2000 anni di cristianesimo

Incontro conclusivo della XX edizione del Meeting per l’amicizia
fra i popoli, in occasione della pubblicazione del libro
"L’attrattiva Gesù" di Luigi Giussani (Ed. BUR Rizzoli)

Sabato 28, ore 11.30

Relatori:

Mario Luzi
poeta

Michael Waldstein,
Presidente dell’Istituto Teologico Internazionale Kartause Maria Thron di Gaming

Giacomo Tandardini
Moderatore:

Giancarlo Cesana

Cesana: Abbiamo chiesto a don Giussani se potevamo utilizzare la presentazione del suo libro per concludere il Meeting, perché, addentrandoci nel grande Giubileo del 2000, vorremmo ricordare, innanzitutto a noi stessi e poi a tutti dentro e fuori la Chiesa, che l’unica ragione della celebrazione del Giubileo è la persona di Gesù Cristo, alla quale noi vogliamo guardare.

Luzi: Mi accorgo che posso parlare di Cristo e del cristianesimo solo dando il taglio tipico del cristianesimo, ovvero un taglio interiore: non riuscirei a parlare in modo oggettivo, cioè estraneo a qualunque impegno interiore, né di Cristo e del cristianesimo. Ogni pensiero, ogni osservazione che mi capita di fare su Cristo è dall’interno del cristianesimo; con questo, non voglio dire semplicemente dall’interno di una fede che esiste e che naturalmente ha le sue crisi, i suoi smarrimenti intellettivi, ma dall’interno della profonda convinzione che tutti noi siamo cristianizzati al massimo, intrinsecamente; persino l’ateismo nell’Occidente è cristiano. Questo è tipico delle grandi religioni, come l’induismo e le grandi religioni monoteiste. Non si può uscire completamente dal cristianesimo e dalla ragione cristiana.

La figura di Cristo è origine e anche risoluzione di ogni problema che nasca dal cristianesimo, di tutto quello che il cristianesimo dà, di tutto quello che ci sembra non abbia dato nei suoi duemila anni, di tutto quello che lamentiamo non sia ancora avvenuto ma che è promesso. Tutto questo è spiegabile ed è valutabile solo all’interno della figura personale e della personalità – per quello che a noi è stato possibile leggerla – di Cristo. Ho anche recentemente avuto occasione di ripensare a Cristo nella sua passione, cioè Cristo che è se stesso, chiamato al suo significato essenziale dalla passione e dal movimento finale verso la ricongiunzione con il Padre, verso la resurrezione. Tutti i motivi ricchissimi della breve storia personale di Cristo, dei suoi anni di predicazione, vengono ricapitolati in questo passo. Ho avuto questa occasione e l’ho trattata come una specie di poemetto drammatico, intitolato La passione – ovvero la Via Crucis – che è stata recitata nell’ultima Pasqua. Mi sono accorto di come noi siamo in Cristo e come Cristo è in noi. Non credo di avere commesso un arbitrio in questa connessione stretta tra l’umanità corrente, l’umanità ordinaria, l’umanità quotidiana e il Cristo ricco di motivi soprannaturali.

Non credo di aver fatto nessun arbitrio nell’aver accentuato questa connessione perché effettivamente la validità del cristianesimo – oltre all’importanza culturale straordinaria, essendo il cristianesimo l’origine della cultura moderna – sta nel fatto che Cristo è un alimento quotidiano, è il pane, non solo il pane che scende dal cielo, ma il pane quotidiano. Qui vengono in mente tutte le dispute sulle preghiere cristiane che tendono, nella mentalità che ha prevalso, a presentarsi come simboliche, troppo simboliche. Sono simboliche ma anche realistiche e quotidiane. Quando Cristo dice: "Dacci il nostro pane quotidiano" non si tratta solo – come diceva Abelardo – del pane soprannaturale, della fede, dello spirito, ma si tratta anche del pane che alimenta l’uomo giorno per giorno, perché la vita stessa è un grande valore. È alimentare la vita, crescere i piccoli, dare la continuità al vivente, ed è una operazione straordinaria che Cristo ha interpretato in pieno e valorizzato. La vita di per sé è divina. E Cristo l’ha vissuta quotidianamente accentuando i lati che sembrano strumentali, ma che occorrono perché la vita ci sia e continui.

