SCENA 3 - Il vecchio immigrato a suo nipote e ad Antigone: "Ragazzi dovete capire, non sono ospitali perché non hanno una vera casa, troppi canali, radiotelefoni...".

Lunedì 26, ore 11

Incontro con:

Fausto Lupetti

Mario Guaraldi

Elio Marotta

Moderatore:

Aldo Brandirali

 

Brandirali: Io, come moderatore, dovrei esprimere la casa che accoglie, questo Meeting di cristiani che sanno guardare nel profondo della vicenda umana; in realtà io mi trovo qui al tavolo con i miei compagni e piango e rido con loro e ringrazio questo Meeting che ci dà il diritto di parola, che avevamo perduto quindici anni fa quando avevamo rotto con una vicenda, una volta capita l’erroneità e la drammaticità di essa, ed eravamo precipitati nella crisi dell’uomo moderno, nella difficoltà del cammino di ricerca, di verità che si svolge frequentemente senza la luce, come è complessivamente la vicenda dell’uomo che, impoverito nei punti di riferimento, ma bisognoso ardentemente di rintracciare segni, tracce di senso e di significato, cammina nella notte, a volte per capire qualcosa e per trovare una luce.

Non è casuale che il nostro dibattito inizi con la terza scena del Meeting: l’immigrato che dice: "Devi capirli, sono senza casa, solo radiotelefoni". L’immigrato qui sta parlando proprio dell’uomo moderno dell’Occidente, dell’Europa, dei Paesi sviluppati che pure di case ne hanno, ma li chiama senza casa. Ebbene, i miei amici ed io esprimiamo la condizione radicale di questo essere senza casa, perché certamente non abbiamo i radiotelefoni, cionondimeno ci riconosciamo in questa frase dell’immigrato, dell’emigrante, questo uomo che ha un’identità così forte da poter essere al di là della patria. Ci riconosciamo nel fatto che siamo provocati dall’esigenza di una casa, è quindici anni che siamo provocati da questa esigenza che cerchiamo, in questa che si chiama democrazia, la nostra espressione, ma per una radicalità nell’affronto della vita vissuta fin da ragazzi, ci è diventato impossibile riconoscerci in case-partito, in simboli, in distintivi, in etichette, e abbiamo continuato per scelta ad essere senza casa, perché cercavamo e cerchiamo qualcosa d’altro.

È di questo che parliamo oggi, ma ormai abbiamo uno scatto d’orgoglio, una dignità acquisita proprio in un incontro, grazie a degli amici nuovi. In questo noi sentiamo di poter mostrare una risposta, una ripresa del cammino, un rialzarsi in piedi e un ripartire anche davanti ai fallimenti dei progetti, delle utopie, dei sogni, dei desideri di cambiare il mondo, che poi sono realizzati nella loro assurdità, nella loro violenza, e ripartire per un sapore della vita, per una casa che valga la pena di essere abitata, per una casa che sia un luogo dove viviamo assieme, una casa popolata e non le mura fredde di una non appartenenza, di una non qualità. Questa casa vuole essere un luogo di vita vivo, un luogo di socialità, di responsabilità sociale, un luogo che è costruzione qui e ora di una libertà che non può riconoscersi in questo ordine mondiale di cui si è parlato continuamente durante la guerra con l’Iraq.

È proprio in quella circostanza che noi amici ci siamo ritrovati con il dolore e la rabbia contro una guerra ideologica innanzitutto, una guerra per l’affermazione di un modello centralizzato del riferimento umano di vita, di società, di modo di vivere, un’unicità di modello che si impone proprio con la sua pretesa di essere quello che rimane davanti alle ceneri del mondo come un palazzo splendente. Noi abbiamo sentito proprio nei giorni della guerra la bruciante falsità di una narrazione degli avvenimenti che non era reale, che non corrispondeva a ciò che realmente accadeva, e il bisogno di verità era fortissimo proprio perché sapevamo e sentivamo per esperienza, per partecipazione, per occhi continuamente aperti, attenti, sapevamo e sentivamo che le cose accadevano in un altro modo e che ci coinvolgevano.

