Chi non lavora non fa rumore: requiem per l’occupazione?

In collaborazione con Unioncamere

 

 

Martedì 25, ore 11.30

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Relatori:

Luigi Mastrobuono, Segretario Generale di Unioncamere

Ivano Barberini, Presidente della Lega delle Cooperative

Antonio D’Amato, Vice Presidente della Confindustria

Sergio D’Antoni, Segretario Generale della CISL

Pier Luigi Bersani, Ministro dell’Industria

 

Mastrobuono: Unioncamere, l’Unione delle Camere di commercio italiane, ha deciso di promuovere questo ciclo di incontri sull’occupazione per un motivo molto semplice. Come pubbliche amministrazioni dedicate alle imprese, ci siamo resi conto che non serve più essere soltanto una pubblica amministrazione, ovvero soltanto gestire burocraticamente dei servizi per le imprese e per i cittadini. Ci siamo chiesti come, nel quadro di cambiamento complessivo che la pubblica amministrazione e il paese stanno avendo, possiamo trasformare la burocrazia in servizi, e quindi sostenere disegni di sviluppo: quindi il tema dell’occupazione è venuto tra i primissimi. Cosa abbiamo fatto per l’occupazione?

Anzitutto abbiamo studiato il problema; è risultato chiaro, dalle nostre indagini, che l’occupazione oggi in Italia vive dei paradossi, Il primo è scontato, è il fatto che ci sono imprese che cercano lavoratori in zone in cui non li trovano. Ma ci sono paradossi più profondi. Il saldo, per il biennio ‘98-’99, tra coloro che escono dal mercato del lavoro - riferito alle imprese fino a cento dipendenti - e coloro che entrano è un saldo positivo, essendo 260.000 le assunzioni che gli imprenditori stanno facendo. Il paradosso è che questi 260.000 sono assunti da imprese che hanno fino a dieci dipendenti: questo fenomeno della piccola impresa che riesce ancora ad assumere, che riesce a produrre posti di lavoro e ha un certo grado di competitività, è un dato importante. È un dato positivo, che andrebbe in qualche modo aiutato e favorito, sul quale occorrerebbe chiedersi quali coerenti politiche si possono mettere in atto perché questo processo di allargamento del mercato del lavoro si possa realizzare.

Un secondo paradosso riguarda invece l’indagine trimestrale sulla chiusura e la natalità delle imprese: ormai da tempo significativo il saldo è positivo, in Italia nascono molte più imprese di quante ne muoiano. Nel secondo trimestre del ‘98 il saldo è positivo per 30.000 unità e da 13 trimestri consecutivi, più di tre anni. Questo significa che nel Mezzogiorno esiste un tasso di sviluppo sotto la voce "nascita di nuove imprese". L’Unione Europea quando si è trovata a discutere di occupazione, ha infatti trovato rilevante, al punto da sottoporlo ai governi nazionali, il tema delle piccole imprese. Lo stesso patto di stabilità che tutti conosciamo come vincolo, di fatto è un patto di stabilità e crescita. Anche di fronte a questo secondo paradosso, occorre chiedersi come favorire ulteriormente questo fattore di occupazione.

Terzo paradosso: si parla molto di marketing, della capacità di attrarre imprese, investimenti sul nostro territorio. È risaputo che ci sono capitali in cerca di investimenti, ed è anche risaputo che ci sono altri paesi europei che hanno regole che attraggono più di noi investimenti. Ma voglio porre un problema che nessuno cita: credo che non siamo del tutto convinti, nel nostro paese, di voler fare una rivoluzione degli investimenti, perché fino a qualche anno fa, quando l’euro non aveva ancora cambiato le regole del gioco, portare un’impresa nel nostro paese era come portarsi un nemico in casa, crearsi un competitore fra le proprie mura domestiche. È un problema di cultura: le regole dell’euro ci fanno vedere la possibilità di uno sviluppo diverso, se siamo convinti di volere veramente attrarre gli investimenti.