La relazione di Cristo con il mondo degli uomini è controversa ed è dibattuta all’interno della vita che il Padre ha messo nell’universo. Che cosa è vivo oggi di Cristo? Tutto, è vivo il suo dramma, è vivo il suo contrasto, il suo dilemma tra umano e divino, tra la salvezza e la tentazione, tutto questo è nell’ordine di quello che la fede può avere messo in ombra, e che la ragione può contestare, ma in fondo la ragione interna dell’umanità non può più disconoscere di avere messo a tema la questione. Per questo dico che anche l’ateismo non può non essere cristiano nel nostro tempo. Troveremo sempre di fronte la figura di Cristo, la troveremo anche intimamente proiettata nella nostra interiorità, qualunque sia la convinzione del fedele o anche di colui che crede di essere estraneo, assente. Anche nell’alterità la figura di Cristo non può non esserci. Tanto più ci sarà quanto più ci renderemo conto di non averne tenuto sufficientemente conto in certe epoche della nostra storia, della nostra vita personale. Questo è il rimorso aggiuntivo dell’uomo di oggi, di cui magari non ne è consapevole, ma è l’anima moderna, è la sua spina. Può essere la spina di uno che ha rifiutato, ma non si esce mai completamente dall’episteme cristiana.

Il cristianesimo è una pagina molto laboriosa che è stata scritta, per 2000 anni, ma è una pagina che anche noi dobbiamo scrivere: quello che è vitale non si spegne mai, e il cristianesimo ha definito il pensiero, la teoria, la disquisizione filosofica, la teologia vigorosa, tramite ciò che è vitale. Continuo a ripetere che questo sposalizio di Cristo con la vita, con il vivente, è il prodigio più inattaccabile, più irresistibile. Questo rimane vero anche per il futuro; ora che si fanno delle riflessioni sul tempo trascorso, ed è un tempo che contiene degli enormi esempi, non lo vedo che come una pagina da scrivere, una esperienza da vivere, da vivere con la massima buona fede. Se posso fare un augurio è che questa disputa sui 2000 anni abbia portato la testa dell’uomo ad essere franco di fronte al cristianesimo e di fronte ai problemi che il cristianesimo prospetta. L’enorme spinta cristiana è una spinta di 2000 anni che non sono pochi… non possiamo neanche sapere se sono troppi, perché noi non abbiamo queste misure, noi abbiamo il poco e il molto, il corto e il lungo, il durevole, abbiamo tutte cose ridotte alla nostra proporzione che è minima. Quello che sprigiona il Vangelo è una spinta ancora potenziale, non ancora diventata completamente in atto, che forse si espanderà all’infinito, come si espande l’universo. Il lato, per me scrittore, più decisivo del Cristo e del cristianesimo è che l’infinito è stato reso possibile alla concessione o almeno al sospetto della mente umana, proprio attraverso il Cristo. L’infinito e il finito si congiungono in Lui, noi conosciamo l’infinito attraverso il finito del Cristo.

Anche da questo punto di vista i tormenti e le inquietudini dell’animo moderno nascono dal cristianesimo, dai cristiani si alimentano e dal cristianesimo ricevono anche una promessa che mi auguro non abbia mai contraddizione e non abbia mai fine, mai attuazione piena. Così il male è per il cristiano uno scandalo enorme, più che per chiunque altra persona. Anche il Cristo che noi conosciamo attraverso il Vangelo soffriva il male, era un problema, un’incognita, un mistero anche per Lui. È un mistero che noi dobbiamo accettare come mistero, ma vivere come speranza, perché la speranza ce l’ha data Lui, ce l’ha data Cristo.

Waldstein: Il titolo del Meeting "il Mistero genera stupore" è la parola chiave del nuovo libro di don Giussani; in un intenso riassunto, questo libro dice: "L’attrattiva, lo stupore iniziale suscitato dall’incontro con quell’uomo, Gesù di Nazaret, era un giudizio che diventava immediatamente un attaccamento, non era un attaccamento sentimentale, era un fenomeno di ragione, una manifestazione di quella ragione per cui guardando la persona che hai davanti nasce un giudizio di stima, una meraviglia di stima che ti fa attaccare. Di qui si origina una nuova moralità, il cambiamento della vita avviene se si vuole bene come Simon Pietro voleva bene a Gesù che nemmeno osava guardare in faccia perché lo aveva tradito".

