Rimpiangendo Salomone:

il tramonto della giustizia?

 

 

Martedì 26, ore 18.30

Relatori: del Personale della Camera Gaetano Pecorella,

Joseph Winer, dei Deputati Presidente dell’Unione

avvocato Carlo Nordio, delle Camere Penali Italiane

Marco Boato, Pubblico Ministero presso

Segretario di Presidenza il Tribunale di Venezia

del Comitato per gli Affari

 

 

 

 

Winer: Sono un procuratore di Stato, un pubblico ministero (prosecutor), ma prima di tutto sono un avvocato, assistente di avvocati difensori (assistant district attorney) in una contea confinante con la città di New York. Illustrerò brevemente la struttura del sistema della giustizia negli Stati Uniti, e il ruolo del procuratore e dei giudici.

Negli Stati Uniti i procuratori e i giudici sono separati nel ruolo, nell’aula della Corte, nella maniera in cui prendono ufficio, nel potere che hanno e nei percorsi della carriera. Entrambi, i procuratori e i giudici, provengono dai ranghi della professione legale. In ogni contea il procuratore capo, che a New York è chiamato avvocato di distretto (district attorney), si candida per quell’incarico e viene eletto; egli poi assume i suoi assistenti. Gli assistenti hanno il compito di investigare e di provare tutti i casi che sorgono nel sistema di giustizia criminale. Il procuratore ha essenzialmente due tipi di obblighi: come avvocato, è un membro della Corte, e dunque ha l’obbligo di non ingannare la Corte in nessun caso; in secondo luogo ha l’obbligo di cercare non la condanna, ma la giustizia. Questo significa che se il procuratore ritiene che un accusato sia innocente ha l’obbligo etico di archiviare quel caso.

Negli Stati Uniti i giudici sono scelti dall’ordine degli avvocati, di solito dopo molti anni di onorato servizio. Vi sono vari tipi di giudici: i giudici federali sono scelti per tutta la vita e nominati dal presidente degli Stati Uniti, con approvazione del Senato (la nomina è a vita, il che garantisce loro una notevole indipendenza); altri giudici invece sono scelti dai governatori degli Stati o dai sindaci, e rimangono in carica per differenti quantità di tempo; altri ancora spesso prendono l’ufficio dopo essere stati eletti dalla gente.

Una volta che un giudice ha preso l’ufficio, sono scoraggiati gli eccessi di fraternizzazione fra giudici e avvocati. Il giudice nel sistema americano siede come arbitro del processo, di solito non pone domande durante gli interrogatori dei testimoni, non decide chi chiamare a testimoniare. Il suo lavoro è di assicurare che la giuria segua la legge e di produrre il verdetto di colpevolezza o non colpevolezza. Il procuratore ha il compito di presentare i casi davanti al giudice e alla giuria, e investigare sui casi, decidere se i testimoni sono credibili e se l’imputato merita di andare al processo; infine, se il plea bargain può essere offerto o se il caso deve essere archiviato nell’interesse della giustizia. Quando entra nell’aula, ha l’onere di dimostrare la colpevolezza con le prove oltre ogni ragionevole dubbio. Deve convincere sei giurati per un reato minore, con una pena che comporta fino a un anno di reclusione, e dodici giurati per una fellony, un crimine che comporta più di un anno di reclusione. Se un solo giurato non è convinto della colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, l’imputato è libero e non potrà più essere processato per quel crimine.

Negli Stati Uniti, il plea bargain è diventata una istituzione e consiste in un’offerta del procuratore per permettere all’imputato di dichiararsi colpevole per un reato minore e ricevere una pena ridotta. È stato chiamato un "male necessario", male perché non si tiene conto spesso di quanto l’imputato effettivamente ha fatto, necessario per evitare di trovare le prove, che possono far perdere settimane. Il sistema giudiziario usa il plea bargain in un numero molto elevato di casi: in questo modo il procuratore può dedicare le sue energie a quei casi che sono più seri e che richiedono più attenzione. Come procuratore, credo sia importante considerare molti fattori per decidere se fare o meno il plea bargain: la gravità del crimine, il background dell’imputato e la sua precedente storia giudiziaria, la gravità del caso, la disponibilità di testimoni. Sia l’imputato che il giudice devono essere d’accordo sul plea bargain, e l’imputato deve essere anche cosciente che ha diritto ha un intero processo.