L’ultimo paradosso è un il tema su cui ho sentito diverse volte il ministro Bersani intervenire: tutti i segnali ci dicono che in "Eurolandia" il livello locale ha molta più importanza e che quindi molte decisioni vanno trasferite a livello locale. A questo tema si collegano sia il dibattito fra Confindustria e sindacato sui livelli della contrattazione e su quanto essa dovrebbe essere centralizzata e localizzata, sia le questioni legate al tema del federalismo e del decentramento. Il problema è preparare il livello locale come gruppi dirigenti, ed è un problema molto serio non soltanto sul piano amministrativo ma anche sul piano di associazioni, di rappresentanza, di sindacato, di associazionismo dei consumatori.

Bisogna trovare delle iniziative, delle sedi per formare i gruppi dirigenti locali alle nuove regole del gioco, perché l’occupazione non si riesce più a fare con le grandi iniziative centrali. La preparazione dei gruppi locali è un tema che dovremmo mettere all’ordine del giorno, e le Camere di commercio possono essere una delle sedi di questa preparazione. Questi quattro paradossi sono infatti i quattro temi su cui le Camere di commercio oggi sono impegnate sul fronte dell’occupazione.

Barberini: Quando parliamo di lavoro, di disoccupazione, da una parte c’è l’incapacità di vedere le cause vere e curare i sintomi, dall’altra c’è la rassegnazione, il pericolo di un requiem per l’occupazione.

Non credo che si tratti di decretare, come qualcuno ha detto, la fine del lavoro, ma neppure di vedere la disoccupazione come una sorta di malattia che si possa curare all’interno del mercato del lavoro tramite un semplice riaggiustamento dei costi. La disoccupazione in Europa costituisce ormai un fenomeno di lungo termine, è diventata una situazione per la quale non si trovano vie d’uscita. Disoccupazione implica paura del futuro, è una caduta di standard di vita, un sacrificio di energia, di competenze e di creatività; spesso vuol dire povertà ed isolamento. Per questo creare lavoro è una priorità assoluta, è una sfida per tutti, ed è giusto che il giudizio sui governi sia basato sulla capacità che questi hanno di aiutare il lavoro e di ridurre la disoccupazione. È una responsabilità che però grava su tutte le imprese e le organizzazioni sociali: a tutti si richiedono sforzo di analisi e capacità di iniziativa, sapendo che ci troviamo di fronte a difficoltà enormi.

C’è un dato che ci conferma che le grandi imprese tendono a ridurre l’occupazione: la crescita infatti si è verificata e si verifica nelle piccole e medie imprese. Negli Stati Uniti le più grandi imprese dal ’79 al ’96 hanno diminuito gli occupati passando da 12 milioni di occupati a 11,5 milioni. Questo implica che il posto di lavoro è meno sicure che in passato ed anche che - negli USA come negli altri paesi anglosassoni - la robusta crescita di lavoro si è combinata con un’altrettanta robusta crescita dell’ineguaglianza. Il confronto fra i due modelli, quello europeo e quello dei paesi anglosassoni, mette in evidenza una correlazione piuttosto netta: il modello statunitense-anglosassone ha più occupazione ma più diseguaglianza, il modello europeo ha invece più uguaglianza e maggiore disoccupazione. La crescita della ineguaglianza costituisce una rottura del patto sociale e ha un forte impatto psicologico, anche di carattere sociale.