Voglio sviluppare queste idee centrali in due passi. Il primo passo seguendo il Vangelo di Giovanni, che è, con la gnosi, il campo della mia ricerca; il secondo passo seguendo san Tommaso d’Aquino.

Per quanto riguarda il primo passo, vorrei iniziare con il testo dell’ultimo grande filosofo pagano Plotino, che forse conosceva il cristianesimo in una forma gnostica, e il cui orizzonte filosofico è la teoria di Platone sviluppata ai suoi limiti. Se il testo che leggo adesso non fosse stato scritto 1400 anni prima degli scritti di Giussani potrebbe essere un riassunto molto denso de Il senso religioso: "Così noi dobbiamo salire di nuovo al Bene che ogni anima desidera fino a quando sorpassando nell’ascesa tutto ciò che è estraneo a Dio, uno vede con il solo proprio io solamente quel Bene semplice, unico e puro dal quale tutto dipende e al quale tutto guarda, esiste, vive e pensa, perché quel Bene è la causa della vita, del pensiero e dell’essere. Nel momento in cui uno lo vede, che passione proverà! Quale nostalgia nel proprio desiderio di essere congiunto con esso, quale stupore e gioia! In questo luogo la più grande, ultima sfida è posta davanti alle nostre anime. Tutto il nostro sforzo, tutte le nostre fatiche sono per questo, per non essere lasciati fuori dal partecipare alla visione più bella. L’uomo che la raggiunge è beato, in questo vedere. E colui che non riesce a raggiungerla ha fallito completamente. Un uomo non è perduto se non riesce a raggiungere la bellezza dei colori o delle forme fisiche o il potere, le magistrature o, addirittura l’impero, ma è perduto quando non riesce a raggiungere quella e solo quella visione. Per questo è ragionevole rinunciare al possesso dell’impero e del governo su tutta la terra, il mare e il cielo se solamente abbandonando e tralasciando tutto questo egli può volgersi a quel bene e vedere. Ma – e qui sorge la grande domanda – come potremmo trovare la via, quale metodo possiamo usare? Come può l’uomo vedere l’inconcepibile bellezza che rimane nel sacro santuario e non esce dove il profano possa vederla? Colui che può segua ed entri".

Qui si può vedere esattamente che cosa è il metodo scelto da Dio: il Bene non è rimasto nel sacro santuario, ma è stato mandato il Figlio; nel Vangelo di Giovanni, capitolo 14, Tommaso dice a Gesù: "Signore non sappiamo dove vai, come possiamo conoscere la via?". È la stessa domanda di Plotino. Gli dice Gesù: "Io sono la Via, la Verità e la Vita, nessuno va al Padre se non attraverso di me. Se voi mi aveste conosciuto anche il mio Padre conoscereste e fin d’ora voi lo conoscete e l’avete visto". Dice Filippo: "Mostraci il Padre e ci basta": questa è la nostalgia di Plotino. Come uno può entrare a vedere nel santo santuario questa bellezza inconcepibile? Gli dice Gesù: "Da tanto tempo sono con voi e non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi tu dire: "Mostraci il Padre?"" Questo è il modo concreto che Dio ha scelto di rispondere alla domanda del cuore dell’uomo.

Don Giussani ritorna spesso ad un passo all’inizio del Vangelo di Giovanni dove si vede il primo incontro tra Gesù ed i discepoli e devo dire che avendo studiato questo Vangelo per anni e avendo letto molti commentari, non ho mai visto in modo così chiaro l’interpretazione di questa scena chiave; Giussani dà una chiave per leggere tutto il Vangelo di Giovanni. Leggo la parte centrale della scena: "Fissando lo sguardo su Gesù che passava di lì, Giovanni il Battista dice: "Ecco l’Agnello di Dio" e i discepoli lo sentirono parlare e così seguirono Gesù. Gesù voltatosi e visto i due discepoli che lo stavano seguendo disse loro: "Che cercate?". Gli dissero: "Rabbì – che tradotto significa maestro – dove rimani?"". Spesso la traduzione è: "Dove abiti?", ma la parola greca è meno, che presenta la stessa radice del verbo italiano rimanere. Continua il brano: ""Venite e vedrete", dice loro e andarono e videro dove rimaneva e quel giorno rimasero presso di Lui. Era circa l’ora decima". La parola meno, rimanere, viene usata tre volte.

