mercoledì 29 agosto, ore 11.00

RIPARTIAMO DA PICO

Incontro con:

Jean Claude Margolin

Docente di Filosofia e Storia dell’Umanesimo presso l’Università di Tours e Direttore del Centro Studi Superiori del Rinascimento di Tours

Modera:

Roberto Barbieri

R. Barbieri:

Buon giorno a tutti. Prima di dare la parola al professor Margolin, uno dei più autorevoli studiosi europei dell’umanesimo e in particolare di una delle più grandi figure dell’umanesimo europeo - Erasmo da Rotterdam - volevo segnalare una serie di passaggi che normalmente non vengono messi in evidenza nella pubblicistica corrente e nel modo un po’ schematico con cui nel mondo della scuola viene spiegato l’umanesimo. Questi passaggi rendono ragione di come la coscienza della dignità dell’uomo si venga rafforzando nella storia della cultura e nella storia dell’uomo occidentale ed europeo lungo i secoli, perché certamente il fatto cristiano valorizza la persona umana in modo irripetibile. Ma è anche vero che questo processo ha richiesto secoli perché diventasse cultura diffusa e molte volte ha avuto delle fermate incredibili. Per l’uomo romano la dignità dell’uomo era l’appartenenza alla gens, era nell’essere parte della "res publica", era l’essere parte di un contesto. Chi non era cittadino romano era un po’ meno uomo di altri. Analogamente il mondo barbarico aveva una concezione dell’uomo che era relativa all’appartenenza al clan, alla tribù, alla gens, al gruppo dell’aristocrazia, al gruppo militare. Si può ben capire quindi come la concezione cristiana, entrando in contatto con questi due mondi, ponesse a tema e quindi mettesse in moto un’esperienza attraverso la concreta difesa della persona umana, dello schiavo, del servo; mettesse in moto una concezione che poi si diffuse e diede valore pieno alla libertà e alla dignità dell’uomo. Nel medioevo per chi vive nella città, è ancora un esser parte di una "vicinia", di un gruppo di quartiere, che in qualche modo favorisce il riconoscimento della persona come un valore oppure, per chi viveva nelle campagne, l’appartenenza sempre molto mediata alla comunità di villaggio. Nel 1400, almeno dal punto di vista della concezione, succede qualche cosa di nuovo contemporaneamente anche a un inizio paradossale di polverizzazione degli interessi dell’uomo. E qui si apre un grosso problema di tipo storico culturale che oggi incominceremo ad affrontare perché effettivamente si e pensato che l’umanesimo fosse il primo passo dello svincolarsi dell’uomo dal mistero. Noi non crediamo che la curiosità appassionata nei confronti dei classici, la volontà inesauribile di scoprire i testi che gli amanuensi medievali avevano raccolto pazientemente, sia stata fatta "contro" qualche cosa, ma "per" qualche cosa, per una passione alla verità, al mistero, a partire da un’ammirazione per la verità e per il mistero e dalla necessità di trovare sempre di più strumenti che rigorosamente avvicinassero l’uomo alla comprensione del senso del rapporto tra il piccolo ordine che è ogni singola persona e il grande ordine che è l’ordine dell’universo. E questo avviene in tanti modi, ma mi fermo qui perché è il professor Margolin il nostro ospite di oggi. Passando al tema del nostro incontro, a Pico della Mirandola perché De Lubac giustamente parla di lui come di "un’alba incompiuta del rinascimento"?

 

J.C. Margolin:

Molte grazie professor Barbieri. Non ho intenzione di presentare un intervento che copra l’opera omnia di Pico della Mirandola e nemmeno di analizzare in profondità questo o quello dei suoi volumi, come ad esempio il De Ente et Uno (l’essere e l’uno), oppure Hepta Plus (che riguardava la creazione del mondo in sei giorni e in sette quadri), o ancora il suo trattato contro l’astrologia. Nella mia relazione voglio far emergere la sua concezione del rapporto fra l’uomo, l’universo e Dio e anche porre a tema l’attualità del suo pensiero e il servizio che esso può rendere all’umanità alla fine del nostro ventesimo secolo. Primo punto: l’uomo occhio del mondo e miracolo dell’universo, la concordia e la pace. Vorrei partire dal testo celebre che doveva precedere la famosa disputa delle 200 tesi, definito in genere "discorso della dignità dell’uomo", e ricollegarlo ad un brano celebre della Città di Dio di S. Agostino. Fin dall’inizio del discorso possiamo, in effetti, leggere: "più di ogni altro miracolo compiuto dall’uomo, l’uomo stesso è un enorme miracolo". Quest’espressione, che indica il posto eccezionale occupato dall’uomo nell'universo creato e che quindi manifesta la sublimità del creatore, si ritrova in uno dei testi ermetici che Pico conosceva bene. Per spiegare questa tesi fondamentale, secondo la quale l’uomo - nonostante la sua natura animale che partecipa alla sua posizione nel mondo delle creature - non ha come tale due nature, ma costituisce effettivamente un’entità a parte, Pico immagina secondo la genesi un discorso che il creatore avrebbe tenuto a Adamo. Rileggendo attentamente questo commento originale della genesi, non si può - mi sembra - separare l’atto libero e assoluto della creatura umana dall’atto della creazione dell’universo e dell’uomo, atto deciso da un essere la cui libertà sarebbe, se ci possiamo esprimerci, ancora più assoluta: la libertà di Dio. E’ Dio che ha creato l’uomo libero senza per questo che tale libertà costituisca un vincolo o una determinazione naturale, come il fatto di avere un cuore che pulsa o dei polmoni che respirano. Uno splendido testo di Erasmo del 1529 mi sembra richiamare Pico della Mirandola: "gli uomini non nascono uomini - homimes non nascuntur - ma lo diventano o, meglio, si fanno uomini -finguntur -." Ritengo che conformemente non solo all’insegnamento biblico, ma altresì ad intuizioni pagane - di cui Platone, Aristotele o Cicerone ci offrono ottimi esempi Pico ritiene che l’uomo non sia né angelo, né bestia, né Dio, né animale; porta in se stesso questa possibilità di avvicinarsi, seppure a distanza, a Dio ma anche la possibilità di degradarsi, di corrompersi per arrivare fino agli istinti più terrestri. Si può dire, per riassumere, che la concezione mirandoliana dell’uomo, della sua libertà e della sua dignità è permeata dalla Bibbia ma che essa integra anche le concezioni più elevate dell’antichità pagana, della cabala giudaico-cristiana e dell’ermetismo del vicino oriente. Pico considera l’uomo come il più grande miracolo del mondo o, ancora, l’uomo come occhio del mondo e quest’ultima espressione è, in effetti, il punto d’arrivo della concezione più generale dell’uomo assimilato ad un piccolo mondo - microcosmo - rispetto al grande mondo - macrocosmo vale a dire l’universo. Nulla, nell’opera di Pico, ci ricorda da vicino o da lontano quello che potremmo definire una sociologia o una filosofia politica. Non è che si disinteressi della città umana, tuttavia pone la sua riflessione filosofica ad una tale altezza che il problema delle relazioni fra gli uomini si situa oltre le peripezie e le contingenze di cui la sua epoca aveva il privilegio, un privilegio che non era sempre invidiabile. La pace civile, la pace fra gli uomini è per Pico una conseguenza obbligata della pace dell'anima. Siamo qui agli antipodi di una concezione socio-politica che pretende, proprio sull'esempio di quella del Machiavelli, che la morale individuale oppure l’etica religiosa sia completamente staccata dalla morale del principe, quella che domina e prevale nelle relazioni fra stati e fra popoli. Per Pico la pace è innanzi tutto un movimento che eleva lo spirito fino alla contemplazione di realtà intelligibili. Ciò che separa gli uomini sono gli istinti, le passioni, gli interessi materiali, tutto quello che è relativo all’espressione corporea, alla materia. La ricerca dell’intelligibile è per definizione un passaggio universale perché la verità possiede dei segni di riconoscimento che la rendono valida e unica per tutti. Pico pensa che il compito dell'uomo