la protezione delle potenze europee, Francia in testa, non furono i maroniti ad avviarsi su questa strada. Fu invece un principe druso, il più grande che il Libano abbia mai conosciuto, che con l'aiuto efficace dei maroniti negoziò col Papa a Roma, con i Medici di Firenze e con altre potenze cristiane, alleanze che volevano riparare le conseguenze disastrose delle Crociate, creando un nuovo equilibrio tra Oriente e Occidente. Questo grande disegno, come tanti altri precedenti e seguenti, non riuscì per la zizzania presente fra i cristiani in questi secoli. Nonostante tutto ci fu un risultato concreto: nel grande Impero musulmano (poi Ottomano per quattro lunghi secoli), emerse una personalità libanese autonoma, miracolo di perseveranza e di coraggio, finalmente coronata dalla proclamazione dell'Indipendenza, dopo la prima Guerra Mondiale. Dopo il Libano, sotto il mandato francese, avrebbe allora potuto diventare una Repubblica Cristiana ma i maroniti, con alla loro testa il Patriarca, non lo permisero, fedeli alla convivenza secolare con i Drusi e tutte le altre comunità cristiane e musulmane che le avevano seguite, l'una dopo l'altra, per giungere al numero ufficialmente riconosciuto di 17. È su questa base che fu proclamata l'Indipendenza completa nel 1942. Una formula sapientemente dosata di spartizione dei poteri e delle responsabilità portò al Paese una prosperità senza precedenti, invidiata dai paesi vicini e lontani, piccoli e grandi. Era l'esempio di una convivenza e di una cooperazione fruttuosa. Per la prima volta nella storia, Cristiani e Musulmani si trovarono a vivere insieme, cittadini di un Paese credente ma non settario, liberale senza essere libertino, rispettoso dei diritti e dei doveri di ognuno, godendo di un ruolo notevole ed indispensabile nel campo culturale ed economico della regione all'interno della Lega degli Stati Arabi da un lato, e delle Nazioni Unite dall'altro. Però il "Verme era già nel frutto". All'indipendenza del Libano, seguì prima il dramma palestinese, poi il risveglio del nazionalismo arabo e anche l'esplosione del fondamentalismo musulmano. Tutti loro scelsero il Libano come terra per le loro querelle e ci portarono il calvario di cui ora stiamo vivendo la quattordicesima Stazione. Dopo questo preambolo lungo ma forse non abbastanza, comunque indispensabile, giungo a parlare dell'azione svolta dal grande Pontefice, Papa Giovanni Paolo II. Il suo predecessore, Paolo VI, non aveva contenuto i suoi sforzi durante i tre anni di crisi, dal 1975 al 1978. Giovanni Paolo I stesso si era interessato a noi durante il suo troppo breve pontificato. Giovanni Paolo II da 10 anni, fa della crisi libanese la sua principale preoccupazione. Nonostante questo, qualcuno riesce a chiedere: "Ma che cosa ha fatto il Papa per il Libano?" Io risponderei, usando un doppio aforisma: "Nessun uomo, nessuno stato, ha fatto per il Libano quello che fa fatto Giovanni Paolo II. Giovanni Paolo Il non ha fatto per nessun uomo, né stato, Polonia inclusa, quello che ha fatto per il Libano"! Ci si pensi per bene. Facciamo dunque un breve bilancio dei suoi interventi, prima di vedere la sue intenzioni e i suoi progetti. 1- Egli parla del Libano già dal suo appello del 17 ottobre 1978. 2 - Non perde l'occasione di parlarne durante gli Angelus della domenica ed alle udienze settimanali. 3 - Alza la voce nei momenti particolarmente cruciali come durante i fatti di Zalilè, l'assassinio del P.Abi-Akl a Tiro, le minacce su Jezzine dove egli mandò, cosa che nessuno aveva fatto prima di lui un suo rappresentante permanente, il Rev. Bourigues. 4 - Pronuncia numerosi discorsi al corpo diplomatico, al collegio dei Cardinali, alle grandi istituzioni internazionali, ONU in testa, ai grandi di questo mondo, da Regan a Arafat, agli ambasciatori del Libano, alle delegazioni parlamentari libanesi, ai Patriarchi delle sue diverse Chiese. 