Questo è l’incontro iniziale che genera lo stupore dentro i discepoli, che li fa ragionevolmente attaccare a Gesù. Don Giussani commenta (tenete a mente il paragone con Plotino): "Non è più centrale lo sforzo di una intelligenza e di una volontà costruttiva, di una faticata fantasia, di un complicato moralismo [Plotino era uno dei più grandi dal punto di vista dell’intelletto, forse è paragonabile ad Hegel] ma la semplicità di un riconoscimento. Un atteggiamento analogo a chi, vedendo arrivare un amico, lo individua tra gli altri e lo saluta". Il primo metodo, quello di Plotino, favorisce l’intelligente, il colto, il fortunato, il potente; il secondo invece favorisce il povero, l’uomo comune. L’imbattersi in una persona presente è una evidenza facile, per il bambino e per il grande. E questo è il metodo scelto: tutto il libro L’attrattiva Gesù torna e torna a questo metodo.

Voglio ora parlare della dinamica del Mistero. L’incontro con il Mistero ha dapprima una superficie, che nel primo contatto per i discepoli era la figura di Gesù che cammina, quando Giovanni Battista grida: "Ecco l’Agnello di Dio". Ma questa superficie ti lascia entrare più e più. Il Mistero ha una pienezza di intellegibilità che si apre passo per passo. Lo si può vedere molto bene nella parola "rimane": nel modo in cui Giovanni la usa nel suo Vangelo, c’è un primo livello fisico, chiaro, incontrabile, quasi toccabile, ma questo è l’inizio di un cammino più profondo. Per esempio: "Chi si ciba della mia carne e beve il mio sangue rimane in me". "Rimane in me" è un approfondimento di questo cammino. Il passo più importante è nel capitolo 15. Gesù dice: "Rimanete in me come io in voi. come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così nemmeno voi se non rimanete in me". Il verbo greco è sempre meno, che in questa scena compare sette volte. "Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui questi porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Se qualcuno non rimane in me è gettato fuori e come il tralcio si dissecca. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi chiedete quello che volete e vi sarà fatto. Come il Padre ha amato me così io ho amato voi: rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore". C’è un primo livello di "rimanere" che per noi vuol dire "rimanere con la comunità intorno a noi". Questo primo rimanere non si lascia dietro, ma diventa un rimanere molto più ampio, diventa un rimanere nel posto in cui Gesù stesso rimane, che è l’amore del Padre. Si possono fare molte di queste osservazioni sul Vangelo di Giovanni prendendo il punto di partenza in quello che dice don Giussani sullo stupore che è generato quando si incontra il Mistero.

Arrivo ora al secondo passaggio. Ne L’attrattiva Gesù don Giussani dice: "La compagnia deriva dal tuo rapporto con Cristo, dal rapporto con Cristo che tu vivi". È una considerazione estremamente seria quella che sto facendo. Su 30Giorni è stato pubblicato qualche tempo fa l’articolo "Qualcosa che viene prima": prima significa che la compagnia non è la condizione perché tu ti metta in rapporto con Cristo, altrimenti la compagnia verrebbe in primo piano, sarebbe il primo fattore. È il tuo rapporto con Cristo che ti rende capace di creare compagnia; c’è qualcosa che viene prima della compagnia ed è il tuo rapporto con Cristo. Voglio fare il tentativo di capire questo con l’aiuto di san Tommaso d’Aquino e specialmente con l’aiuto del suo concetto del bene comune.

Se si guarda la discussione culturale, nella stessa Europa e negli Stati Uniti, si vede che il concetto di bene comune è quasi una eclissi, e non se ne parla molto. Si parla spesso di diritti, di dignità umana e cose del genere, che sono legati alla persona individuale; forse non se ne parla perché il concetto di bene comune è stato male usato da Hitler, Mussolini, Stalin. In tutti gli scritti di don Giussani il concetto di bene comune, sebbene non appaia mai esplicitamente, è sempre all’opera. Voglio sviluppare tre aspetti di questo concetto.

