Il rischio dell’avventura

Lunedì 19, ore 18.30

Relatori: Kurt Diemberger,
Agostino Da Polenza, Alpinista
Alpinista e Coordinatore Erhard Loretan,
del Progetto EV-K2 C.N.R. Alpinista

Da Polenza: Cercherò anzitutto di descrivere i due tipi di rischio che esistono nell’alpinismo. Il primo è il rischio "accettabile", il rischio della conoscenza, che per noi tre qui presenti, rappresentanti dell’alpinismo himalayano, ha significato voler andare in Himalaya, ma si potrebbe rischiare ugualmente andando in qualsiasi altra parte della terra dove i venti spingono da est e da ovest. È la voglia di capire e di vivere un’esperienza, un’esperienza comune di sport ma anche di convivenza, per raggiungere un obbiettivo, la vetta, che è in realtà un punto ideale, l’ultimo metro in cima alla montagna. Per raggiungere questo obbiettivo dobbiamo lavorare tutti assieme, per questo alcuni anni fa con Benuar Chamur avevamo fatto un progetto, "lo spirito di gruppo", che era proprio l’espressione più plateale di questo spirito.

Per fare alpinismo in modo accettabile occorre conoscere ciò a cui si va incontro, per vedere se si riesce ad eliminare il più possibile il rischio, quello dell’incolumità fisica ma a volte anche psichica dell’alpinista. Rimane solo l’incognita del successo, che non deve essere "sopravviverò o no?", ma "riuscirò ad arrivare sulla vetta o no?".

Ammettere come incognita la sopravvivenza significa abbracciare il secondo tipo di rischio, che è secondo me inaccettabile, il rischio di chi è convinto che la propria vita valga meno dell’arrivo sulla montagna.

Diemberger: Il rischio è presente specialmente nella cosiddetta zona della morte, che comincia per qualcuno a 7800 metri per qualcun altro a 8000; una zona nella quale anche la persona più acclimatata si trova ai suoi limiti, e non potrebbe sopravvivere più di 3, 4 o al massimo 5 giorni. In questa zona della morte, per chi non ha già l’esperienza di alta quota, è facile fare un errore, per chi invece ha già questa esperienza, è ugualmente possibile sbagliare, ma è più probabile non prendere decisioni sbagliate.

Inoltre, la decisione di andare o no avanti, si complica molto quando ci sono più gruppi insieme sullo stesso monte; quando uno è per se stesso si può porre questa domanda ed affrontare questo rischio senza coinvolgere nessun altro e decidere in piena libertà quanto valore dà lui alla meta che vuole raggiungere, giocando, se vuole, anche la sua vita.

Loretan: Il metodo migliore per diminuire il rischio è essere consapevoli di sé e del proprio corpo. La maggior parte degli incidenti succedono infatti di notte, quando un alpinista sta dormendo in un campo e non ha più il materiale, o quando vi sono i sintomi dell’alta quota ma non ha più l’energia per scendere. Per questo è indispensabile – ed è possibile per chi ha esperienza dell’alta quota – rendersi sempre conto di quanta energia si ha nel proprio corpo. Salendo l’alpinista è sempre all’ascolto del proprio corpo, e quando succede qualcosa può subito scendere: questo dovrebbe mettere un freno al rischio, ma il rischio è naturalmente per ciascuno differente.

Da Polenza: La questione del rischio di cui stiamo parlando è anche ulteriormente complicata dal desiderio di avventura che tutti abbiamo, che però talora spinge al di là dei propri limiti. Tutti noi abbiamo l’aspirazione a conoscere, ad evadere, a toglierci dalla quotidianità per affrontare un’avventura di qualsiasi tipo, interiore o esteriore, lecita o illecita... il problema – e qui nasce il rischio, anche a livello etico – è che spesso i mass-media ci spingono a ritenere che non esistano più limiti. Invece, i limiti ci devono essere, dobbiamo cercarli, vederli, ricordarli, proprio per poterli a volte superare.

Da quest’idea della mancanza di limiti, della possibilità di fare tutto, nasce un tipo di alpinismo aberrante, il portare la gente in montagna solo per fare i soldi. Purtroppo, ci sono organizzazioni di questo tipo, che portano la gente al di là dei propri limiti: caricano in spalla una bombola di ossigeno, mettono su una pista già battuta... e così mandano in cima all’Everest. è evidente che nel momento in cui soffia un vento di 20 chilometri all’ora, questa gente fuori da tutti i limiti deve morire.

Loretan ha fatto i quattordici 8.000 in 13 anni: al suo quattordicesimo 8.000, ci ha dato una lezione di come si va in montagna, dicendoci: "Io sono sopravvissuto perché ho cercato, per quanto era possibile, di mantenere i miei limiti tecnici, di conoscenza e di sicurezza: per questo opero e consumo energie fisiche fino al 30% delle mie possibilità, poi cambio strada, rinuncio, scendo: ci ritornerò la prossima volta". Questo è il tentativo di una sfida, che non può essere una sfida per andare a cercare stupidamente di perdere ciò che abbiamo di più prezioso.

Diemberger: Una parte della responsabilità della morte di gente con troppa poca esperienza ad alta quota cade anche sui governi, che danno i permessi a queste spedizioni, a delle persone che non hanno alcuna esperienza. Pur di avere i soldi del permesso, i governi di Pakistan, India e Nepal non operano alcuna discriminazione...

Da Polenza: Le cifre infatti non sono indifferenti: per andare sull’Everest, il permesso da pagare al governo nepalese costa 70.000.000 e dà diritto all’organizzazione della spedizione per sette persone; il K2 credo costi circa 16 milioni di lire –, e in generale queste vette credo abbiano un costo intorno ai 7-8 mila dollari per permesso.