Siamo di fronte a una complessità di contraddizioni che vanno gestite tenendo sempre presente il bisogno di bilanciare economia e socialità, a cui non dobbiamo rinunciare. Si tratta da una parte di combattere le pigrizie conservatrici e corporative e dall’altra di diffidare di ricette facili o di formule miracolose. Occorre invece molta onestà intellettuale, occorre vedere le situazioni come sono, non come vorremmo che fossero in base a ispirazioni ideali o a prese di posizioni politiche. Per questo credo sia giusto auspicare e sviluppare un confronto di civiltà e di proposte chiare e comprensibili, ed evitare l’eccesso di polemiche: non è più tanto utile attardarci a darci l’un l’altro la colpa, bisogna discutere a fondo, ad esempio sul Mezzogiorno, mettere a fuoco gli obbiettivi. Oggi si discute moltissimo sui mezzi e pochissimo sulle finalità da perseguire, ma non può essere efficace una discussione che entri nel dettaglio degli strumenti e mantenga nel contempo la genericità degli obbiettivi. Il valore della concertazione è da ribadire e da riprecisare, evitando sia la pletora dei soggetti seduti ad un tavolo, sia un restringimento tale da non avere una rappresentatività vera degli organi sociali. Credo che non si debba porre l’accento sui trend non soddisfacenti in termine di crescita, perché siamo comunque in una condizione migliore di pochi anni fa per affrontare anche questi trend negativi.

I più gravi problemi da affrontare, maturati in un arco di tempo lungo, hanno radici antiche nella nostra società: le infrastrutture inefficienti e mal funzionanti, i servizi pubblici costosi e in gran parte inefficaci, la pubblica amministrazione con eccesso di regolamentazioni inefficienti, la formazione di ricette non a passo con i tempi, una convivenza civile compromessa dalla criminalità... c’è bisogno di politiche incisive, che si collochino in un arco di tempo medio. È importante partire bene e subito, prendendo misure che abbiano efficacia per rilanciare i problemi dell’occupazione. Bisogna, nel medio termine, muoversi per fare profonde riforme di struttura, liberalizzare settori come le telecomunicazioni, l’energia, i trasporti, il credito, settori troppo costosi e troppo poco in sintonia con le politiche di sviluppo.

Ci sono dei punti da tenere ben fermi, delle linee guida che possano aiutarci a trovare occupazione. Sintetizzerò le più importanti.

La prima di queste linee guida è di il principio che l’occupazione si fa creando imprese. È un fatto questo che può sembrare banale, ma è un capovolgimento delle politiche precedenti che hanno affidato il creare occupazione al settore pubblico.

Questa impostazione, pensare che l’occupazione si fa con l’impresa, chiama in causa anche un altro punto fondamentale: la scelta degli incentivi e dei sostegni per lo sviluppo del Meridione va fatta in modo selettivo, non in senso indiscriminato cercando di assecondare quel fenomeno di sviluppo a macchia di leopardo che ha caratterizzato il Mezzogiorno, con il sorgere di distretti industriali e con processi di ristrutturazione in aree di crisi o di risanamento di aree urbane. Questo comporta dei rischi ma è la scelta oggi più efficace, perché si basa sul seguire la crescita dell’impresa per la costruzione e la creazione di lavoro vero. Dare sicurezza colpendo la criminalità credo sia un elemento ancor più importante degli incentivi.

È cruciale affrontare il problema della sicurezza e liberare intere aree territoriali e attività economiche: la situazione di paura e di incertezza è un elemento pesante per la crescita di imprese, che contribuisce a rendere ancora più costoso il denaro per il rischio alto degli impieghi e a storcere la concorrenza nel mercato.

Bisogna rimuovere gli ostacoli burocratici amministrativi che soffocano le iniziative: questo è un problema che pesa moltissimo nel Meridione. Se da una parte la criminalità organizzata colpisce la crescita e la nascita delle imprese, l’inefficienza della pubblica amministrazione non facilita certo il loro sviluppo.

C’è un problema di emersione del lavoro nero che rappresenta una leva di fondo: se vogliamo creare lavoro vero dobbiamo anzitutto far emergere il lavoro nero. Abbiamo in questo un’esperienza passata, la legge 602, che venticinque anni fa è servita a far emergere il lavoro nero che era presente, ad esempio, nel facchinaggio o nelle pulizie.

Bisogna anche accennare all’importanza che ha un uso produttivo degli ammortizzatori sociali: la legge Marcora è in questo senso un’esperienza positiva, avendo prodotto oltre 5600 posti di lavoro, evitando la cassa integrazione per i lavoratori e spingendoli a fare impresa.