Il primo aspetto consiste nel tracciare la distinzione tra bene comune nel senso proprio e il suo opposto, il bene privato; il secondo aspetto è la riflessione sul rapporto tra l’individuo come parte di un tutto costruito dal bene comune; il terzo e ultimo aspetto è cogliere il tipo di amore che io devo avere amando il bene comune e capire che con questo amore amo il tutto più di me stesso. Questo conduce a capire un aspetto di come mai l’amore a Cristo è, nello stesso momento, costruzione di comunità.

La distinzione tra bene comune e bene privato è facile. Un bene comune è un bene che non è ridotto in nessun modo quando molti vi partecipano; invece il bene privato è il bene che è ridotto quando molti vi partecipano. Se abbiamo una bottiglia di vino e beviamo tutti, se è una bottiglia grande forse basta per tutti, e si può dire in qualche modo che è comune, ma non si può dire che è comune nel senso stretto perché questo bicchiere di vino che bevo io non lo bevi tu, e quello che bevi tu non lo bevo io. È comune solo perché ce n’è abbastanza per tutti noi. Invece un bene comune è diverso: pensate ad una scoperta scientifica. Se un grande scienziato scopre qualcosa, noi tutti possiamo partecipare a questa scoperta, senza in nessun modo ridurne la realtà, la verità. Un altro esempio è la pace in una famiglia. La pace in una famiglia è un bene comune, quando io partecipo a questo bene non lo riduco, gli altri non hanno meno quando io vi partecipo; al contrario, hanno di più. Un altro esempio: le autostrade sono un bene comune che lo Stato mette a disposizione nostra, e che per questo dobbiamo pagare. Non è un bene comune nel senso stretto perché sul pezzo di strada su cui vado io nessun altro può andare, e sul pezzo in cui va l’altro non posso andare io. Non posso possedere tutta la strada, ma solo un piccolo pezzo.

In tutti i casi – e questo è il secondo aspetto – in cui c’è un bene comune, c’è un tutto di persone costruito da questo bene o collegato con questo bene. Nella pace di una famiglia, il tutto è la famiglia. Nel caso della grande scoperta il tutto è tutto il regno delle persone razionali che sono aperte alla verità, e questa comunità è costruita dalla verità.

Per quanto riguarda il terzo e ultimo aspetto, se uno si capisce come persona, come una parte di un tutto, ne segue che ama il tutto più di sé, perché il tutto comprende la parte, il tutto è più ampio, più perfetto. E per questo l’amore al bene comune non si può separare dall’amore per la comunità, per la città. Ecco un testo di san Tommaso su questo: "Amare il bene di qualunque città per averlo e possederlo non fa il buon uomo politico, infatti anche qualunque tiranno ama il bene della propria città per dominarla, il che è amare più se stesso che la città. Per se stesso infatti desidera quel bene, non per la città". Si potrebbe forse aggiungere: se uno tenta di amare un bene comune per se stesso solo, cambia quello che ama. Per esempio uno scienziato che ama la verità per se stesso, come proprietà privata, ama non più la verità, ma qualcosa d’altro, l’aspetto di gloria, per esempio. "Ma amare il bene della città per conservarla e per difenderla, questo è amare veramente la città e questo fa un buon uomo politico in quanto lo ama per conservare ed accrescere il bene della città, espone se stesso al pericolo della morte e trascura il bene privato. Così dunque amare il bene di cui sono partecipi i beati [siamo al livello dell’amore cristiano] per averlo e possederlo non rende l’uomo ben disposto alla beatitudine, perché anche i cattivi desiderano quel bene. Amare quel bene in se stesso così che permanga e si diffonda e che nulla sia fatto contro quel bene, questo rende l’uomo ben disposto alla compagnia dei beati. Questa è la carità che ama Dio in se stesso ed il prossimo che è capace di beatitudine con se stessi". Così, concludo, non si può, quando si riflette su questo argomento di san Tommaso, amare Cristo senza amare la sua comunicabilità a tutta la creazione, a tutto il cosmos, senza sentirsi parte del Suo corpo universale e in conseguenza senza amare quel Corpo totale più di se stesso e, più particolarmente, senza amare più di se stesso quel pezzo di questo corpo in cui uno si trova.