sulla terra sia quello di costruire una comunità che sia veramente umana e la designa con il nome dato già precedentemente da Cicerone, semplicemente con "umanitas". Qualora l’individuo trovi nel suo libero arbitrio e nel suo dinamismo ingegnoso e creativo le norme che devono presiedere alla sua auto-creazione, ebbene l’uomo sociale, gli uomini oppure i membri di una comunità, devono diventare ingegneri di questa umanità che sarà identificata con la civiltà. Per Pico il progetto storico di una civiltà da costruire e l’ideale etico-religioso che trascende la storia, sono indissociabili; la pace fra gli uomini costituisce per lui un caso particolare di concordia universale che lui sogna e che crede di scoprire nell’osservazione della natura come pure nelle svariate riflessioni tratte dalle sue letture. Questo desiderio di concordia universale si ritrova anche nella sua volontà di avvicinamento fra dottrine che sono spesso opposte, ad esempio quella di Platone e di Aristotele, di Averroè e di Avvicenna, di San Tommaso e di Duns Scot, per non parlare della cabala ebraica, dell’Antico e del Nuovo Testamento, del mistero delle lettere del nome di Dio e dei mistero cristiano della Trinità. Nel tentativo di trovare un denominatore comune oppure un presupposto identico, Pico tende ad attenuare oppure addirittura a sopprimere le differenze o le divergenze dottrinali giacché crede alla perennità del vero e dell’Uno come pure alla profonda identità dello spirito al quale partecipano le diverse creature umane. Questo non impedisce, poiché le cose non sono mai così semplici, di mostrare in certe occasioni la superiorità e il carattere unico del cristianesimo. E’ vero che per amore della pace e degli uomini egli intende innanzi tutto l'amore del Cristo illuminatore facendo riferimento, in tal senso, alla teologia tratta da San Paolo e dal vangelo di San Giovanni che fanno della natura divina del Cristo il verbo creatore. Si serve altresì del simbolismo solare quando ad esempio raffronta Cristo al sole che illumina tutti gli esseri. questa partecipazione affettiva di tutti gli uomini all’umanità del Cristo, compresi quelli che non sono cristiani, che legittima tale amore e tale necessità di pace sulla terra, poiché tutte le religioni e tutte le filosofie, egli crede, hanno una parte di verità che partecipa all'azione illuminante del Cristo. La concordia non è quindi sinonimo dell’identificazione di tutte le dottrine né di tutti i valori nel nome del quale agiscono gli uomini, piuttosto rappresenta un ideale verso il quale gli uomini devono tendere con i mezzi che sono loro propri e tale ideale, secondo Pico, è realizzabile solo nella religione del Cristo. In questo modo la concordia corona tutto l'edificio che egli ha costruito per stabilire la concordia filosofica. E tale concordia religiosa ed ideale dovrebbe consentire la pace durevole sulla terra anche se tutte le nazioni e tutti gli uomini non sono per momento almeno ancora convertiti all’unica religione del Cristo. Secondo e ultimo punto. Il pensiero di Pico: lezione storica o piuttosto modello per oggi e per domani? Perché parliamo di Pico della Mirandola al di fuori delle sale di università oppure di un dibattito radiofonico tra specialisti? è forse per una semplice scommessa se gli organizzatori di questo incontro di Rimini hanno desiderato che uno degli oratori della mattinata riprendesse l’ipotesi formulata da Padre de Lubac nel suo libro su Pico della Mirandola: "L’alba incompiuta del rinascimento"? Come risposta dobbiamo andare oltre alle analisi puntuali della sua opera, tanto più che la sua morte prematura tende la sua opera - per sempre - incompiuta. Sappiamo bene oggi che le promesse contenute negli scritti di taluni degli spiriti più elevati del quindicesimo, sedicesimo secolo, non sono state mantenute; sarebbe più utile dire forse che i loro segni di concordia, di pace, di amicizia fra gli uomini, di unione stretta fra sapere e virtù, non si sono avverati e questo praticamente nello stesso momento in cui venivano espressi. In realtà le minacce turche, le rivoluzioni, i roghi di streghe e stregoni, la fiamma simbolica di Savonarola, le profonde lacerazioni della Chiesa cristiana d’occidente, le guerre dei contadini, gli svariati conflitti tra potenze cristiane, l'e condanne a morte degli eretici o pretesi tali, le conversioni forzate, l’espulsione degli ebrei dalla Spagna oppure la loro ghettizzazione - che li trasformava in semi-paria -, le atroci guerre di religione, i massacri, la schiavitù degli indiani d’America e tante tante altre