Allora sì, riprendiamo il cammino in nome di una costruzione qui, di questa possibile appartenenza, amicizia, compagnia, una costruzione di un modo di vivere, di una qualità, di un gusto, di un sapore delle cose di ogni giorno, del lavoro, dello studio, dell’organizzazione stessa della vita degli uomini. Noi vogliamo sentire in questo mondo la novità presente, il soggetto che ci carica di senso. Per questo abbiamo passione per la politica, non perché siamo realisti più del re e riconosciamo che non si può far altro che essere con chi sta governando ora, e che non si può far altro che non fare niente, che celebrare l’esistente e riconoscere il potere per come si pone, ma è proprio passione alla costruzione della vita, alla profondità del tessuto e del significato di questo tessuto, alla ricchezza continua di una novità che si pone e che si esprime.

Fausto Lupetti, dissidente dal PCI negli anni ‘60, si trova poi negli anni ‘70 fra i dirigenti del gruppo "Servire il popolo". Attualmente gestisce la sua casa editrice.

Lupetti: Guardando al proprio passato si rischia sempre di assolversi, ma a me questo atteggiamento non interessa relativamente al sessantotto. Mi interessa che l’errore politico non offenda la mia dignità, perché io non lo farei mai con un altro. L’errore politico c’è. Mi dispiace che qualche ospite del Meeting non volendo, o perché abituato a ragionare in un certo modo, abbia tentato di offendere la dignità di una generazione, ma qui non si può fare di tutta l’erba un fascio. A maggior ragione per quanto riguarda il passato, perché è vero che la struttura storica, tradizionale dei partiti comunisti ha sempre considerato che chi apparteneva al partito comunista e non era nel gruppo dirigente non contava niente e non poteva neanche dire quando non era d’accordo perché andava fuori dalla linea del partito e significava non aver più casa. Qui si entra nel discorso dell’assoluzione. Io sono sempre stato abbastanza bravo perché non avevo paura di non aver casa, nel senso che il comunismo rivoluzionario come battaglia di verità, di movimento continuo, di crescita continua nel ‘68 era per me una casa, pensavo di averla trovata (in realtà era una tenda mobile); era una casa fatta per me, di volti e di persone più che la casa di mattoni occupata dal 1921 da anime morte in cui io e i miei compagni non abbiamo mai aspirato a vivere. In fondo i giochi del ‘68 erano già stati fatti nel comunismo internazionale e questa nostra adesione non poteva avvenire sulla base di quello che avevano fatto i comunisti prima di noi perché non ci andava bene niente non perché avessero dei programmi sbagliati, ma perché avevano perso le ragioni di una adesione al comunismo che fosse sociale, umana, politica, cioè più che politica. Non erano possibili in questa nostra concezione mediazioni, e tutte le volte che ci trovavamo di fronte alla politica come rapporti di forza dovevamo sostenere l’ingiustizia o la menzogna per far prevalere il rapporto di forza; la storia del comunismo è stata questa.

I partiti si sono costruiti nella difesa arroccata del loro già sapere tutto e della pretesa di mettersi alla guida delle masse nella direzione che loro avevano già stabilito; per noi la politica non era questo. Io rivendico il fatto che mi hanno guidato volti e persone, la solidarietà, per esempio. Non va trascurato che una parte di una generazione è nata nelle comuni e non nelle cellule di partito; nel ‘66, nel ‘67 noi vivevamo in una comune, si scambiava tutto; uno lavorava, gli altri facevano politica, si mangiava tutti quanti assieme, si viveva assieme, si creava un rapporto di questo tipo. La cultura è diventata importante dopo, cioè quando si è cercato di dare coerenza a quelli che erano i sentimenti, però anche qui si comprese che la cultura di sinistra era una maschera per ricomporre gerarchie e differenze e il problema degli intellettuali diventava il problema di chi metteva i piedi in testa, di chi sfruttava le debolezze dell’incapacità del proletario di esprimersi per dominarlo e da qui è nato l’errore, secondo me, un errore, voi direte, da cui sempre mi assolvo perché errore che si cercò di fare a fin di bene perché cercammo di salvarci dall’ideologia, cioè di far prevalere sulla cultura la dimensione semplificata dell’ideologia. Questa può funzionare nello scontro con la cultura perché è uno dei modi per intimidire l’aggressività culturale, ma l’ideologia non porta a vedere chi hai davanti, ma ad usare tutto.