Negli Stati Uniti il difensore ha, in questo e negli altri casi, pari dignità nell’aula: ha il diritto di convocare i testimoni, di presentare il caso in nome del suo cliente, di dibattere con forza davanti al giudice e alla giuria, di controbattere alle evidenze che vengono portate e che fin dall’inizio del processo sono una parte integrante del sistema giudiziario. Il sistema americano sembra addirittura considerare i diritti del difensore molto più che la verità. Il difensore ha un livello molto alto di protezione dagli errori nell’accusa, e può sfidare le evidenze basate su errori della polizia, anche se la polizia ha agito in buona fede e anche se non c’è stato danno per il difensore come conseguenza del loro errore. Per questo, nel nostro sistema diciamo che è meglio che un colpevole vada libero piuttosto che un innocente venga punito. L’origine storica di questo sta nel fatto che il sistema americano fu creato come reazione delle ex-colonie britanniche alla madrepatria, ed infatti molte di queste protezioni furono già inserite nella Costituzione.

Il sistema americano funziona? Può funzionare in molti casi, certamente non in tutti: d’altro canto nessun sistema di giustizia terrena funziona in tutti i casi. La giustizia è un’approssimazione, e tutti noi cerchiamo di raggiungerla, sia con il sistema americano che con quello italiano. Noi definiamo i sistemi che cercano di fare giustizia. In Italia il dibattito attuale riguarda il potere del procuratore, che non viene controllato da nessun organo al di fuori della magistratura: nel sistema americano, i controlli ed i bilanciamenti cercano di riprodurre la giustizia anche da questo punto di vista. Comunque, la giustizia non viene spesso conseguita e il colpevole esce libero: in quei casi la vittima viene lasciata senza riparazione. Questa tensione alla giustizia dovrebbe essere vera per ogni procuratore e per ogni sistema giudiziario, il cui scopo è essere sensibili alle necessità delle persone e cercare di fare giustizia per quanto è possibile all’uomo.

 

 

Boato: La questione della giustizia è nel cuore dello Stato costituzionale di diritto, è la dimensione fondamentale della convivenza tra i cittadini e lo Stato. Quando in un paese non c’è giustizia, non c’è convivenza, non c’è fiducia nello Stato, non c’è un corretto rapporto tra cittadini e Stato. L’attuale crisi della giustizia si sviluppa su due dimensioni: la prima riguarda proprio il rapporto tra i cittadini e la giustizia, la seconda invece il rapporto tra la giustizia e la politica e più in generale il rapporto tra il sistema giustizia e gli altri poteri dello Stato.

Per quanto riguarda questa seconda dimensione, emerge subito con chiarezza che nel nostro paese non c’è un ordinato rapporto tra i diversi poteri dello Stato. Questo ha molteplici cause: una causa storica lontana è l’identificazione del mondo della giustizia con quello che era l’assetto di un potere poco democratico, molto gerarchico. Una causa più recente è il passaggio del sistema giustizia attraverso tre terribili drammatiche emergenze: l’emergenza terroristica – gli anni di piombo –, l’emergenza criminalità organizzata – la mafia, la camorra, la ’ndrangheta –, l’emergenza criminalità dei colletti bianchi – la corruzione politica, economica e finanziaria della burocrazia. Queste tre emergenze non sono una invenzione, sono fatti reali, drammatici che hanno lasciato segni profondi e terribili nella storia del nostro paese, in molti casi non solo segni morali ma anche segni di sangue; però nell’affrontare queste emergenze, alcune delle quali sono ancora totalmente aperte, si è verificato una sorta di snaturamento in primo luogo del ruolo di alcuni settori della giustizia e del rapporto tra la giustizia e gli altri settori dello Stato, e in secondo luogo dei rapporti interni ai magistrati e fra i magistrati e la politica. Vi sono state inoltre interferenze nell’attività del Parlamento, e fenomeni di protagonismo valorizzati o addirittura esaltati dal ruolo di mass media.

La principale responsabilità della supplenza di settori della magistratura rispetto al mondo politico, è del mondo politico stesso. Il mondo politico ha certamente sbagliato da questo punto di vista, ma è ugualmente sbagliato che, passata la bufera di Tangentopoli e rinnovato profondamente il mondo politico, nel momento in cui si vuole ripristinare un rapporto corretto tra i diversi poteri dello Stato chi ha assunto un ruolo di supplenza si opponga ai processi di riforma e di cambiamento. In alcuni casi in questi mesi si è infatti verificato che una decina di magistrati, rappresentanti della pubblica accusa, esercitassero coerentemente il loro dovere, ma che poi, in base al ruolo assunto nelle loro inchieste, suggerissero al Parlamento quali riforme legislative o costituzionali si possano fare o meno. Questo è assolutamente inaccettabile.

