Un milione di nuovi posti di lavoro?

Giovedì 25, ore 15

Relatori:

Clemente Maria Mastella

Giuseppe Gemmani

Alfiero Grandi

Moderatore:

Marco Martini, docente di Statistica Economica presso l’Università Statale di Milano

Martini: Il tema del lavoro è cruciale nella nostra società ed è il tema su cui non solo l’Italia ma tutti i Paesi industrializzati oggi si interrogano. Ormai è diventata coscienza comune che la fase che stiamo vivendo è una fase di un cambiamento strutturale che non ha precedenti nella storia. Creare dei posti di lavoro, fino a che il modello dell’economia era statico, dove la tecnologia ed i mercati erano sostanzialmente dati, era un problema di investimenti. Ma oggi gli antichi strumenti anticongiunturali, quelli che abbiamo imparato ad usare negli anni ‘60 e ‘70, non funzionano più perché la tecnologia, il modo di produrre le cose, cambiano con un ritmo mai visto prima cosicché ciò che prima era prevedibile oggi è diventato imprevedibile. Nessuna impresa è in grado di sapere cosa produrrà fra tre anni e per chi, in che modo e con quali risorse umane. Tutti noi, sia chi si accinge a lavorare sia chi lavora già, chi ha dei figli per i quali è preoccupato di trovare un posto di lavoro, chi deve formare coloro che dovranno lavorare, chi ha la responsabilità di gestire le politiche o di difendere la dignità dei lavoratori o di organizzare le imprese, tutti siamo nella condizione di dover abbandonare vecchi parametri concettuali, vecchi modelli di riferimento, che abbiamo costruito negli ultimi 40 anni, fondamentalmente basati sul fatto che il posto di lavoro aveva una durata media di 40 anni e si poteva supporre che una persona potesse proseguire nella stessa posizione lavorativa, con eventuali avanzamenti di carriera, per tutta la sua vita lavorativa, dai 20 ai 60 anni. Di conseguenza, la difesa della continuità del lavoro veniva a coincidere con la difesa del posto di lavoro. Così il sistema retributivo diretto, oppure differito come quello previdenziale, era tutto legato alla posizione lavorativa che la persona ricopriva, nell’ipotesi che essa potesse perdurare per parecchio tempo. Ma non è più così. Anche al G-7, ma questa ormai è una storia nota, si è detto che mediamente la durata di un posto di lavoro sarà di 5/6 anni, perché legata alla durata di una tecnologia e di un’organizzazione che intorno a questa tecnologia si costituisce, sia a livello di singole imprese sia a livello di sistema economico.

In queste condizioni, quella mobilità che tanto, e per certi aspetti giustamente, spaventava il lavoratore – perché spesso mobilità voleva dire rinunciare alla sicurezza di un posto per l’insicurezza – questa mobilità, questa insicurezza saranno la norma, è ormai la norma perché nessuno può prevedere che cosa succederà. L’impresa, che un tempo offriva sicurezza e reddito in cambio di subordinazione – questo era il patto di lavoro –, oggi non è più in grado di offrire sicurezza. E allora in che termini si pone lo scambio, che cosa offre l’impresa in cambio di una prestazione che sempre meno viene richiesta come pura esecuzione subordinata di compiti prescritti, ma che invece richiede attitudine ad affrontare il nuovo, quindi attitudine ad assumersi responsabilità, ad affrontare un’avventura insieme con l’impresa stessa? In cambio di che cosa il lavoratore può concedere questa sua capacità di iniziativa ad un’impresa che non è più in grado di promettergli sicurezza? Questo è un problema che modifica, lo intuiamo tutti, radicalmente i termini dello scambio.