pagine nere e sanguinose di questa epoca, hanno in un certo senso raffreddato i nostri entusiasmi nei confronti di questo rinascimento o piuttosto nei confronti dell’epoca alla quale si è voluto dare questo nome. ornando a Pico della Mirandola, possiamo capire meglio le sue ricerche sull’esoterismo della cabala e del Corpus Hermeticum. In effetti, la credenza in una verità ascosa nel mistero delle lettere sacre e nel mistero più in generale, mi sembra assolutamente caratteristica di un'epoca in cui ognuno è angosciato dall’ineluttabilità e dalla prossimità della propria morte, è angosciato soprattutto dalla questione della sua salvezza, questione che è stata all'origine della grossa battaglia tra cattolici e riformati, per non parlare di tutte le dottrine o delle sette che non rientrano in queste due categorie, l’epoca di Pico è quella che assiste al fiorire di ogni sorta di profetismo: da parte dei discepoli del Savonarola e di altre correnti mistiche si crede alla vicinanza della fine del mondo che viene annunciata per il 1524, si crede all’avvento di un Papa angelico, si respinge la teologia razionalistica degli scolastici a vantaggio di una teologia più intuitiva che tenga maggiormente conto dei bisogni mistici degli individui. Questo profetismo e questo misticismo assumono forme diverse, ma non per questo meno vivaci, fra i sostenitori della chiesa romana o presso i riformati; questo non impedisce tuttavia le esclusioni e le lotte quando le correnti mistiche sembrano mettere in pericolo la stabilità politica e sociale. Possiamo dire che l’umanità d’oggi provi dei sentimenti analoghi a quelli provati dai migliori spiriti della fine del quindicesimo e dell'inizio del sedicesimo secolo che vedevano nella mistica e nella profezia una compensazione alla loro angoscia dei vivere in tempi che venivano considerati apocalittici. C’è la tendenza a notare, negli ultimi decenni del ventesimo secolo, non solo una disaffezione generalizzata dalla fede religiosa ma anche l’estinzione progressiva o brutale delle ideologie socio-politiche. Certamente il bisogno di credere, di dedicarsi appieno ad una causa, di lottare per un ideale, non ha lasciato il pianeta. Mai come nella nostra epoca di tecnicità avanzata e di progresso scientifico incessante, le questioni di etica pensate in termini universali sono state maggiormente all’ordine del giorno. Mi riferisco semplicemente a due punti: il primo è quello dell’energia nucleare, e l’altro è il tema delle manipolazioni biogenetiche magistralmente trattato ieri dal professor Lejeune. Avremo noi forse come compito, o forse le giovani generazioni che ci ascoltano, di completare, di compiere questo rinascimento umanistico contraddistinto dalle grandi figure di Ficino, di Pico, di Erasmo, di Rabelais, di Castiglione, di Las Casas, di Vitoria, di Michel de l’Hospital o di Montaigne? Quale è il senso che possiamo dare a questa compiutezza e possiamo addirittura parlare di compimento in tal senso? L’avvenire dell’umanità non è forse in un’apertura, in una facoltà di accoglimento quindi in un’incompiutezza essenziale? Il nostro compito è quello di trasmettere alle generazioni che prenderanno il nostro posto tutti i dati acquisiti dalla nostra esperienza, il bilancio dei re nuovi mezzi per far fruttificare il patrimonio. Quello che Pico ci ha lasciato è questo sentimento profondo dell’unità che lui considerava in senso metafisico e religioso piuttosto che in un’accezione politica, però non c’è alcuna incompatibilità tra questa unità metafisica e la concezione unitaria dell'universo, addirittura questi termini sembrano pleonastici. D’altro canto un’organizzazione politica dell’universo è fondata non tanto su principi di uniformità ma su principi e valori di universalità incarnati dalle democrazie autentiche. Sappiamo bene purtroppo come spesso questi principi siano calpestati anche quando le parole di democrazia e di libertà continuano ad essere impiegate in modo derisorio e ipocrita. Certi spiriti particolarmente illuminati del rinascimento avevano presentito che questo riconoscimento dei valori dell’universalità era essenziale per il mantenimento della concordia nel mondo. Pico non poteva pensare diversamente, tuttavia la sua concezione della dignità e della libertà umana, ripensata alla luce della nostra esperienza umana e dei popoli della fine del ventesimo secolo, può essere considerata come un punto di partenza per un nuovo rinascimento che ci consentirà di completare per quanto possibile quello che il rinascimento storico ci ha lasciato in eredità. Grazie.