È importante creare nel Meridione un tessuto associativo. Uno studioso inglese che ha fatto una ricerca sulle differenze che esistono tra il Nord e il Sud dell’Italia, ha concluso che uno scarto negativo è dato dal fatto di quello che è successo in Emilia Romagna ed al Nord, ovvero la creazione di un tessuto associativo, nel Sud non si è creato.

Ci sono gli impegni delle maggiori cooperative ad intervenire in investimenti: nel Sud sono almeno 3.000 miliardi gli investimenti già previsti per i progetti, 10-15.000 posti di lavoro che si possono creare in tempi abbastanza rapidi; nel settore agricolo si potrebbero creare 9.000 posti di lavoro se il protocollo firmato con la Presidenza del Consiglio avrà i decreti attuativi necessari.

Ci sono migliaia di posti di lavoro da creare: c’è una modernizzazione nel settore distributivo che ha implicazioni non solo in chiave di occupazione ma anche di indotto, di sostegno e modernizzazione dell’industria. Un forte impegno lo dedichiamo alla promozione di imprese con esperienze e con risultati interessanti.

Infine, un dato al quale assegnamo un grande significato è la modalità con la quale praticare lo sviluppo cooperativo. La distintività cooperativa di comportamento non è un giudizio di valore rispetto ad altri imprenditori, ma il modo in cui noi intendiamo muoverci: rispetto dei diritti delle persone, attenzione alle garanzie sociali che vanno tutelate e assicurate, rifiuto dei favoritismi nell’assunzione dei servizi dei fornitori, offerte di pari opportunità, rigetto di pratiche collusive, trasparenza nella gestione di attività. Questo è il nostro codice di comportamento. Riteniamo che questo sia tanto più importante in una realtà come quella del Meridione, realtà che ha bisogno, oltre che di uno sviluppo economico, di un recupero di convivenza civile, quindi di un recupero di ordine sociale.

D’Amato: Cercherò di dare un’impostazione strutturale alla questione dello sviluppo dell’occupazione nel Mezzogiorno, non pretendendo di avere la ricetta ma cercando di uscire da un dibattito che negli ultimi due anni è stato contraddistinto da troppa sperimentazione, da molta demagogia e da molta rivendicazione "sindacal-politichese" da parte soprattutto di alcune forze che purtroppo sono in questo momento parte della coalizione di governo.

Vi sono due questioni su cui dobbiamo ragionare. Da un lato, oggi ci troviamo di fronte ad una competizione di cui molti parlano ma che tanti non sanno cosa realmente sia: chi opera sui mercati e soprattutto sui mercati internazionali sa che questa competizione è forte, continuerà a diventare sempre più forte e sempre più spietata, richiederà imprese capaci di competere con costi bassi e con prodotti sempre migliori, capacità di crescere con quote di mercato a livello internazionale. D’altro canto parlando di disoccupazione ci troviamo di fronte ad una questione fondamentale sulla quale oggi non si discute più, per la quale ancora mancano politiche vere di tipo strutturale. La disoccupazione è una questione del Mezzogiorno ma è anche la vera questione del paese. E il Mezzogiorno è al tempo stesso l’unica risorsa, l’unica possibilità di questo paese di crescere e svilupparsi per poter conquistare quote maggiori nello scambio internazionale.