Tantardini: Siamo stati aiutati nell’incontro gratuito con don Giussani a situare le cose che diciamo nel contesto mondano in cui viviamo. Come breve premessa vorrei accennare a questo. Viviamo in un contesto di patologia religiosa diffusa. Mi ha colpito che il cardinale Ratzinger due o tre mesi fa abbia usato proprio questa espressione, "patologia religiosa", cioè una religiosità che decade, che si ammala, come inevitabilmente, alla lunga, è la religiosità umana, persino in una sua nobile espressione come quella del testo di Plotino. una religiosità, come accennava un editoriale di Repubblica di qualche settimana fa, "sempre meno interiore (Meno interiore vuol dire, cristianamente, che corrisponde sempre meno al cuore, alla propria umanità) e sempre più spettacolo di se stessa". In questo mondo così poco religioso, cosa sono duemila anni di cristianesimo?

Giussani, nel breve saluto che ha fatto quest’anno agli universitari di Comunione e Liberazione riuniti a Rimini per gli esercizi, dava una descrizione di questa realtà, che riprendeva ed attualizzava la grande profezia che tante volte abbiamo citato del "nostro" Paolo VI. Alcuni mesi prima di morire, Paolo VI parlava di "un piccolo gregge" e di "un pensiero non cattolico che poteva diventare egemone nel mondo cattolico". Giussani dice: "... quasi un resto d’Israele, e anche questi pochissimi spesso infiltrati o bloccati dall’influsso della mentalità comune". Credo che difficilmente si trovi una descrizione così realisticamente sintetica come queste parole di Giussani della condizione della fede oggi. Quando Péguy in Veronique scrive: "Voi siete i primi uomini dopo Gesù senza Gesù", descrive la scristianizzazione di oggi.

In questo contesto risalta ancora di più il titolo del libro L’attrattiva Gesù. Prima che uscisse, Giussani mi diceva, parlando del libro che sarebbe uscito a luglio, che gli avevano proposto di intitolarlo L’attaccamento a Cristo, e che lui invece aveva proposto appunto L’attrattiva Gesù. Ci siamo guardati sorridendo, perché c’è una distanza quasi infinita tra il primo titolo ed il secondo. Per tanti motivi, ma innanzitutto perché si può essere attaccati come ricordo e come nostalgia al passato, si può essere attaccati al papà morto e alla mamma morta, ma solo un vivo, solo una persona viva può essere attrattiva per il cuore dell’uomo. Mi sembra così che il titolo e il libro parlino della cosa più grande, della cosa che viene prima, della cosa per cui siamo cristiani, che è la resurrezione di Gesù, che è quel mattino del primo giorno dopo il sabato quando gli angeli hanno detto: "Voi cercate Gesù di Nazareth, non è qui, è risorto". L’attrattiva Gesù parla di questa presenza viva in quanto attira l’uomo e corrisponde al suo cuore. Parla di 2000 anni fa, perché quegli incontri sono, in quanto costitutivi del Corpo della Chiesa, paradigmatici per sempre, ma parla innanzitutto di adesso, parla di Gesù, parla di me, parla di te, parla di noi: è un libro che parla dell’attualità, perché non si può che partire dal presente. Farò tre brevi cenni per capire questa attrattiva e questa attualità.