R. BARBIERI:

Considerata la natura particolarmente ricca della relazione del professor Margolin e che abbiamo ancora un po’ di tempo, ritengo possibile rivolgere delle domande al professore fin da adesso.

DOMANDA:

Volevo capire meglio quali erano le premesse e le intenzioni di Pico rimaste incompiute e se, nonostante questa incompiutezza, si possa parlare nel rinascimento di una rinascita della cultura. In sintesi qual è il valore positivo di tutto quel movimento di pensiero che si sviluppò dal ‘400 in poi?

J.C. MARGOLIN:

L una domanda veramente interessante e molto ampia. Pico della Mirandola, che si chiamava anche "il signore della concordia", soprattutto nella prima parte della sua vita cercò una sorta di sincretismo fra i valori che io ho prima menzionato: la libertà e la dignità dell'uomo. Ebbene, se il rinascimento ha insistito su questi punti, non si deve pensare che questi valori siano completamente o assolutamente nuovi, è sufficiente rileggere la Bibbia, i più importanti testi di Platone, di Seneca, dei Padri della Chiesa. Pico, con la sua cultura straordinaria e la sua curiosità nei confronti di questi testi che prima ho citato (la cabala giudaico-cristiana, il Corpus Hermeticum), ha sempre manifestato una sensibilità nei confronti del mistero, a un qualcosa che va al di là della ragione dimostrativa e questo è uno dei motivi per cui aveva una certa difficoltà a intendersi con molti teologi tradizionali scolastici. C’è quindi questa volontà di avvicinare grandi spiriti come Platone e Aristotele; ho citato Ficino e Pico, Ficino preferiva Platone senza alcun dubbio, ma durante tutto il rinascimento si è avuto un dibattito tra questi due grandi autori che ognuno cercava di cristianizzare a suo modo, se accettate questo mio modo di esprimere le cose.

Domanda:

Se tutti desideravano essere cristiani, se la religione aveva l’importanza che ci ha illustrato così bene il professor Margolin, se cioè c'è stato il tentativo di cristianizzare i grandi spiriti del passato, come mai ha avuto poi tanta fortuna L’opinione che l’umanesimo sia un’insurrezione contro la religione, contro la Chiesa? Invece al professor Barbieri vorrei chiedere cosa intende per polverizzazione dell'uomo. Grazie.

J.C. Margolin:

Secondo me sarebbe meglio parlare di umanesimi al plurale piuttosto che dell’umanesimo in quanto io non penso che l’umanesimo in se stesso, di per sé, sia una dottrina filosofica o religiosa. Ci sono, ad esempio, grandi umanisti che non erano credenti. Io credo che da alcuni decenni l’espressione di "umanesimo cristiano", a cui ha dato molta importanza Julien Ries, sia diventata perfettamente accettata come una corrente importante attraverso il rinascimento. Penso che, ai giorni nostri, uno studioso del rinascimento che non sia direttamente un credente o un cristiano convinto, non possa più porre l’umanesimo come una sorta di filosofia o di religione dell'uomo che non avrebbe bisogno in un certo modo di Dio. Lo ripeto, l’umanesimo, al di fuori del posto centrale dell’uomo nell’universo, non è in se stesso un sistema filosofico e ancor meno una religione o un sostituto della religione.

R Barbieri:

La parola polverizzazione richiederebbe del tempo per essere spiegata in modo completo e per quello che io intendevo. A me sembra che dalla seconda metà del trecento in avanti avvenga, sia nella coscienza dei singoli - per lo meno di quelli di cui si legge qualche cosa -, sia nelle relazioni culturali e sociali quindi anche politiche del mondo europeo, come l’inizio di una serie di fatti che mi sembrano indicatori di questa polverizzazione. La mia impressione è che fino appunto la metà del trecento ci sia la tendenza a una convergenza anche fra fattori tra di loro conflittuali, come tra "sacerdotium" e "regnum", come nella ricerca filosofica ecc.. Ci sono cioè dei fattori conflittuali, anche molto forti, che in qualche modo sono sempre risolti nella tendenza a un’unità, sia del singolo che della globalità della cristianità. Molti indicatori dell’umanesimo sono invece il segno da una parte di un’esigenza personale della relazione dell’uomo con il mistero, ma nello stesso tempo come del venir meno di un criterio di appartenenza che sia tempo valorizzatore e regolatore di questo sforzo di identificazione. Probabilmente la storiografia deve fare ancora molto per spiegare questa crisi, proprio perché è stata interpretata il più delle volte come un fattore che si è in qualche modo contrapposto al cristianesimo. Si può vedere come si sia dimenticata in fondo la comprensione della radice profonda della crisi che probabilmente è una ribellione verso un formalismo, per lo meno a livello della ricerca, perché la tarda scolastica certamente non è la scolastica di Tommaso di Bonaventura, di Anselmo di Lanfranco. Qualche cosa cioè si è cristallizzato in dottrina e non c’è più una passione per il vero dinamico, c’è la difesa di alcuni punti di riferimento in modo rigido. L’altro aspetto è una polverizzazione anche degli interessi, cioè la gente si interessa di tante cose: di santità (cioè del rapporto personale con il destino), di politica, di tante altre cose. L’impressione è quella di un mondo più frantumato, polverizzato appunto.

Il dibattito prosegue su alcuni spunti particolari suggeriti dagli interventi iniziali. Per esigenze di sintesi, ne abbiamo riportato solo una parte. Insieme al pubblico è intervenuto a porre domande anche il professor Julien Ries.