Bisogna evitare mitizzazioni: questo è un paese nel quale per trent’anni ci siamo tutti convinti che "piccolo è bello", e abbiamo convinto molti imprenditori a rimanere piccoli, perché in questo modo aggiravano le rigidità del paese e le complicazioni del sistema, ed erano così più flessibili. Ma in un mercato che si apre, che diventa sempre più integrato, noi continuiamo ad avere un’industria "bonsai", che non è più capace di conquistare una posizione di leadership e quote di mercato significative negli scambi internazionali. Se noi vediamo quali imprese guidano i mercati del mondo non troviamo in nessun settore un’impresa italiana, molte in posizione di nicchia, ma nessuna con una dimensione tale da poter veramente rimodellare il mercato. Questa è una debolezza strutturale del nostro sistema, che consegue ad una politica che per molti anni ha costretto le imprese a rimanere piccole, perché le rigidità del sistema erano tali che crescere voleva dire complicarsi enormemente la vita e soprattutto la sopravvivenza. Per questa ragione il nostro paese sta perdendo la grande sfida dei prossimi anni: noi oggi abbiamo un mercato che vale 100 miliardi di dollari in Europa - 200.000 miliardi -, che sono gli investimenti esteri diretti fatti da imprenditori che investono in Europa al di fuori dai propri paesi nazionali. Da oltre dieci anni il nostro paese è l’ultimo nella classifica dei paesi che attraggono investimenti: abbiamo attratto circa 4.000 miliardi di investimenti esteri che sono prevalentemente acquisizioni di aziende per conseguire quote di mercato, spesso chiusure di stabilimenti produttivi e trasferimenti di produttività in altri paesi europei. La Gran Bretagna è da oltre dieci anni in testa alla classifica - l’anno scorso ha attratto circa 45.000 miliardi di investimenti -, vengono dopo la Francia, la Spagna, il Portogallo, la Danimarca, la Grecia... l’Italia resta ultima perché non conviene investire in questo paese. Non conviene investire perché noi abbiamo il più alto costo energetico, il più alto costo delle telecomuncazioni, il più alto costo della logistica: in un’Italia che ha voluto entrare per fortuna in Europa a testa alta abbiamo ancora le tariffe forcella che regolamentano per legge il costo del trasporto su tutto il territorio. Abbiamo il più alto tasso di rigidità del mercato del lavoro, abbiamo il più alto pugno fiscale tra salario netto, che è basso, e costo del lavoro, che è troppo alto, abbiamo la più grave imposizione fiscale.

Per rimediare a questa situazione, la strategia è quella di riposizionare il Mezzogiorno e l’Italia su questo mercato che vale 100 miliardi di dollari l’anno, neutralizzando questi gap competitivi e giocando i vantaggi che il nostro paese può offrire per attrarre investimenti. Questi vantaggi sono: nel Mezzogiorno grande disponibilità di manodopera, grande voglia di riscatto e grande capacità di lavoro; una politica industriale che finalmente funziona, salvo qualche contraddizione e di cui per primo ha il merito Bersani. L’azione per rilanciare gli investimenti e l’occupazione nel Mezzogiorno non può essere fatta di sperimentazioni, occorre invece un’azione seria per affrontare e sciogliere quei nodi strutturali che la Confindustria di Carli di venticinque anni fa chiamava lacci e lacciuoli, che oggi sono dei veri e propri nodi scorsoi che stanno impiccando l’economia del Mezzogiorno e stanno seriamente rallentando l’economia del Nord.

In un’Europa che finalmente ha messo un segno positivo di fronte al suo PNL e al suo PIL dopo anni di stagnazione, la capacità del nostro paese di crescere si blocca, perché questo peso competitivo è molto gravoso; per questo, ci vuole una politica di governo e una politica di legislatura, che questo governo potrebbe fare perché finalmente ha quella stabilità necessaria che tutti i governi precedenti non avevano. Eppure questa politica non la sta facendo: si tratta di metter mano seriamente alla criminalità, che non può essere un’alibi per un’investitore del Mezzogiorno, perché sono le imprese sommerse quelle che sono veramente esposte al rischio della criminalità. Le questioni della vivibilità e della criminalità sono precondizione per ogni forma di sviluppo e di investimento: ma sono anche problemi che si risolvono facilmente, è sufficiente decidere di aumentare la quantità e la qualità delle forze dell’ordine del Mezzogiorno. Bisogna che ci sia nella finanziaria una vera seria politica per lo sviluppo e per la sicurezza del Mezzogiorno.