5 - Particolarmente ci furono il primo maggio '84, le tre lettere inviate da lui al Patriarca della Chiesa marronita, ai suoi vescovi e a tutti i libanesi. Ci furono, le missioni affidate ai Cardinali Bertoli, Etchegaray, Casaroli, e Silvestrini. L'unica cosa che egli non ha fatto è di recarsi personalmente in Libano come ha fatto invece dappertutto. Ma sappiamo che lo ha sempre desiderato o lo desidera ancora. Parlerò adesso dei motivi di questo interesse costante manifestato al Libano da questo instancabile Pontefice. 1 - Non vi è alcun dubbio che di fronte ad un popolo provato il Papa può solo pensare, parlare, a volte agire, ma soprattutto pregare, nonostante ciò che ne pensino, o ne dicano gli scettici e gli impazienti: quanto più in una prova eccezionalmente lunga e dolorosa come è quella del nostro infelice Paese. 2 - Inoltre questo dramma è come gemellato a quello palestinese, anche esso lugubre e senza fine, che ha catalizzato l'attenzione dei Papi dall'inizio a causa dell'infelicità del suo popolo e del problema primordiale dei Luoghi Santi. 3 - In ambedue i casi, si tratta della situazione dei cristiani, dei suoi figli, dei suoi fratelli, e dell'avvenire stesso del Cristianesimo in Oriente. Oserei dire che a questo riguardo la situazione è più grave in Libano che in Palestina. Se la popolazione cristiana diminuisce in Palestina, si rischia di far diventare i luoghi santi musei. Ma se la popolazione cristiana diminuisce in Libano e se la situazione che hanno creato i cristiani libanesi viene battuta in breccia, è l'intera presenza cristiana in Oriente che verrebbe compromessa. Se l'espansione cristiana e, diciamolo pure, cattolica in Libano (che non trova paragone in nessun altro paese né dall'Asia all'Atlantico, al Pacifico fino all'Oceano Indiano e le Filippine) cessa, e con lui l'irradiamento su tutte le minoranze in terra islamica, arriveremo a una nuova Chiesa del silenzio. Perciò l'interesse di Giovanni Paolo Il per il Libano è profondamente legato alla posta islamico-cristiana in gioco, all'intero disegno ecumenico del Concilio Vaticano II per il prossimo millennio. Il caso del Libano, in effetti, rappresenta per il papa una causa esemplare nello spirito del raduno senza precedenti di Assisi e del disegno pontificale che tale raduno ha fatto simbolicamente riconoscere. All'interno della convivenza islamico-cristiana di cui il Libano è il laboratorio da tredici secoli, il caso dell'Islam è forse il più difficile da gestire nello spirito dei Assisi. Ciò è dovuto alla natura non diremmo totalitaria, ma totalizzante dell'Islam, il quale vive dall'origine fino ad oggi il regime medioevale della cristianità, con tutte le sue tentazioni e i suoi insuccessi, per i musulmani come per i cristiani. Vorrei ricordarvi che i gruppi musulmani minoritari (Sciiti, Nosairi, Drusi, per esempio) hanno sofferto al riguardo più dei minoritari cristiani. Dall'inizio i Mùtazili, ma soprattutto nei tempi moderni e all'epoca contemporanea, grandi spiriti religiosi o filosofici musulmani, principalmente quelli in contatto con il cristianesimo hanno tentato di "modernizzare" l'Islam senza purtroppo grande successo! Questo grande tentativo rappresenta quello che si chiama, sul piano politico e letterario, il "Rinascimento arabo". E stato intrapreso soprattutto in Egitto nel secolo scorso, principalmente con l'aiuto dei cristiani libanesi nella valle del Nilo, che stavano fuggendo il giogo ottomano. Per questo l'esperienza libanese poteva essere considerata l'antidoto alla esperienza israelita la quale esaspera l'integrismo musulmano. Il Libano è la vittima di questa collusione antinomica, questa dubbia reminiscenza medioevale in pieno XX secolo. Il Libano come simbolo di modernità, e progresso nella convivialità islamica cristiana va dunque al di là dell'ideale di coesistenza pacifico dei popoli