Tra le tante cose che si potrebbero dire ancora, vorrei affrontare il discorso sul terrorismo perché in fondo a noi il terrorismo ha tolto la libertà di parola; noi non potevamo più esprimere una posizione radicale, quando il terrorismo ha cominciato ad uccidere, innanzitutto perché l’opposizione radicale ci portava per la nostra storia e per le nostre posizioni ad essere considerati obiettivamente coinvolti con chi non volevamo e con cui non avevamo niente a che fare e che, anzi, ci accusava apertamente di aver rinunciato alla nostra aspirazione di stare dalla parte delle masse e dei lavoratori perché non facevamo quello che facevano loro. Ora bisogna capire che un chiarimento all’interno di una generazione ci deve essere e noi lo vogliamo con dei volti e con delle persone. Vent’anni fa una generazione di persone vive ha capito che per continuare ad esistere ed essere se stessa doveva interrompere la propria proposta politica, e questa generazione non sapeva quando avrebbe potuto ricomporsi. La cosa più importante non era il quando, ma che queste persone vive tornassero alla profondità del cammino umano. Accettare la politica, l’anima dei partiti, ad esempio entrare nel PDS o nel PSI avrebbe significato non essere se stessi, quella infinitesima parte del popolo che io e i miei amici penso che siamo.

Mario Guaraldi nasce a Rimini nel 1941. Nel 1971 fonda la "Guaraldi editore" che svolge un’intensa attività nel campo dell’educazione, della sociologia, della psicoanalisi e del costume, divenendo in breve tempo la casa editrice di punta della contestazione studentesca. L’attività editoriale, sospesa nel 1979, riprende nel 1991 con un libro di Roberto Formigoni e Aldo Brandirali sulla Guerra del Golfo. Dal 1984 Guaraldi collabora al "Meeting". Nasce in questo contesto la produzione dell’opera contemporanea "Maximilien Kolbe" con libretto di Eugène Ionesco.

Guaraldi: L’unica maniera per capire la storia di questa nostra generazione sciagurata che ha commesso tanti errori è capire come alla base vi fosse una presunzione di onnipotenza. Io ho cercato di mandare avanti questo tema molto faticosamente, ci provo ancora perché lo credo davvero molto importante. Se io guardo al mio passato (fra un mese esatto ho cinquant’anni) mi impressiono di fronte alla enormità di ricordi che io posseggo e in cui si mescolano eventi storici straordinari persino dell’ultima guerra, di certi bombardamenti, dei rumori, poi di tutte le vicende politiche che hanno caratterizzato il nostro Paese (la ricostruzione, il boom economico, la guerra fredda, Moro, Papa Giovanni, le persone che ho conosciuto) con le mie vicende private, con la mia storia personale, con i miei affetti, con i miei amori, con le mie disperazioni, con le mie angosce formando qualche cosa di molto particolare e unico amalgamato; e questa memoria intricata fra storia e vicende personali che mi porto dentro ha il segno di una presenza. Ha ragione don Giussani quando dice che la memoria non può essere altro che una presenza perché tutto ciò che ci portiamo dentro ha la caratteristica di annullare il tempo, lo azzera in qualche modo, e tutto diventa contestuale, presente, amalgamato nel nostro giudizio di oggi, nel nostro essere; è come uno sguardo diverso che diventa presenza. All’interno di questa strana contestualità della memoria si incomicia, se uno si guarda con attenzione, a scorgere l’abbozzo di un disegno e guarda caso quell’abbozzo di disegno non corrisponde mai con i progetti che noi vi avevamo viceversa investiti, ha sempre un segno diverso, c’è qualche cosa che non corrisponde alla nostra pretesa progettuale, alla nostra pretesa onnipotente.