Questi nodi strutturali vanno affrontati in una prospettiva seria di tre anni: come Confindustria abbiamo chiesto da un anno e mezzo di aprire un tavolo di confronto con i sindacati e con il governo, tavolo che poi si è arricchito di una quarta gamba, gli amministratori. Questo dà la possibilità di fare uno scambio molto semplice: il governo si occupa delle condizioni di quadro, crea le condizioni di mercato per il Mezzogiorno e per il paese, eliminando i gap competitivi; sindacati e Confindustria negoziano insieme flessibilità. Sarà vero forse che negli Stati Uniti o nei paesi anglosassoni c’è più diseguaglianza, ma quale uguaglianza c’è in questo paese quando noi ci troviamo con una intera fetta del paese e un’intera generazione che esce fuori da ogni possibilità di lavoro? C’è gente oggi che ha 40 anni e non ha mai lavorato in vita sua, e ha davanti a sé solamente tre possibilità: la criminalità, il lavoro sommerso o il vivere in famiglia. Il dramma delle famiglie del Mezzogiorno non sono i disoccupati organizzati e non sono neanche quelli che vanno a fare manovalanza criminale, sono le famiglie del ceto medio che continuano a vivere sulla pensione del padre. È un disagio sociale che nessuno vede, che nessuno legge, di cui nessuno sente, ma che chi vive nel Mezzogiorno sa che esiste.

Avevamo dunque proposto al governo e al sindacato un tavolo di confronto; abbiamo avuto diverse conferenze sul lavoro e sull’occupazione annunciate e rimandate, abbiamo avuto finalmente la convocazione di questo tavolo. Devo dire con molta franchezza che il tavolo è partito nel modo peggiore possibile, si è immediatamente spezzettato in tavolini tecnici, facendo così mancare la vera visione strategica della questione. È necessario che ci sia una politica di governo, è necessario che ci sia un impegno fermo del Presidente del Consiglio. Non vogliamo altri ministri per il Mezzogiorno, vogliamo invece fare in modo che lo Stato ordinario faccia uno sforzo di intensità straordinaria per rimettere in funzione tutte le leve della competitività del paese. Se questo accade tutto marcerà meglio e il Sud finalmente avrà gli investimenti e lo sviluppo di cui il Sud stesso si sa fare protagonista.

Abbiamo fatto come Confindustria un’indagine con la Doxa sulla propensione per gli investimenti del Mezzogiorno per i prossimi due anni: è emerso che chi oggi sta investendo nel Mezzogiorno è prevalentemente gente del Sud, e che chi non è del Sud investirebbe nel Mezzogiorno solamente se ci fossero serie riduzioni del costo del lavoro e serie riduzioni della pressione fiscale. Un terzo degli imprenditori italiani non investirebbe mai nel Mezzogiorno, perché non si fida degli impegni assunti dal governo. Ma c’è anche l’altro lato della medaglia: di fronte a circa 80-100 mila posti di lavoro previsti nei prossimi due anni nel Mezzogiorno, se si attiva flessibilità del mercato del lavoro - il che vuol dire libertà di ingresso e di uscita - se si attiva una riduzione del costo del lavoro, se si attiva una riduzione del prelievo fiscale arrivando a livelli di costo e di prelievo analoghi a quelli che ci sono negli altri paesi occidentali, il Mezzogiorno avrà dai 400 ai 500.000 posti di lavoro in più nei prossimi due anni. Questi dati suggeriscono che ci troviamo di fronte a un grande patrimonio di imprenditorialità di questo paese, a una grande voglia di investire anche nel Mezzogiorno, e soprattutto a una grande voglia di riscatto dei giovani del Sud; abbiamo però bisogno di avere finalmente quella politica strutturale che consenta al nostro paese di competere, quella politica senza la quale anche le imprese che sono sul mercato cominceranno a stentare sempre di più.