Una prima risposta a questo problema riguarda la legislazione ordinaria, quello che si può fare attraverso il Parlamento e con la Costituzione vigente per quanto riguarda l’attuazione di leggi, gli aspetti amministrativi, le strutture. L’iniziativa governativa rispetto a questo problema va sotto il nome di pacchetto Flick: sono diciotto provvedimenti diversi, non tutti uguali e non tutti validi allo stesso modo, che costituiscono un pacchetto organico di riforma della giustizia sul terreno della legislazione ordinaria. Ci sono però anche iniziative di legislazione ordinaria che sono partite dal Parlamento, come la riforma dell’articolo 513 del codice di procedura penale. È stata scandalosa la polemica contro questa riforma, riforma che di fatto attiene alla civiltà del diritto nel nostro paese, attiene alla necessità che se c’è un criminale che accusa altre persone nella veste di collaboratore di giustizia (è certamente poco entusiasmante che lo Stato debba servirsi di questi strumenti, ma in una situazione di criminalità come quella che abbiamo di fronte a noi diventa una necessità) è doveroso che queste accuse vengano confermate e sottoposte a verifica nel contraddittorio del processo. Se si ritenga che per formare la prova bisogna anticipare i tempi, lo si può fare attraverso l’incidente probatorio, quindi non è assolutamente vero che bisogna prolungare di anni questa verifica, la si può anche immediatamente anticipare. È successo così che tre collaboratori di giustizia cosiddetti pentiti, che avevano dichiarato la partecipazione ad una pluralità di omicidi, non erano neppure stati incriminati e si trovavano in libertà, sottoposti a programma di protezione: in libertà hanno potuto riprendere i contatti con i capi delle cosche mafiose e soltanto dopo che questo è avvenuto e si è verificato c’è stato l’arresto nei loro confronti per gli omicidi e i reati di cui loro stessi si erano dichiarati responsabili.

La stessa questione riguarda l’eventuale riforma dell’articolo 192 del codice di procedura penale e il problema dei riscontri alle chiamate di correità, strumento fondamentale, perché se una persona ha commesso un reato insieme ad altre persone e le chiama in correità, è evidentemente un momento importante dell’accertamento della giustizia. Se però quella chiamata in correità è una calunnia, se non è vero quello che il colpevole dichiara, questo può essere verificato solo attraverso quelli che tecnicamente si chiamano riscontri obbiettivi esterni alla chiamata in correità. Se un’affermazione è vera è sufficiente che uno che la dica e che si trovino i riscontri a quella dichiarazione; se invece una dichiarazione è falsa, che la falsità sia detta da uno o da sette non cambia nulla nella natura di quell’accusa, e resta il problema di cercare i riscontri, altrimenti ci sono persone che possono essere distrutte da dichiarazioni ripetute da una serie di persone che alle spalle hanno dieci, venti, trenta o addirittura cinquanta o cento omicidi.

L’altro aspetto fondamentale riguarda le riforme costituzionali, ovvero quello che non si può fare attraverso le leggi ordinarie a Costituzione vigente perché bisogna modificare, arricchire e rafforzare l’impianto della seconda parte della Costituzione; mentre la prima parte ha retto benissimo a cinquanta anni di storia, la seconda parte, per quanto riguarda la forma dello Stato, del governo, del Parlamento e l’aspetto delle garanzie, ha bisogno di un cambiamento, di un arricchimento, di un rafforzamento, alla luce dei principi della prima parte della Costituzione. La Costituzione italiana attualmente in vigore ha una validità straordinaria per certi aspetti, ma bisogna tener presente che è stata scritta nel 1946-1947 e che è entrata in vigore il 1° gennaio del 1948, quando l’Italia era appena uscita dalla guerra mondiale e da vent’anni di regime fascista. Era ancora in vigore il processo inquisitorio, il codice penale Rocco, che fino alla fine degli anni ‘80 è stato in vigore, seppure con modifiche: quindi gli elementi ordinamentali che ci sono nella seconda parte della Costituzione sono condizionati da un contesto storico che era quello del processo inquisitorio.