L’onnipotenza di questa generazione è realmente, se ci pensate bene, alla base della quasi totalità degli errori che ha compiuto. L’uomo era, secondo la nostra concezione, capace di affermare i criteri di giustizia, di uguaglianza, di bontà, di altruismo, di fratellanza, doveva essere capace. Chi lo impediva? Noi ritenevamo fosse possibile che l’uomo avesse in sé la capacità di trasformare il mondo in meglio. Quando noi leggevamo la Bibbia (perché le nostre origini, grazie veramente a Dio, bene o male si portavano dietro questo barlume di fede, questa scintilla, probabilmente mai realmente sopita) la leggevamo costantemente all’interno di questa ottica. Mosè era un gran furbo; portava i suoi nel deserto, questi si lamentavano. Lui, che era uno molto intelligente, sapeva che nella morfologia del terreno c’erano vene d’acqua che scorrevano sotto la roccia per cui bastava rompere con il bastone e l’acqua scaturiva; sapeva bene che esisteva il fenomeno della manna, per cui la rivendeva bene al suo popolo. La lettura di tutto ciò che atteneva all’uomo e alla sua organizzazione pretendeva che fosse totalmente giustificato in sé dall’uomo in quanto tale. Era l’onnipotenza dell’uomo, con radici antiche, che non era neanche l’atteggiamento marxista; non era nei sacri testi che noi non solo conoscevamo francamente abbastanza poco, tranne alcuni di noi, ma su cui tutto sommato sgobbavamo abbastanza; c’era qualcosa di molto diverso, c’era una spinta molto più radicalmente innestata dentro il bisogno di uno spirito nuovo e, guardate caso, non sapevamo neanche fare il raffronto fra l’uomo nuovo di origine illuminista e l’uomo nuovo di cui parla Cristo. Non riuscivamo neanche a capirlo.

Il mio amico Fausto Lupetti a Milano, qualche tempo fa in una nostra riunione disse una cosa che io considero straordinaria per ciò che ci unisce, che ha unificato la nostra generazione, è il non avere mai saputo accettare la menzogna. Io di colpo ho capito che questo era l’elemento di congiunzione corretto, vero, giusto. La nostra presunzione era tale, era tanto più macroscopica in quanto si giocava su tutto ciò che esisteva di positivo, gli elementi di uguaglianza, di giustizia sociale, di correttezza nei rapporti, di incapacità di accettare la menzogna, ma l’errore consisteva nel fatto che noi eravamo convinti di farcela da soli. Io oggi sono convinto che davvero la nostra storia, la storia di qualcuno di noi si iscrive in un disegno infinitamente più grande, per cui invano abbiamo cercato di costruire una casa, ma dico ciò con infinita dolcezza perché questa storia a me è accaduta e ad altri non è ancora accaduta, so che questo è il punto su cui ci si dovrà in qualche modo confrontare fino in fondo. In questa situazione di grande confusione, di grande caos abbiamo solamente questa nostra memoria e questa capacità di vedere, di individuare alcuni nuclei di errore perché si verifica una situazione angosciosa che ci portiamo dentro ed è proprio quella che è legata alla memoria di tanti anni e di tanti avvenimenti che ci portiamo dentro laddove, viceversa, molti di voi, molti dei nostri interlocutori che hanno per esempio vent’anni, non solo non la possono avere, perché ciò che per me è ieri ed era vent’anni fa, per te mio figlio che hai vent’anni era un quieto sogno nel ventre di tua madre e tutto ciò che era prima è così inesorabilmente lontano che quasi non c’è differenza fra venticinque anni fa, duecentocinquanta anni fa, o mille anni fa. Allora come mi raccordo con te, come ti trasmetto questa cosa?