Primo cenno: l’inizio, l’inizio di tutto, l’incontro quel pomeriggio; era l’ora decima del pomeriggio. Il primo incontro pubblico, dopo quegli incontri che nessun altro incontro può mai superare, ovvero gli incontri di sua madre, Maria, e di suo padre, Giuseppe. Dopo quei primi incontri il primo incontro pubblico; Giussani ne parla così nell’introduzione: "Andrea portò il fratello Simone da Gesù, salendo una piccola erta prima di quella casetta. Simone era là con gli occhi fissi su quell’individuo che lo attendeva ancora un po’ lontano, pieno di curiosità che caratterizza l’uomo quanto meno è "educato" e quanto più è ricco di vitalità. Quando si trovò là, a tre o quattro metri, come lui lo fissava non lo avrebbe più dimenticato. Come lo fissava, come lo guardava, come ne scopriva il carattere, come ne coglieva il tipo di personalità: nessuno mi ha mai guardato così. Lo ha dominato un fenomeno che sul vocabolario si chiama stupore, tanto che si è sentito subito legato: se fosse scoppiata una rivolta di piazza contro quell’uomo, lui sarebbe stato per quell’uomo, anche se lo avessero accoppato (anche tu saresti così: non potresti lasciarlo)". In tutta l’introduzione Giussani continua così, come un ritornello: "Sentirlo parlare: era come il primo giorno, ma anche il giorno dopo"; "Sentirlo parlare era come il giorno prima quando gli ha detto: "Simone, figlio di Giovanni, ti chiamerai Pietro" e il giorno dopo ancora idem e il giorno dopo ancora". Poi continua: "Man mano che Simone e Andrea gli andavano dietro, quello stupore iniziale si approfondiva. Lo stupore iniziale era un giudizio che diventava immediatamente un attaccamento. Era un giudizio che era come una colla: un giudizio che li incollava. Per cui tutti i giorni passavano manate di colla e non potevano più liberarsi!". E poi subito introduce la grande polemica, togliendo la quale bisognerebbe togliere quasi la metà dei Vangeli: "Ma voi non osservate tutte le leggi, tutti i farisei si scandalizzano del vostro Maestro, perché sta con voi che osservate mai le leggi. E gli apostoli non sapevano che cosa rispondere però dicevano: "Non sappiamo se non rispettiamo le leggi, ma siamo attaccati a quest’uomo". Era un fenomeno di ragione [questo stupore]; guardandola [questa persona]nasce una meraviglia di stima che ti fa attaccare. Non c’è neanche l’ombra della irrazionalità o della forzatura [perché un attaccamento che non nascesse così sarebbe irrazionale, sarebbe una forzatura]. "Se andiamo via da te dove andiamo? Tu solo hai parole che spiegano la vita", gli disse una volta Pietro con la solita irruenza".

Secondo cenno. Nel capitolo intitolato "Come in un film" si dice: "Questa è la prima scena, la scena del primo incontro, e poi c’è come l’ultima scena ed è quella di Pietro". Se l’inizio è lo "stupore", è questo il termine, il termine è – come dice Giussani – uno "stupore, più, più, più grande". Non è un’altra cosa, ma è più grande. Più grande e più profondo, perché ha vinto due nemici, il peccato – il tradimento di Pietro – e la morte, l’ultimo nemico ad essere sconfitto, perché era Gesù risorto.

Vorrei leggere una frase di Giussani, da uno scritto molto bello, Nessuno genera se non è generato: "Che cosa vuol dire la gloria di Cristo? Che Cristo dimostra fin sulle rive dell’apparenza che corrisponde alle esigenze del cuore in modo profetico". Cristo, questa presenza, corrisponde fin sulle rive dell’apparenza, cioè corrisponde alle esigenze del cuore in modo profetico. Siccome Giussani cita Il Sabato e 30Giorni proprio a proposito di gnosi, lo posso dire. se togliete le espressioni "fin sulle rive dell’apparenza" e "in modo profetico" avete la gnosi, ma non il cristianesimo. In modo profetico vuol dire, per usare un termine di Paolo che sant’Agostino usa, "speranza", cioè, come dice Giussani nell’ultimo scritto, non come conquista, non come possesso di conquista, ma come sorpresa, come approssimazione all’eterno, come tensione, in modo profetico, come stupore che non puoi possedere tu, che non puoi conquistare tu, che non puoi rendere tu discorso, come se avendo in mano tu il discorso cristiano fossi perfetto, o potessi dominare gli altri.