D’Antoni: Una riflessione generale sull’andamento dell’assetto complessivo nel nostro paese nel confronto con l’Europa e con il mondo è poco sviluppata: non c’è un vero dibattito, non c’è un necessario ed indispensabile approfondimento che possa portare ad aprire percorsi nuovi. Sono convinto che il cambiamento che abbiamo davanti sia veramente senza precedenti, e che le formule tradizionali, quelle che hanno caratterizzato anni di studi o di impostazioni, siano assolutamente inadeguate e insufficienti di fronte a questi cambiamenti globali. I soggetti individuali e collettivi debbono misurarsi con questi cambiamenti, ed essere in grado di portare un contributo positivo con un grande senso di responsabilità. L’andamento globale produce effetti in parte positivi ed in parte negativi, positivi perché si allarga lo sviluppo e miliardi di persone che non l’hanno conosciuto lo stanno conoscendo, negativo perché questo rischia di creare ulteriore diseguaglianze, ulteriori condizioni di emarginazione, ulteriori fasi di povertà. Le cosiddette formule tradizionali non sono sufficienti, né le formule liberiste del Fondo Monetario Internazionale, né le forme tradizionali stataliste o socialdemocratiche.

Se le formule tradizionali non sono sufficienti, quali nuove formule bisogna adottare? Qual è il rapporto nuovo fra istituzioni e società, qual è il tipo di esigenza che da questo nasce per determinare un cambiamento fondamentale? Quella che in altri paesi chiamano la terza via in Italia può avere un forte impulso dalla presenza sul territorio di grandi organizzazioni, che possono dare un contributo di responsabilità se vengono conosciute e aiutate in questo compito, e se la società diventa protagonista e assolve le istituzioni dal loro ruolo eccessivamente carico. In Italia purtroppo non si valorizza quello che c’è, e se uno propone il Forum sociale come aggregazione iniziale di organizzazioni cristianamente ispirate per fare in modo che si imponga una nuova capacità di protagonismo della società, viene replicato che si vuole solo creare un nuovo partito... ma i partiti sono già troppi, e quelli che abbiamo devono diminuire, specialmente se non si confrontano sul tema del rapporto tra istituzioni e società e sulla incapacità delle istituzioni di affrontare società sempre più complesse.

Questa sfida per noi in questi anni ha significato mettere in moto un processo di concertazione e di partecipazione per favorire un nuovo incontro tra capitale e lavoro. Per competere nel mondo con equità e per raggiungere risultati, occorre un patto, una politica in cui i soggetti principali, il governo, le imprese, le organizzazioni dei lavoratori, le organizzazioni che vivono nella società si incontrano, si mettono d’accordo sugli obiettivi, e assumono di mettere in moto comportamenti coerenti per il raggiungimento di quell’obiettivo. Occorre realizzare questo, altrimenti tutto viene affidato o ai singoli, con i rischi che sappiamo, o alle istituzioni, che non ce la fanno. In questi anni in Italia, grazie a un patrimonio che già esiste e alla capacità di organizzarlo, abbiamo sconfitto l’inflazione, abbiamo abbassato i tassi, e l’abbiamo fatto in anni difficili, mentre si sono succeduti cinque governi; siamo riusciti a mettere in moto questo grande progetto che ci ha portato in Europa. Se siamo riusciti a fare questo, dobbiamo valorizzare il nostro patrimonio.

Il 3 di maggio il Presidente del consiglio andò in televisione, per ringraziare, giustamente, tutti gli italiani per la conquista della moneta unica: li ringraziò tutti, la maggioranza, l’opposizione, i cittadini, perché lo sforzo è stato di tutti. Però, si scordò di ringraziare il sindacato e la politica di concertazione, e quando gli vennero chieste spiegazioni di questa omissione, rispose "è una dimenticanza". Ma dimenticarsi di una cosa così importante vuol dire non valorizzare l’elemento che è stato decisivo in questi anni; se lo è stato nella politica dei redditi, nell’inflazione, nel calo dei tassi, lo deve essere altrettanto nel lavoro; non si può competere con equità se queste due parti non diventano protagoniste autentiche del processo produttivo, se non finisce un modo di lavorare gerarchico per lasciare il posto a un altro autenticamente di squadra. Per fare tutto questo deve avanzare un dibattito, una cultura, un progetto; se anziché curarsi di questo, ci si cura di altro, delle preoccupazioni dell’andare avanti, del determinare comunque la stabilità - un modo di galleggiare anche senza far nulla, un modo di accontentarsi - non solo non avremo valorizzato il nostro patrimonio, ma lo avremo fatto sparire.