Come il nostro Paese è attrezzato ad affrontare questo cambiamento epocale? Un sistema arroccato nella difesa delle posizioni conseguite è un sistema che si condanna al suicidio e l’Italia da questo punto di vista è particolarmente debole. Noi abbiamo un sistema di lavoro dove la mobilità non è facile. In Francia, ad esempio, il passaggio da pubblico a privato è normale, in Italia è rarissimo. Lo scambio fra lavoro dipendente e lavoro indipendente, il passaggio da piccola impresa a grande impresa e viceversa, anzi soprattutto viceversa, queste possibilità di adeguare rapidamente il tessuto produttivo al cambiamento imprevedibile della tecnologia e dei mercati richiedono un’attitudine alla mobilità che oggi non è favorita né dalla mentalità né dalle istituzioni. Pensate ad esempio alle istituzioni previdenziali le quali scoraggiano il cambiamento. Un dipendente pubblico non cambierà mai in queste circostanze, perché perde una serie di possibili diritti che ha acquisito entrando nell’Ente pubblico. Ma questo ci mette in condizione di essere poco flessibili nell’adattare la struttura. Così il passaggio dalla grande alla piccola impresa preoccupa il lavoratore, perché non c’è dubbio che nella grande impresa il lavoratore è più difeso che nella piccola. Per non parlare del passaggio dal lavoro dipendente a quello indipendente. Vi sono inoltre una serie di casi che riguardano le professioni autonome. Le barriere all’ingresso per il lavoro indipendente oggi sono moltissime e sono di carattere giuridico: licenze e autorizzazioni, che giustamente debbono essere concesse per garantire al pubblico la capacità di chi svolge un certo lavoro di dare un servizio adeguato, sono in gran parte utilizzate per difendere le posizioni di rendita di chi vi è dentro. E questo impedisce il passaggio, per esempio, dell’operaio dell’Alfa Romeo alla professione di tassista, cosa che sarebbe tecnicamente facilissima. Ma giuridicamente oggi questo è impedito da vincoli di tipo legislativo, di tipo regolamentare, da forti difese corporative di tutti, perché ciascuno tende a difendere le posizioni acquisite. E a farne le spese sono ovviamente i più deboli che in Italia sono i giovani; non a caso il tasso di disoccupazione italiano – che è all’incirca pari a quello di tutti gli altri Paesi, circa il 10-11% – è caratterizzato da una presenza di disoccupazione giovanile che non ha paragoni né in Francia né in Germania né in Inghilterra, per citare i tre Paesi che hanno le nostre stesse dimensioni: il 60-65% dei nostri disoccupati sono giovani. Ma questo è chiaramente l’effetto del fatto che noi difendiamo con i denti le posizioni conquistate, rendendo sempre più difficile l’ingresso ai nuovi arrivati. Non solo, ma questo comporta che il costo di questa situazione gravi fondamentalmente sulle famiglie con figli, le quali, dopo essere già state tartassate pesantemente da un fisco ingiusto che non considera il reddito disponibile pro capite ma considera il reddito globale della famiglia senza tenere conto del numero di componenti che con esso debbono vivere, subiscono per tre, quattro o cinque anni il costo della disoccupazione dei loro figli. Il ventre molle del sistema è la famiglia con figli, in Italia. Una famiglia con figli che, fortunatamente, continua a rigenerare questa risorsa umana che tutti affermano essere la risorsa centrale; ma non dobbiamo dimenticare che la "fabbrica" di questa risorsa è la famiglia, ed è l’unica fabbrica che non ha incentivi, anzi ha disincentivi sotto il profilo economico.

Oltre che abbattere le barriere, oltre che rendere più flessibili le forme di lavoro, è necessario costruire sistemi che consentano ai lavoratori di affrontare questo percorso imprevedibile senza essere lasciati soli. Per affrontare una realtà imprevedibile occorre avere tre supporti. Innanzitutto un supporto di informazioni: non si può chiedere al singolo lavoratore di cercarsele, perché è estremamente costoso cercarle e non sempre egli è in condizione di trovarle e di coglierle. Chi aiuta il singolo lavoratore a individuare le possibilità per lui? In secondo luogo un supporto formativo che non è più possibile limitare al periodo prelavorativo, periodo nel quale ovviamente è importante che la gente studi e si prepari sempre di più, ma deve essere anche un supporto che accompagna nel momento del cambiamento, perché non è facile cambiare lavoro; è necessario trovare – e trovare vicino, disponibili e con una certa flessibilità – occasioni di formazione che aiutino la persona a cambiare posizione, settore, da dipendente a indipendente, dalla piccola alla grande impresa o viceversa, dalla pubblica amministrazione al privato. Dove sono questi supporti formativi? Infine, nuovi supporti assicurativi, perché abbiamo imparato che di fronte ai rischi il modo per affrontarli è quello di assicurarsi, e assicurarsi collettivamente. Il sindacato ha inventato, agli inizi del ‘900, l’assicurazione contro il rischio della malattia, contro la vecchiaia, contro gli infortuni; queste sono modalità per collettivizzare un costo di eventi imprevedibili che possono toccare ciascuno di noi. Dobbiamo inventare nuove forme assicurative contro il rischio di rimanere senza lavoro in questo percorso. Dobbiamo proprio inventarle perché non esiste nulla.

Questi sono i termini del problema. La mia sensazione è che se i lavoratori, le imprese, il sindacato, il Governo sono in grado di cambiare rapidamente mentalità per impegnarsi in un grande progetto che consenta alla società italiana di affrontare questo cambiamento che è come il passaggio del Mar Rosso, la possibilità di uscirne con nuove occasioni di lavoro ci sia.