nella diversità di religione. Esso rivela il disegno ultimo di Giovanni Paolo II. Parliamo ora di quello che rappresenta il Libano nella politica generale nel pontificato di Giovanni Paolo II e di quello che noi potremmo chiamare il "suo disegno ultimo". Giovanni Paolo Il è un apostolo della convivialità tra le religioni e della riconciliazione dei cristiani. L'una e l'altra sono al servizio della pace e di "questo altro nome della pace" che è lo sviluppo. Ma come l'unità cristiana è al servizio della fede (che siano una cosa sola perché il mondo creda), così la convivialità tra religioni è al servizio dell'uomo e della sua manifestazione plenaria, totale ed ultima, che è per noi il Verbo incarnato. Questo dialogo si manifesta certamente in una riconoscenza reciproca di credenze e riti, ma per Giovanni Paolo II le religioni sono soprattutto creatrici di cultura. È attraverso il dialogo delle culture infatti, che conduce la Chiesa ad assumere pienamente il genio dei popoli e a "farsi cultura", che essa adempie alla sua missione. Nel movimento dello spirito che travaglia la storia sin dalla Creazione, la Chiesa stessa si lascia educare dal Verbo che illumina "ogni uomo di questo mondo". Attraverso le culture che sono il più bel dono delle religioni all'umanità, la Chiesa opera con i popoli e non più contro di loro, le religioni e non più a loro discapito, affinché si attui la piena rivelazione di Dio attraverso l'uomo-Dio, Gesù Cristo. Giovanni Paolo II è severo verso certe teorie della liberazione perché esse privilegiano gli aspetti socio-economici e la violenza al servizio della rivoluzione socio-politica, mentre nella tensione umile, orante, adorante del genio religioso e culturale dei popoli, e nella assimilazione propriamente evangelica alla loro condizione, in quello che ha di più modesto, di più nobile, siamo sulla "scia" dello Spirito Santo e nel. pieno avvenimento del Verbo fatto Carne. Arrivo ad un ultima considerazione che mi è cara: così come oserei pensare che lo sia anche per il Papa. Non mi stupirei che l'ultima ragione per cui il Santo Padre è affezionato al Libano sia per una certa somiglianza con la stessa patria. Entrambi i paesi, sia la Polonia che il Libano hanno molto sofferto a causa dei loro vicini sebbene, questi ultimi, si facessero chiamare fratelli: fratelli arabi, fratelli slavi. Antinomicamente, certamente a causa delle lunghe sofferenze subite, hanno entrambi un capitale d'amore reale per il mondo, in particolare per la Chiesa cattolica e per Maria stessa, che essi portano nel loro cuore e ancora di più per il suo divino Figlio. Libano e Polonia sembrano rappresentare ostacoli nella storia profana mentre sono terre di elezione e di attesa nella storia di Cristo, Signore e Maestro. La Polonia, ieri scandalo per l'Europa Imperiale, è oggi "pierre de touche" dell'unità europea dall'Atlantico agli Urali. Non ci sarà unità europea che valga se essa non rispetta l'irriducibilità delle nazioni europee dovuta alla loro cultura, come ricorda il Papa nel suo discorso all'ONU e che non cerca di unirle tutte nel suo disegno spirituale che il Cristianesimo ha stabilito per essa. Il Libano, scandalo per l'impero musulmano ieri, oggi è la "Pierre de touche" della modernità e della unità nuova che i popoli "culturati" dal cristianesimo, l'Islam e l'ebraismo, devono trovare o ritrovare per la salvezza e la pace dell'umanità intera, con la differenza che non ci sarà più una unità chiusa: questa nebulosa mediterranea che fa da cemento tra l'Europa ed il resto del mondo, l'Islam in particolare, dovrà lavorare nello spirito di Assisi alla nascita di un'umanità nuova. La Polonia è al centro del progetto europeo di Giovanni Paolo II. Il Libano è al primo posto nel progetto che deve far ritrovare all’Europa la sua vocazione universale. Il Libano vi prega di non scordarlo mai, di non rinunciarci.