Qui si pone un problema secondo me straordinario, quel momento strano, indicibile, per cui un figlio diventa padre. La nostra generazione è una generazione di figli, figli ribelli, di figli ai quali non andava bene quasi nulla di quello che i loro padri proponevano: ingiustizia, appiattimento, mancanza di valori, la vigliaccheria nel valutare le loro vicende storiche. Noi come figli ci siamo ribellati, poi la storia ci ha dato un privilegio straordinario, che è stato quello di diventare padri, ma il passaggio dentro ciascuno di noi dalla condizione di figli alla condizione di padre è talmente strano e misterioso da dire che mi lascia solamente con tutta la responsabilità della mia umiltà. È proprio nella condizione di padri che si rivolgono ai figli che noi possiamo trasmettere qualcosa di ciò che abbiamo capito. Solamente in questa dimensione di filialità e paternità contemporanea si gioca la capacità di trasmettere non delle memorie storiche banali, ma una ragione di speranza e la principale è quella che in realtà unifica tutte le nostre storie, quella appunto della loro unicità assoluta. Ciascuno di noi ha un valore assoluto e la capacità di guardarci in faccia in quanto persone, di riconoscerci in quanto tali è davvero l’elemento che può permettere a storia e culture così radicalmaente diverse di ritrovarsi all’interno di questa casa che non siamo noi a costruire, ma che rappresenta la grande speranza comune.

Elio Marotta nel ‘68 è stato redattore della rivista Giovane Critica. Oggi è preside di liceo a Catania.

Marotta: Mi sembra che nel nostro gruppo la realtà che Aldo, Mario e Lupetti hanno presentato sia una realtà in cammino, perché il mondo è in cammino, il nostro Paese, voi siete in un grande cammino. Anche ciascuno di noi nella propria singolarità è in cammino e in fondo sono state presentate le modalità di questo essere in cammino; in questo abbiamo rinunziato alla pretesa di un progetto assoluto che risolvesse la storia degli uomini. In fondo l’errore fondamentale della vicenda che ci ha accumunati è stato pensare ad un progetto di emancipazione degli uomini che risolvesse definitivamente, una volta per tutte sul palcoscenico della storia vicende come lo sfruttamento, l’oppressione, l’infelicità degli uomini, la mancata realizzazione delle potenzialità, delle capacità, ecc. Ciascuno di noi, e anche gli altri che percorrono la stessa strada, ha capito la follia e la pretesa di questo progetto, come diceva Mario Guaraldi, di onnipotenza, questo progetto assolutizzato, di emancipazione dell’uomo dai condizionamenti, da tutte le forme di conflitto, di tragedia, di insofferenza, di infelicità. Noi dobbiamo in qualche caso gridare, Aldo Brandirali è capace di gridare, in qualche altro caso di comunicare le nostre esperienze di questo cammino comune, un cammino che riguarda ciascuno di noi come persona con delle caratteristiche individuali e che apre degli aspetti di generazione. Io credo che noi rappresentiamo una parte di quella generazione che è venuta a maturità politica e culturale a metà degli anni ‘60, nei primi anni ‘70. Questo gruppo è rimasto esterno alle organizzazioni sociali e politiche impegnate nel Governo e nella gestione del Paese ed estranee alla loro cultura. Ogni persona per valere utilizza una potenza, ed a chi per l’intensità della motivazione, prima ancora che per gli obiettivi scelti, punta in alto, può accadere di abbracciare, quando mancano riscontri di realtà, la potenza del no. Siamo, se volete, al dramma di Antigone. Sia che quei giovani fossero contro la cultura e quelle organizzazioni più o meno radicalmente fino al terrorismo, come ricordava Fausto, o che ne abitassero aree marginali e infine che abbiano prodotto forme concrete di autoeliminazione, si è trattato comunque di uomini che hanno assunto, svolto un compito critico. Le istituzioni e i soggetti forti della società hanno utilizzato solo marginalmente questa forza critica e non sono state in grado di imporre a coloro che ne erano portatori assunzioni di responsabilità sociali.