Quello che noi ci siamo ripromessi di fare è di inserire nella seconda parte della Costituzione una serie di capisaldi dello Stato di diritto che in qualche modo permettano al nostro paese di recuperare un terreno che lo rende molto arretrato rispetto ad altri paesi europei e non soltanto europei. La prima questione è quella dell’unità funzionale della giurisdizione: rendere allo stesso livello di garanzie, di status, di autogoverno, tutti i magistrati, sia quelli ordinari che quelli amministrativi. È una questione facile da dire ma difficile da realizzare, che sarà una riforma di grandissima portata anche se sta incontrando come tutte le grandi riforme fortissime resistenze. Gli altri aspetti sono quelli di introdurre nella Costituzione dei principi fondamentali dello Stato di diritto che sono il principio del giusto processo e della ragionevole durata del processo, il principio del contraddittorio, dell’oralità, della parità delle parti accusa e difesa.

Non si vuole assolutamente sottoporre il pubblico ministero ai condizionamenti dell’esecutivo: nella proposta che abbiamo elaborato c’è invece un rafforzamento dell’autonomia e dell’indipendenza di tutta la magistratura e in modo particolare della pubblica accusa, più di quanto non sia oggi nella Costituzione: una volta garantita l’autonomia e l’indipendenza della magistratura è riconosciuto un ruolo a tutte le componenti della magistratura, giudici e magistrati del pubblico ministero. Dobbiamo differenziare nettamente queste due funzioni, perché se in Italia il processo è di tipo accusatorio, bisogna realizzare la serietà e l’imparzialità del giudice attraverso il contraddittorio, l’oralità e la parità delle parti nel dibattimento, e quindi bisogna mettere su un piano di parità avvocati e pubblico ministero garantendo al tempo stesso autonomia e indipendenza non solo al giudice ma anche al pubblico ministero. Così qualunque sospetto di dipendenza politica del pubblico ministero viene sventato. Da questo deriva la netta separazione delle funzioni fra chi esercita la funzione di giudicare, la funzione giurisdizionale, la funzione di dire il diritto e chi esercita una funzione altrettanto importante ma radicalmente diversa che è quella di rappresentare l’accusa nel processo.

Queste, dette con molta semplicità, sono le proposte di riforma che abbiamo elaborato, dalle quali deriverebbe la netta distinzione delle funzioni fra magistratura giudicante e magistratura inquirente. Bisognerebbe andare molto più in là della netta separazione delle carriere, realizzando piuttosto la netta separazione delle funzioni e quindi anche la separazione del Consiglio superiore della magistratura in due sezioni, uno per la magistratura giudicante e l’altro per quella inquirente.

 

 

Nordio: Non tutti i magistrati la pensano come sembra, molti esprimono sottovoce il loro disagio e il loro dissenso: io ho creduto opportuno, dopo un quasi ventennale silenzio nella mia professione, di uscire allo scoperto per esporre e talvolta gridare alcune anomalie che secondo me sono intollerabili in uno Stato democratico. Per avere detto queste cose sono stato quasi immediatamente convocato dall’associazione nazionale magistrati per rispondere delle mie idee: una sorta di intimidazione stalinista.