Loretan: Aver accennato alle questioni economiche ci permette di capire che tutta la storia dell’alpinismo è in realtà piena di episodi disgustosi – si potrebbero citare altre cose veramente incredibili, come scalatori lasciati morire abbandonati e assiderati, perché la spedizione che li incontrava non aveva tempo da perdere e soccorendoli non sarebbe riuscita ad arrivare in vetta... Non è vero che l’uomo sulle cime è più vicino a Dio o che si sente migliore, anzi, spesso in quelle condizioni estreme viene fuori una certa rivalità, che al giorno d’oggi è ancora più grande per ragioni economiche, di sponsorizzazioni o di fame di gloria... La mia scelta è quella di tenermi fuori da tutto questo: ho un gruppo di amici che mi aiutano ogni anno a organizzare le spedizioni, e ho sempre rifiutato di essere troppo preso dagli sponsor, perché uno che va in alta quota deve farlo per cuore e non per gli sponsor.

Diemberger: Un po’ di tempo fa io e Agostino Da Polenza abbiamo parlato dell’utilità pratica di un soccorso alpino sull’Himalaya: crediamo sia possibile tenere in alcune zone un gruppo di persone acclimatate, che stiano ad una relativamente alta quota, pronte al soccorso. Ci vorrebbe ovviamente un servizio di elicotteri sul posto, che riesca a trasportare una persona in caso di bisogno. Fare un soccorso sull’Himalaya è molto più difficile che qui sulle Alpi, perché i soccorritori che si presterebbero ad andarci non sono acclimatati. Inoltre, se non vengono messe a disposizione delle strutture e degli elicotteri, non si può fare: con gli elicotteri si può salire oltre una certa quota, ma non si può atterrare, e per questo poi ci vuole un gruppo di persone acclimatate da alta quota che salgano con l’elicottero fin dove si può salire e poi proseguano da sole.

Loretan: Riguardo a questo ho un altro punto di vista. Con tutta la gente e le strutture che vi sono adesso sulle Alpi, è come se avessimo trasferito le città sulle montagne... perché portare tutto questo sull’Himalaya o all’Antartide? Lasciamo almeno un paio di posti all’avventura! Perché sistemare tutto? Ciò che si cerca in Himalaya o in Antartide è proprio l’avventura, il dover scegliere da sé e secondo le proprie possibilità, a prescindere da qualsiasi soccorso.

Ci sono molti problemi in Himalaya: anzitutto, dovremmo raccomandare a tutti gli alpinisti di non usare l’ossigeno, perché per me chi ha scalato l’Everest con l’ossigeno ha fatto un’azione che non ha valore. Uno che fa l’Everest con l’ossigeno fa 6.000 metri: allora, penso che sia meglio andare in Perù a fare 6.000 metri per aprire una via nuova.

Da Polenza: Condivido in pieno il fatto dell’ossigeno; invece non sono d’accordo sul fatto che si possa tornare indietro rispetto alla questione del soccorso e dell’avventura. Oggi infatti oltre alle spedizioni alpinistiche, abbiamo tutta la gente che è stata indotta, anche da noi, ad affrontare questo tipo di avventura; in definitiva siamo stati proprio noi a fare in qualche modo da battistrada e da informatori verso una marea di persone, alle quali indubbiamente non si può ora togliere il diritto di vedere ciò che noi abbiamo visto e che è possibile vedere. Dobbiamo allora chiederci fino a che punto questo tipo di rischio si può spingere.

Franco Perlotto, un amico alpinista, ha presentato un suo libro che parla di turismo consapevole, ovvero di turismo rispettoso delle popolazioni, in particolare nell’Amazzonia; nel caso dell’Himalaya, il turismo deve essere rispettoso delle popolazioni del Tibet e delle popolazioni nepalesi. Bisogna poi avere un grande rispetto anche per la natura oltre che per l’uomo, e certamente l’indurre migliaia di persone a frequentare le valli del Cumbo piuttosto che quelle Beraldo in Pakistan, è in qualche modo una responsabilità degli alpinisti. Forse gli alpinisti devono fare un passo indietro e incominciare a dire quali sono i rischi: il rischio di inquinamento culturale e ambientale, ed anche il rischio di "auto-inquinamento". Come già dicevo, il considerare l’avventura senza nessun limite non è accettabile in nessun grado e in nessun ordine di idee.

Loretan: Vorrei dire un’ultima cosa per far capire cosa spinge ad andare in vetta e cosa si prova quando si arriva. Quando si preparano le spedizioni, mettiamo molta energia, tempo e soldi: la cima è l’obbiettivo principale, e lo scopo per cui ci si muove. Per questo, il momento in cui si arriva sono 20, 30 secondi che non hanno prezzo, che valgono – è persino difficile da esprimere! – tutti i sacrifici che si sono fatti.

Da Polenza: Ciò che succede sulla cima è ciò che ti sei portato dietro, concependo l’idea di salire, organizzando la salita – magari di un 8.000 –, stando due mesi al campo base, cercando di capire il cielo, le nuvole, il vento... è questo tutto ciò che hai dentro quando arrivi in cima e che viene concentrato in quei 20, 30, 60 secondi che sono la soddisfazione più grande: dopo, credo che prendano il sopravvento le cose da fare, e il fatto che devi scendere e ricominciare in qualche modo la salita.

Diemberger: Per me il desiderio di arrivare in vetta è strettamente legato alla ricerca dell’ignoto: non sai mai cosa sentirai su quella certa vetta, e quando sei su ti arriva questa onda di sentimenti di cui ha parlato Loretan, che non si riesce mai veramente a descrivere o a definire. Una volta vissuto questo, cominci già a sognare la prossima vetta...