La prima questione che vorrei porre a tema nel dibattito di oggi è questa: a vostro avviso quali sono gli ostacoli che ancora sussistono e come si possono rimuovere perché il sistema dell’occupazione in Italia sia in grado di reagire con tempestività a questi stimoli dinamici di cambiamento che gli derivano dal mercato internazionale e dall’innovazione tecnologica?

Clemente Maria Mastella, Ministro del Lavoro e della previdenza sociale

Mastella: Bisogna tutti assieme cospirare per un ripensamento dello Stato sociale, che non è la eliminazione dello Stato sociale. Invogliato a dire in modo chiaro quali sono le cose da rimuovere, indico tra esse la mentalità del posto fisso, che è una questione di cultura. Questa accelerazione dei ritmi esistenziali, che evidentemente trova riscontro anche nel mercato del lavoro, richiede una uguale accelerazione anche dal punto di vista mentale. Fino a quando ognuno monterà la guardia rispetto a quello che poi non si sa più se è il privilegio, come nel caso di alcune pensioni, o invece la dignità del bisogno, diventa tutto molto più difficile. E allora bisogna che tutti quanti si esercitino in maniera completamente diversa. Io ho fatto in modo che in Parlamento i colleghi parlamentari abbiano la possibilità di vedere delineata quella che secondo il sindacato invece è la destrutturazione del mercato del lavoro del nostro Paese. Non potevamo noi fare riferimento al G-7 e non ritenere che la flessibilità fosse o non fosse adoperata anche da noi. Flessibilità, che non significa eliminare d’incanto l’aspetto di natura solidale, ma introdurre nuove forme quali i contratti a termine, il part-time ed una serie di elementi che fino ad ora trovavano scarso ingresso all’interno del mercato del lavoro. Se si riuscirà a mantenere una pace sociale, tutti gli indicatori danno, soprattutto a partire dal prossimo anno, la possibilità di una nuova, seria occupazione nel nostro Paese. Alla flessibilità occorre legare un serio lavoro di formazione e delle strategie che favoriscano l’incontro della domanda e dell’offerta.

Martini: Uno degli elementi che caratterizza il tessuto economico italiano e che per certi aspetti rappresenta un punto di forza, è la diffusione della microimprenditorialità. In Italia ci sono, all’incirca, quattro milioni e mezzo di imprese, mentre in Francia sono tre milioni, in Germania e in Inghilterra un milione e mezzo circa. Questo significa che l’attitudine specifica del nostro popolo va nella direzione del lavoro autonomo, del lavoro artigiano, del lavoro ben fatto. Ovviamente questo è un punto di forza in tanto in quanto c’è una tradizione e una capacità, può diventare un punto di debolezza nella misura in cui questa capacità e questa tradizione non sono valorizzate. Ing. Gemmani, dal punto di vista di un imprenditore, conoscitore anche di un’economia locale molto ricca e molto viva come quella della Romagna, quali sono oggi gli aspetti positivi e quali gli aspetti negativi della capacità di intrapresa che lei può osservare nel tessuto economico che vive?

Giuseppe Gemmani, imprenditore

Gemmani: Qui ci rifacciamo ad una realtà che secondo me non è altro che il modo italiano per acquistare flessibilità. Visto che il mercato del lavoro per le imprese è rigido tanto più quanto più è grande l’impresa, una soluzione a questo problema la si è trovata attraverso la costituzione di tante piccole imprese con una diffusione notevole del così detto terzismo, cioè la piccola impresa al servizio della grande impresa, analogamente a quanto avviene in Giappone, rispetto alla quale ha maggiore capacità di flessibilità. Se però vogliamo spostare il discorso sulla possibilità effettiva di riuscire ad avere un miglioramento notevole della occupazione, il problema non è facilmente solubile. Io rilevo che le nostre aziende che operano sul mercato internazionale concorrono con aziende che complessivamente sopportano un minor costo del lavoro. Infatti il salario medio è leggermente superiore a quello della Germania, però il costo del lavoro è maggiore perché gli oneri previdenziali da noi sono almeno il 10% superiori a quelli della Germania. In sostanza attraverso la riscossione dei contributi previdenziali si attua una sorta di tassa sulla occupazione, cioè quel 10% in più che le nostre aziende pagano rispetto ai concorrenti europei, in questo caso, non sono altro che una tassa sull’occupazione. Paradossalmente vogliamo occupazione e poi tassiamo l’occupazione. Non è che io chieda di abolire questo, ma constato che ciascun imprenditore, sia grande, sia medio e anche piccolo, e quindi anche gli stessi artigiani, fa salti mortali per fare investimenti che riducano il fabbisogno di manodopera. Negli altri paesi certi costi dovuti alle pensioni, e soprattutto ai minimi, vengono coperti dal sistema fiscale, da noi invece il sistema fiscale non consente questo. Ed è qui il punto da affrontare. Noi dobbiamo darci un sistema fiscale più avanzato, moderno, che ci consenta di coprire quel 10% di differenza che noi abbiamo rispetto ai concorrenti europei attraverso un maggiore gettito fiscale. Una responsabilità particolare di fronte al problema dell’occupazione ce l’ha la scuola. Il nostro Paese è fondato sulle piccole imprese che nascono dalle imprese artigianali; purtroppo gli artigiani che creano l’impresa spesso non hanno la preparazione che potrebbero avere da una scuola seriamente intesa. Nella scuola non c’è niente di imprenditoriale né vi è cultura d’impresa, cioè non vengono offerti quegli strumenti ed un bagaglio culturale che consenta un domani di affrontare i complessi problemi di un’azienda.