Ciò che ho detto è molto semplice. Anzitutto: da qualche anno a questa parte il rapporto corretto politica e giustizia si è alterato, e la politica, per colpa tanto dell’aggressività dei magistrati quanto dell’inerzia e pavidità dei politici, ha fatto un passo indietro e si è intimidita nei confronti della magistratura. Le prove di questa affermazione sono due: la prima è il fatto che per alcuni anni è stato sufficiente notificare una informazione di garanzia, un atto dovuto da parte dei magistrati, un atto che come dice la stessa parola è rivolto a garantire chi lo riceve, perché l’uomo politico o l’amministratore si sentisse quasi in dovere di dimettersi. Così partiti di grande tradizione democratica e civile si sono dissolti in pochi anni di fronte a comunicazioni giudiziarie che il più delle volte si sono risolte in nulla, ma che sono state sufficienti a capovolgere completamente gli equilibri politici. La seconda prova è di questi giorni: dopo un lungo, sofferto, travagliato e cammino si è riusciti a cambiare una norma assolutamente barbara e incivile che nessun paese avrebbe mai accolto nel suo ordinamento quale l’articolo 513 del codice di procedura penale. Si trattava di quella norma per la quale una persona poteva essere giudicata e condannata sulla base di dichiarazioni rese da un’altra persona la quale non poteva essere verificata nel processo dove l’imputato veniva giudicato e magari condannato. Eppure, si riparla oggi da parte delle massime cariche del governo, di cambiare di nuovo questo articolo: una schizofrenia dissociativa del legislatore il quale per sei mesi ragiona in un certo modo e alla fine cambia e sopprime un articolo vergognoso, poi alla fine parla già di fare marcia indietro, sotto la spinta dell’emotività o sotto la pressione di qualche autorità. Non dimentichiamo che mentre il potere politico trae la sua legittimazione dal voto popolare, risponde al popolo attraverso le elezioni e viene sanzionato dal popolo attraverso il risultato delle stesse elezioni, la magistratura trae la sua legittimazione da una parte dalla legge e dall’altro dal fatto di avere vinto un concorso. Il magistrato non risponde, non viene controllato nella sua attività professionale da nessuno se non attraverso quella parvenza di controlli attuati dal Consiglio superiore della magistratura. Al di là della fisiologica disuguaglianza che c’è tra il potere politico, che deve essere in posizione di supremazia e quello giudiziario, che deve essere in posizione di indipendenza ma sicuramente di sottoordinazione perché non trae la sua legittimazione dal voto popolare, noi assistiamo ad uno squilibrio.

La seconda osservazione da me fatta riguarda l’ordinamento giudiziario, vecchio, decrepito, assolutamente incompatibile con il processo accusatorio che è stato adottato nel 1989. Nel 1989 infatti in Italia è stato adottato il cosiddetto processo americano alla Perry Mason. Poteva essere una scelta giusta o ingiusta, poteva piacere o non piacere, però un volta che la scelta è stata fatta, avrebbe dovuto essere portata alle sue estreme conseguenze con rigorosa coerenza: non si può prendere una Ferrari con il motore della Cinquecento senza dotarla di un pilota esperto, di un carburante adeguato e di una autostrada nella quale correre. Noi abbiamo adottato un sistema accusatorio anglosassone tenendo in piedi il vecchio ordinamento giudiziario del codice Rocco, inquisitorio, figlio prodotto del regime fascista. Ne è scaturita una discrasia che rende oggi assolutamente incompatibile la gestione del processo con la gestione dell’ordinamento giudiziario: l’esempio più clamoroso di questa distonia è quello della separazione delle cosiddette carriere. Si tratta, in termini semplici e magari atecnici, di questo: oggi un magistrato che fino al 30 settembre ha fatto il pubblico ministero, il pubblico accusatore, e che quindi è munito di una doverosa aggressività e di una doverosa parzialità nel portare avanti le sue ragioni accusatorie, semplicemente su sua domanda può dal 1° ottobre andare a fare il giudice, a erogare delle condanne addirittura nella stessa città e nella stessa aula dove fino a ieri ha accusato gli altri. Questa è una norma che è in conflitto con qualsiasi ragionevolezza civile e, mentre noi magistrati tardiamo a renderci conto di questa assurdità perché la nostra educazione è effettivamente (sia per i pubblici ministeri che per i giudici), quella dei magistrati imparziali, non ci rendiamo conto che in un paese moderno il cittadino, non appena viene informato di queste cose, non le accetta più. Un cittadino non può ammettere di venire processato in un’aula, dove magari fino a ieri, se non lui, un suo compagno di un partito è stato accusato di far parte di una congrega di corrotti da un pubblico ministero che oggi si trova dall’altra parte a giudicare fatti analoghi a quelli per i quali fino a ieri accusava il suo collega. Questa norma è assolutamente incivile.

Con il sistema che abbiamo, i pubblici ministeri, cioè i pubblici accusatori, giudicano i giudici – quelli che giudicano noi – in quanto fanno parte dei consigli giudiziari, i "parlamentini" del Consiglio superiore della magistratura, gli organi periferici che siedono in ogni distretto di Corte d’appello. La prima valutazione sulla progressione in carriera, sulle attitudini, sul merito dei magistrati, viene data da persone che appartengono in parte al pubblico ministero. Così ad un pubblico ministero può capitare la mattina di un certo giorno di andare in tribunale a insistere presso un giudice per una condanna, e il pomeriggio dello stesso giorno di sedere al consiglio giudiziario e valutare se quel giudice è idoneo o meno a essere promosso. Vista dalla parte del cittadino, questa situazione diventa paradossale: il cittadino imputato infatti che quella mattina si vede accusato da Carlo Nordio, sa che quel pomeriggio lo stesso Carlo Nordio darà il suo giudizio sulla progressione in carriera del giudice che dovrà giudicare se è colpevole o innocente. Quell’imputato si domanderà veramente dove sia andata a finire la giustizia, perché non è ammissibile che chi giudica lui, venga successivamente giudicato dal suo accusatore.