Questo gruppo, di origine abbastanza omogenea, si è differenziato in base a scelte diverse. Una parte, ad esempio, molto significativa dal punto di vista culturale, è uscita da questo isolamento facendo proprie alcune acquisizioni culturali del razionalismo critico e sollecitazioni operative della teoria delle decisioni. Avendo maturato la convinzione che fosse impossibile sfuggire alla storia come impostura e che la menzogna pervadesse e fondasse la civiltà, la menzogna, dicevano quelli di noi che hanno abbracciato questa strada, capace di proiezioni in avanti, costoro hanno scelto una volontaristica attribuzione di senso ad un progetto politico centrato su di un gruppo. Alle motivazioni ideali scomparse venne sostituita la competitività politica ed il successo è diventato il criterio dell’intervento sociale. Questa parte della mia generazione ha utilizzato la formazione acquisita nelle piazze, sulle strade, sulle barricate e nel lavoro politico di massa, componendola con la competenza di molteplici saperi e finalizzandola al successo. Tra i restanti, dopo un lungo periodo di silenzio che era in realtà il riproporsi dell’impatto di ciascuno contro una realtà in cui erano iscritti i propri e comuni fallimenti, errori, emerse con forza diversa la coscienza di essere uomini stranieri nella propria terra e portatori di domande senza risposta. Si è trattato di una fase di grande pessimismo quella attraversata direi cronologicamente attorno alla metà degli anni settanta, ma già di espressione.

Il periodo immediatamente successivo alle lotte, all’organizzazione era stato muto o ripeteva vuote parole del passato. La ripresa consapevolezza si andava arricchendo di scoperte non ideologiche, quale il dolore, la coscienza di sé, il mondo, la pianta, l’animale, l’ambiente, l’aria e se stessi dentro di esso; i legami di sangue, di amicizia, il loro essersi piegati nella tempesta, l’uso possibile di sé, il lavoro, l’incontro con diversi da sé. Da qui hanno avuto inizio i primi incontri tra persone di formazione e di cultura molto diversa con cui si inizia a parlare "la lingua dell’amore e della solidarietà tra gli uomini" (sono parole che riprendo da un numero del Sabato dell’87 in uno scritto di Sergio Segio). Si iniziò a parlare la lingua dell’amore e della solidarietà tra gli uomini nel bisogno che non andassero perduti insegnamenti sul pensare, il parlare, l’agire scaturiti dalle esperienze collettive di quegli anni e così duramente pagate da tutti, in particolare, visto che di questa vicenda nelle sue forme estreme fa parte il terrorismo, dai compagni assassini e dalle loro vittime. Lungo questi anni è andata crescendo la consapevolezza che quegli insegnamenti sarebbero perduti se si concludesse che quello maturato tra gli anni ‘60 e ‘70 è stato un sogno finito in un incubo, una forzatura nei limiti dell’umano, che la realtà è immodificabile, le ciniche regole morali e politiche trionfanti, essendo riconfermate dall’esito tragico di quella eccezione.

A questo dialogo, a questo modo di essere in cammino è potenzialmente interessato chiunque in letizia o nell’angoscia o nella quotidiana presenza di entrambe sente il bisogno di volere altro da ciò che la conformità offre, il bisogno di intraprendere l’esodo dal Paese la cui cultura e il cui sistema sociale umilia l’uomo e ne fa una cosa, di affrontare, come in questa tavola rotonda, il problema dell’essere senza casa, che certamente è una metafora dell’uomo moderno e che comunque si propone il tema della costruzione della casa come tema di un possibile incontro, di questa possibile alleanza. Quello che abbiamo presentato, la logica nella quale ci moviamo non è una logica di incontro di culture che sarebbe riduttivo in quanto ad essere in gioco sono temi umani che vanno al di là delle formulazioni e dei modelli culturali, che appartengono alla natura stessa, alle radici dell’uomo. Un incontro che preceda le culture, che quindi costituisca un punto di partenza perché le culture possano incontrarsi, integrarsi e le esperienze possano essere preziose le une per le altre. In fondo quello che noi che viviamo essenzialmente nella dimensione del singolo, pur portando all’interno della nostra esperienza dimensioni collettive, possiamo mettere a disposizione è l’esperienza, in gran parte gli errori, ma non solo, anche le motivazioni che avevano spinto a quella scommessa, alla decisione di essere uomini per gli altri. Credo che ciascuno si muova in questa logica, non un uomo per sé ma un uomo per altri. L’alleanza in fondo è in questo: nell’ipotesi che esperienze diverse possano essere utilizzate. In questo percorso siamo tutti in movimento e in particolare e con grande forza siete in movimento voi.