Martini: Flessibilità e costo del lavoro sono le due condizioni che sono state sottolineate dagli interventi come condizioni necessarie, ovviamente non sufficienti, per affrontare la possibilità di creare nuove occupazioni. Viene naturale chiedere ad Alfiero Grandi, come rappresentante del sindacato, qual è il suo giudizio sulla possibilità di combinare questa sorta di paradosso, cioè da una parte non si può non andare verso un sistema più flessibile, non si può non cercare di abbassare il costo del lavoro, dall’altra non si può non salvaguardare la dignità e la continuità dell’esperienza lavorativa della persona, senza della quale non soltanto la persona perde la sua fonte primaria di sussistenza, ma il lavoro stesso non si sviluppa, perché senza continuità non si sviluppa neanche la capacità di lavoro.

Alfiero Grandi, sindacalista

Grandi: Comincerei col dire che il tema di oggi è suggestivo, ma andrebbe drasticamente ridimensionato perché del milione di posti di lavoro non c’è traccia, nemmeno come obiettivo, nel programma di governo. In realtà in un anno e mezzo abbiamo perso circa un milione di posti di lavoro e, secondo le previsioni del governo, nei prossimi tre anni ne recupereremo circa 350.000.

Come prima cosa ritengo che occorra una politica che, dal punto di vista delle risorse dello Stato, iniziative e proposte, e dal punto di vista anche delle iniziative imprenditoriali, promuova il nuovo. Come possiamo individuare il nuovo? La natura della ripresa che abbiamo di fronte a noi è fondamentalmente sui settori che già conosciamo, ad esempio il tessile-abbigliamento, con le loro potenzialità e con la loro capacità di affrontare il nuovo, ma nel suo insieme la base produttiva del nostro paese è inadeguata. Quindi, base produttiva, che richiede una politica che indichi a questo Paese quali sono i campi in cui intende buttare le proprie energie e la propria intelligenza.

Secondo: le misure che sono state indicate, sono quelle che ci possono consentire di affrontare il problema?

La flessibilità va distinta dalla precarietà. Certamente il futuro è fatto di un lavoro che nel territorio cambia, però innanzitutto bisogna creare il lavoro. Occorre anche chiedersi se gli strumenti che oggi abbiamo (prepensionamenti, cassa integrazione ordinaria e straordinaria...) sono adeguati e se, anziché pagare qualcuno per non lavorare, non debba essere aiutato e ricollocarsi nel mercato del lavoro. Il vero nodo è che ad un certo punto la società si rassegna a pagare uno perché non lavori o se ne vada prima, togliendo il disturbo, anziché cercare di ricollocarlo nel lavoro. Questa mi pare una contraddizione forte.

Ci vuole un fondo, un sistema che aiuti la riduzione dell’orario di lavoro, e un sistema contrattuale del sindacato che abbia l’obiettivo dell’adattamento della riduzione di orario alla grande varietà del lavoro oggi.

Ma ci potrebbe essere un meccanismo in cui la collettività aiuta la redistribuzione degli orari, cioè interviene a coprire la differenza tra il salario di oggi e il salario di domani a orario ridotto.

Non voglio sfuggire alla questione costo del lavoro. Col 30% di svalutazione si è ridotto di fatto il costo del lavoro in assenza di un incremento del salario reale e questo ci rende competitivi sui mercati internazionali. Circa la flessibilità mi chiedo: questo lavoratore che cambia la professione come arriva a questo risultato? C’è un aspetto che riguarda la formazione individuale, ma ce n’è un altro che riguarda i sistemi di solidarietà. Se si vuole la mobilità occorre un diverso sistema previdenziale che consenta di cambiare senza che "succeda nulla" e senza stravolgere quegli strumenti fondati sul senso di solidarietà che hanno creato le condizioni per una politica di ripartizione dei sacrifici.

La questione previdenziale, quindi, è molto importante proprio per garantire mobilità, flessione, cambiamento della forza lavoro, ma dobbiamo concentrare l’attenzione sulle prospettive dell’occupazione, sulla creazione di nuovi posti di lavoro.