La terza osservazione è la compromissione dei diritti civili. Dopo tre o quattro anni di Tangentopoli, facendo un bilancio, ci siamo accorti che agli inizi di questo fenomeno cruento noi pubblici ministeri abbiamo esagerato con la carcerazione preventiva. Rivedendo le cose a distanza di uno o due anni, quando a mente più serena, cessato il primo impeto giustizialista, abbiamo potuto considerare il fenomeno nella sua estensione e anche nella sua struttura genetica, ci siamo domandati se tutto quello che avevamo fatto fosse davvero tutto opportuno. Sicuramente era tutto legittimo, conforme alla legge, probabilmente in qualche caso è stato anche necessario, ma forse tutto quel rigore che abbiamo usato agli inizi non è stato opportuno. Forse potevamo scegliere altre vie meno cruente per arrivare a un analogo risultato, il risultato di avere scoperto circa il 4% della corruzione... Il prezzo che abbiamo pagato è che alcuni dei nostri diritti fondamentali non sono nemmeno stati soppressi, sono stati dimenticati. Questo è il rischio che noi oggi corriamo. Se noi fossimo vittime di una soppressione cruenta, potremmo anche reagire, il fatto è che noi siamo vittime di una strisciante violazione dei nostri diritti costituzionali e a questa strisciante violazione noi ci stiamo a poco a poco adeguando, dimenticandoci di essere dei cittadini e rischiando di diventare dei sudditi.

L’esempio più clamoroso è costituito dalle intercettazioni ambientali, telefoniche e direzionali, che vengono fatte nei confronti dei cittadini. Secondo l’articolo 15 della nostra Costituzione, la libertà e la riservatezza delle comunicazioni sono sacre e inviolabili, salvo casi eccezionali che devono essere disciplinati dalla legge. Il ministro della giustizia ha diffuso la statistica delle intercettazioni telefoniche, ambientali e direzionali che sono state effettuate legittimamente negli ultimi cinque anni: ammontano a cinquantamila. Non è facile ritenere che cinquantamila intercettazioni telefoniche e ambientali – e si tratta di quelle legittime – fossero doverosamente autorizzate dalla magistratura, fossero tutte vincolate a casi eccezionali, tali da dover vulnerare l’articolo 15 della Costituzione. Il numero aumenta facilmente se includiamo anche quelle illegittime e clandestine, di cui sappiamo soltanto che esistono, ma che sfuggono al nostro controllo. Non soltanto pare non ci sia nulla da fare contro questa devastazione, ma nessuno si ribella ad essa, viene accettata quotidianamente come se facesse parte del nostro stile di vita.

Contro queste anomalie credo sia stato doveroso che un magistrato del pubblico ministero abbia iniziato a elevare una voce di dissenso. Quello che è estremamente consolante, e direi anche emozionante, è che questa voce di dissenso sia stata accolta oggi da voi con tanta partecipazione.

 

 