Il fattore che permette l’incontro è la semplicità, la semplicità del cuore: "Ti ringrazio Padre perché hai nascosto queste cose a coloro che si credono qualche cosa e le hai rivelate ai semplici". "È la semplicità del tuo cuore, perché la tua salvezza non dipende dagli altri, ma dipende dall’Altro, e il rapporto con l’Altro è definito dalla parola semplicità, o povertà di spirito, o essere bambino. Chi è l’uomo morale? Colui che non fa nessun assassinio? No, uno può commettere cento assassinii [è il titolo di questo incontro] ed essere morale. Del pubblicano in fondo al tempio, Cristo non ha detto: "uscì dal tempio e non fece più il pubblicano"". E dalla semplicità sorge uno stupore che cresce. "Ma per riconoscere con stupore una cosa eccezionale che si sente dettata da uno, sorprenderlo così corrispondente al proprio cuore, occorre una semplicità, occorre una sincerità, occorre, come diceva Gesù, una povertà di spirito. Questa è la responsabilità. Come il bambino come la mamma: se la mamma lo chiama, risponde. Se avesse più anni si dovrebbe parlare di responsabilità. La responsabilità è l’aspetto più drammatico del proprio essere". Successivamente, per togliere a questa parola drammatica – perché il cristianesimo prende le parole di tutti, ma con un significato più vero, cioè più umano – ogni forzosità, Giussani dice: "L’energia della libertà, come dicevo prima, non è qualcosa di drammatico o di eroico [usa la parola "drammatico" ma non come sforzo volontaristico]; è una cosa semplice. Se un bambino potesse dire alla mamma che lo sta sgridando, perché per l’ennesima volta durante il giorno ha rotto il bicchiere: "Mamma aiutami a non spaccarli", e lo dicesse cosciente, ecco questo è un uomo cristiano!".

Il terzo ed ultimo cenno. Un uomo cristiano così nel mondo vive come suo supremo interesse testimoniare questa presenza. È suo supremo interesse la testimonianza di Cristo. "La testimonianza di Cristo la compie Cristo, attraverso quello che cambia nella tua vita". È Cristo il soggetto della testimonianza cristiana: il cristiano è colui che vive tutto per vedere come in un film questa testimonianza, innanzitutto per lui, come una frase dei salmi che Giussani cita: "Sto in silenzio, non apro bocca, perché sei tu che agisci": è questo è l’atteggiamento dell’uomo cristiano di fronte alla testimonianza di Cristo, di fronte quindi al compito, che è la missione. Un uomo del genere come vive nel mondo? Attraverso tentativi ironici che sono altro sia al cinismo sia all’illusione. Per descrivere che cosa è l’ironia Giussani cita un suo ricordo di quando era bambino, aveva due o tre anni, e davanti allo sguardo e al sorriso del papà cercava di spostare il seggiolone. Questo è un tentativo ironico dentro l’orizzonte dell’affezione del papà che lo guardava: era più importante per il cuore del bambino lo sguardo del papà verso di lui che non spostare il seggiolone. E si capisce perché l’esito di una azione non è importante: non è che non sia importante in sé, non è importante se c’è una cosa più importante, se si fa l’esperienza di una cosa più corrispondente al cuore come il portare il seggiolone. È più corrispondente al cuore la riuscita o il papà che abbraccia il bambino in questo suo sforzo di spostare il seggiolone?

Leggo la testimonianza più sintetica che Giussani dà di sé quando dice: "A me basta il "sì" di Pietro. Può averlo rinnegato fino a due minuti prima, l’avesse rinnegato tre minuti prima, come l’ha rinnegato quella notte e poi sceso a terra l’avesse visto e Gesù gli avesse domandato: "Mi ami tu?", avrebbe detto: "Sì, sono legato a te, è come se ti appartenessi" sarebbe l’espressione della mia semplicità indifesa, della mia sincerità senza obiezioni e preconcetti, del mio essere puro e netto come un bambino, e un temperamento d’uomo a 60 anni può essere così. Perché opponete? Che cosa opponete? Perché opponete quello che voi non avreste a quel che io avrei. perché che cosa avrei io? Io ho questo "sì" e basta, e a voi non costerebbe neanche una virgola di più di quello che costa a me. Dire "sì" a Gesù. Se io prevedessi domani di offenderlo mille volte, lo dico. Lo dico, perché se non dicessi "sì" a Gesù non potrei dire "sì" alle stelle del cielo".

L’ultima cosa è una parola che don Giussani ha citato in piazza San Pietro: "Al grido disperato del pastore Brand nell’omonimo dramma di Ibsen (quante volte citato!) "Rispondimi, o Dio, nell’ora in cui la morte mi travolge. Non è dunque sufficiente tutta la volontà di un uomo per conseguire un filo solo di salvezza?", risponde l’umile positività di santa Teresa del Bambin Gesù che scrive: "Quando sono caritatevole è solo Gesù che agisce in me". È la frase in cui l’io di santa Teresa del Bambin Gesù riconosce il suo valore nell’affermare che tutto il bene suo, la sua capacità di bene, come tutta la sua vita