L. Negri:

Non potremo certo dimenticare l'insegnamento di queste due testimonianze. E se mi è consentito dire brevissimamente una parola conclusiva, credo che la testimonianza dell'incontro del Santo Padre con il cuore dell'uomo nelle situazioni più diverse in cui l'uomo vive, ci ricorda innanzitutto che bisogna esserci con gli uomini. Bisogna vivere quella convivialità di cui ha parlato Mons. Khoury: convivialità, capacità di condivisione, di consonanza, di comunione con gli uomini, proprio in forza della certezza di portare all'uomo il senso profondo della sua vita. Questa capacità di condivisione di cui nella visita in Corea, il Papa è stato un esempio vivo come ai tempi di Gesù Cristo. Questa capacità di condivisione tanto più la avremo, quanto più saremo nel mondo capaci, certi della identità che ci viene dalla presenza di Cristo in mezzo a noi. Una seconda lezione ci viene da queste testimonianze. Una presenza che è capace di condividere, in nome del Signore, chiama a verità tutto ciò che di positivo esiste nel cuore dell'uomo: la religione si fa cultura, si fa posizione dell'uomo di fronte a se stesso e di fronte alla realtà e in questo farsi cultura è possibile un dialogo profondo, una valorizzazione reciproca è possibile che ci si stringa la mano, come ci ha ricordato la testimonianza coreana ed è possibile che si ponga fine con un gesto di riconciliazione a gesti e a storie di intolleranza. È la cultura che unisce ma la fede ci dà questa capacità di cultura, di comprensione e di valorizzazione reciproca. Terza sottolineatura: questa cultura ha come obiettivo adeguato l'uomo. L'aiuto all'uomo a ritrovarsi, ad essere se stesso, questo progetto per l'uomo nuovo per l'uomo del terzo millennio che potrà nascere soltanto nell'incontro fecondo e continuo fra gli evangelizzatori cristiani, fra gli annunciatori della fede e coloro che vivono la grande dimensione religiosa che caratterizza il cuore dell'uomo. E’ questo il significato profondo dell'incontro di Assisi ed è questo un tentativo da mettere al fondo di ogni nostro momento, di ogni nostro incontro, di ogni nostra capacità di dialogo con gli uomini che ci sono accanto. Il senso religioso e la fede in Cristo si incontrano e mettono al centro questa preoccupazione per l'uomo, perché l'uomo viva, esista, non semplicemente come un pezzo di materia su cui la scienza pretende di dare il suo giudizio definitivo, né tanto meno, come un individuo che il potere di questo mondo tenta di omologare e di utilizzare, ma come persona viva, che è tale perché guarda Dio perché cerca il significato pro fondo della sua vita. Ma perché tutto questo nasca per noi occorre che anche noi diciamo alla fine della messa: "La messa è finita andiamo ad evangelizzare". L'insegnamento più profondo di questa mattina è contenuto nelle ultime parole della testimonianza de nostro grande amico coreano. Occorre che siamo Chiesa presente in ogni ambiente. È nell'ambiente che la testimonianza della fede e il senso religioso degli uomini, si incontrano. È nell'ambiente che nasce una comunità più umana, è nell'ambiente che ciò che sembra impossibile all'uomo diventa storia, diventa casa per credenti e non credenti.