Pecorella: Vorrei partire da una domanda di base: a che cosa serve un processo penale? Secondo alcune affermazioni, per esempio del pool di Milano, la risposta è che il processo penale è un atto di guerra: quando Davigo ha detto che avrebbe rivoltato l’Italia come un calzino, ha parlato evidentemente di una campagna che intendeva mettere in atto. Ora questo non ha niente a che vedere con la funzione del processo penale. Il processo penale in realtà è proprio quell’insieme di regole che devono garantire la persona umana. Quello che si è perso di vista è che nella società di oggi la persona umana, di fronte ai meccanismi oppressivi, è ciò che conta meno. Quello che conta di più è un risultato forte, è il poter dire che è stato compiuto un certo tipo di intervento: quanto sia il costo sulla persona umana di questo è assolutamente oramai trascurato. Quasi tutta l’attività svolta a Milano dal pool cosiddetto "Mani Pulite" si è basata su questo tipo di intimidazione: "se non collabori, se non ci dai dei nomi, se non ci dici dei fatti, tu resti in carcere". Questo è l’uso della sofferenza, perché il carcere è sofferenza: è l’uso della sofferenza esattamente come la tortura per avere dei dati che di fatto possono essere veri o falsi. Ma l’imputato non è qualcuno da cui trarre elementi facendolo soffrire, l’imputato è una persona che deve essere profondamente rispettata, se non altro perché, sino a che non c’è una condanna, lo dobbiamo considerare innocente. Chi ha usato questo sistema invece non domandava all’accusato se si dichiarasse colpevole o innocente, ma, senza curarsi dell’innocenza o della colpevolezza, se sapesse altre cose riguardanti altre persone. E se l’imputato rispondeva negativamente, veniva buttata via la chiave. Ho assistito personalmente a fatti di questo genere. Non deve essere più possibile che l’uomo sia considerato qualcuno da far soffrire per ottenere un risultato, l’uomo deve essere punito se ha sbagliato, ma non deve essere torturato per ottenere degli elementi che invece il pubblico ministero deve cercare con gli strumenti che la legge gli consente, con i documenti, con la polizia giudiziaria, con i testimoni e così via.

Mi domando come sia possibile che chi si è mosso su di un piano culturale di questo genere oggi possa rappresentare i cittadini in Parlamento. Non deve essere più possibile che una funzione pubblica sia il trampolino di lancio ai fini di altri risultati che non hanno niente a che vedere con quella funzione pubblica. Se un magistrato si vuole presentare per essere eletto, se vuol fare una campagna politica, deve abbandonare la magistratura, non perché teme il Consiglio Superiore della Magistratura, ma perché può utilizzare la sua funzione a scopi politici. Altrimenti nessuno di noi è più garantito, perché avremo il magistrato che si muove in un certo settore per avere domani la candidatura da quella parte politica e un magistrato che si muove in un altro settore per avere un altro tipo di candidatura.

Il processo penale – è indispensabile chiarire questo punto – deve servire soltanto ad accertare singole responsabilità di singole persone, non è concepibile l’idea di un processo penale di massa, uno strumento – come di fatto è stato – per intervenire su interi settori della politica o dell’economia. In un sistema in cui non si tiene conto della persona da giudicare ma solo dell’obiettivo politico globale, è chiaro che la difesa non può che diventare una larva all’interno del processo. E a questo si è contribuito con l’eliminazione della possibilità del contraddittorio, oggi recuperata grazie alla Corte Costituzionale. Quando si consente al procuratore della Repubblica di Milano, dottor Borrelli, di dire che gli avvocati sono una massa e che quindi sono poco qualificati, mentre i pubblici ministeri sono una élite e quando non c’è un intervento del Consiglio Superiore della magistratura a tutela del rispetto che deve essere dato a chi svolge una funzione così importante all’interno del processo, è chiaro che la strada della magistratura va sempre di più verso la politica.

Un altro concetto importante è la parità delle parti. Si legge spesso sui giornali che la parità delle parti non ha senso, perché certamente il difensore non potrà fare le perquisizioni, non potrà arrestare. Occorre precisare che c’è un’enorme differenza tra pubblico ministero e difensore. La parità delle parti vuol dire che le parti devono avere gli stessi diritti nel momento di formazione della prova, e dunque che la prova non può essere formata dal pubblico ministero, che il pubblico ministero non può essere colui che con il giudice ha un rapporto privilegiato. Parità della parti vuol dire che nel momento in cui si deve formare la prova, pubblico ministero e difensore sono eguali davanti ad un terzo che giudicherà guardandoli sullo stesso piano. Una miseria di questo paese è l’assenza di difesa e di una legge che disciplini questo problema. Una piccolissima parte di cittadini ha un difensore quando va davanti ad un giudice, perché la stragrande maggioranza dei cittadini non ha nessuno che li difende, ha il difensore d’ufficio, che significa sostanzialmente il nulla, perché è la persona che passando nel corridoio in quel momento viene chiamata a partecipare al processo senza conoscerne neppure gli elementi. Questa è la giustizia di tutti i giorni, la giustizia che subisce il cittadino povero. Un giovane che, essendo difensore d’ufficio, vuol fare un processo seriamente, si deve pagare le copie degli atti.

Anche la questione della separazione delle carriere è spesso male interpretata. Separazione delle carriere vuol dire che chi fa la carriera del giudice parte come giudice e chi fa la carriera del pubblico ministero parte come pubblico ministero: sono due carriere separate, come chi fa il medico chirurgo e chi fa il dentista. Questa è la condizione perché ci sia la parità delle parti. Se non vi sono delle carriere di questo tipo, non sarà mai possibile avere un pubblico ministero sullo stesso piano del difensore, e avere il cittadino sullo stesso piano dello Stato amministrazione, perché si verificherà sempre una commistione tra il giudice che giudica e il pubblico ministero che accusa. I magistrati non vogliono la separazione delle carriere, perché dicono che in questa maniera si forma un corpo di pubblici ministeri che ha un potere eccessivo e che nessuno controlla. La realtà però è tutt’altra. Ed è una realtà di basso profilo: se c’è la separazione delle carriere, chi fa la carriera del pubblico ministero resta pubblico ministero, potrà diventare procuratore aggiunto o procuratore capo, ma al di là di quello non può diventare. Chi fa il giudice potrà diventare presidente del tribunale, presidente della Corte d’appello, e niente al di là. Attraverso le carriere unite in sostanza in primo luogo si vuole mantenere la possibilità di fare più carriera, in secondo luogo non si vuole spezzare la corporazione. Oggi infatti attraverso la non separazione vi è una corporazione molto unita, perché giudici e pubblici ministeri ragionano e lavorano insieme: viceversa con questa separazione avremmo dei giudici e dei pubblici ministeri, ma non avremmo una corporazione così unita.

La riforma che è stata portata avanti in sede di Bicamerale è del tutto insufficiente su questo piano, perché contiene una profonda contraddizione: da un lato si prevede la parità della parti, l’oralità del dibattimento, il giudice imparziale, e dall’altra si prevede che il pubblico ministero sia un quasi giudice, perché il pubblico ministero deve fare tre anni come giudice, e quindi cresce con i suoi colleghi che faranno il giudice. Il pubblico ministero è soggetto solo alla legge come il giudice, e quindi ogni pubblico ministero è un soggetto ritenuto imparziale: la sua imparzialità gli deriva dall’essere soggetto solo alla legge. Questo comporta che si verificherà ad un certo punto un contrasto profondo in Parlamento. Così, se prevarrà l’anima di un pubblico ministero che sia parte veramente, che nulla abbia a che vedere con il giudice, avremo un processo accusatorio con la parità delle parti; se invece prevarrà l’anima di un pubblico ministero che è anche un giudice, che ha la cultura iniziale e il rispetto del giudice, cadranno tutte la altre garanzie. Questa è l’alternativa che dovrà essere sciolta: un processo di parti, un processo di parti sullo stesso piano da un lato, un pubblico ministero che non è parte dall’altro.

L’ultimo punto che voglio trattare è quello relativo alla questione dei pentiti e della conferma dei pentiti. Come già diceva Boato, non è sufficiente che un pentito dica la stessa cosa che ha detto un altro pentito, perché ci sono anche delle ragioni di natura organizzativa che non rendono credibile la ripetitività. Quando due pentiti sono nello stesso carcere possono scriversi l’un l’altro, leggere le dichiarazioni l’uno dell’altro – magari fatte attraverso lo stesso avvocato, che difende cinquanta pentiti – possono sapere dalla polizia giudiziaria cui sono affidati le risultanze di tutte le indagini: come si può pensare che questi pentiti siano attendibili? Il pentimento dovrebbe essere un fenomeno che ha natura religiosa, che purifica le persone e fa dir loro la verità; oppure è uscita da una condizione politica, come si è verificato nel fenomeno del terrorismo. Ma chi ha commesso cinquanta o cento delitti senza mai assumere posizioni di pentimento o staccarsi dalla vita precedente, non è certo credibile, ed infatti spesso continua ad ammazzare o a commettere rapine.

Ma davanti a tutto questo dobbiamo essere pessimisti? Dobbiamo pensare che non si possa cambiare lo stato delle cose? Io penso che lo stato delle cose oggi stia cambiando, ma perché cambi è necessario che ci sia un impegno sociale da parte di tutti: bisogna che il dibattito sulla giustizia investa globalmente questo paese, e che non ci siano soltanto tre o quattro magistrati che da una parte o dall’altra del paese dicano la loro opinione. La giustizia è un bene di tutti e tutti ne debbono parlare, perché si torni a essere cittadini e non più sudditi, come è accaduto in questi ultimi tempi.