Non vorremmo sentire diminuire il prodotto interno lordo - il cosiddetto PIL -, che è di fatto la ricchezza su cui si determina la questione economica del paese. Tutti gli economisti ci spiegano che per avere un risultato positivo sul lavoro il PIL deve aumentare nettamente oltre il 2%, possibilmente vicine al 3%; se superano il 3% allora si mette in moto un vero processo di sviluppo e di occupazione. Questo agognato risultato a cui tutti noi abbiamo contribuito, finalmente in Europa si sta realizzando, tutte le economie viaggiano a ritmi di sviluppo attorno al 2,8-3% il che significa che finalmente hanno avviato una via positiva. L’Italia purtroppo fa eccezione: i dati finora disponibili dicono che nel primo trimestre di questo anno non raggiungiamo il 2%. Di fronte a questo dato negativo, ci si dovrebbe mobilitare almeno per cercare di vedere il problema: invece, i presidenti e gli uomini di governo intervistati dicono che va tutto bene... E anche se arriva poi la notizia che la grande impresa galleggia, che i livelli di disoccupazione, soprattutto nell’area meridionale, aumentano, ancora i presidenti dicono che va tutto bene... ma se a loro va tutto bene a noi non va assolutamente bene. Bisogna cambiare questa condizione, perché non può andar bene una cosa che non funziona; l’inghippo è nella mancanza di progettualità e di cultura, mancanza che si traduce nel raggiungimento di risultati scarsi. Una reale progettualità significa fare avanzare una politica di investimenti che abbia tre caratteristiche.

La prima è che tale politica si sposti verso i luoghi dove ci sono più disoccupati: è inutile continuare a fingere, tutti sanno che in Italia abbiamo zone a forte presenza occupazionale, quasi di piena occupazione, e zone con il 25-30% di disoccupazione. Non si può pensare di fare una politica uguale per punti di partenza così diseguali. L’Europa serve se riesce a fare coesione sociale, se accorcia le distanze; se noi però registriamo che in questo paese negli ultimi tre anni sono aumentate le distanze, bisogna mettersi all’opera per far funzionare diversamente il sistema. È una questione seria, non dobbiamo escludere nulla, dobbiamo cercare di rendere convenienti gli investimenti e la politica fiscale per chi va a investire nelle zone a forte disoccupazione.

La seconda caratteristica è la strada delle flessibilità contrattuali, la strada per cui nel lavoro il livello decentrato prenda importanza e determinazione: nei prossimi anni la contrattazione si sposterà sempre più sulle questioni di livello europeo, perché su di esse si farà la politica fondamentale per l’inflazione, e ci sarà così sempre di più la necessità di spostare sul territorio e sull’azienda il livello contrattuale. Ma tutto questo si può ottenere superando i livelli di contrattazione che oggi abbiamo: questo si deve accompagnare ad un avanzamento di una politica di concertazione che abbia un modello contrattuale flessibile. Questi obiettivi si possono ottenere nei contratti d’area e nei patti territoriali, tramite flessibilità specifiche. Dobbiamo fare avanzare questa linea di flessibilità, pur essendoci numerose difficoltà da affrontare; la questione fondamentale è la trasparenza, ed infatti il lavoro sommerso è la dimostrazione di una patologia che va superata. Sono meglio elementi di non chiarezza nel salario d’ingresso trasparente, che non elementi che costringono ad inseguire il sommerso con i contratti di gradualità, che altro non sono che salario di ingresso. Purtroppo secondo gli schemi ideologici di una parte della sinistra il salario di gradualità si può fare, invece il salario d’ingresso non si può fare.

La terza questione riguarda le infrastrutture. Da dopo Tangentopoli, tutto si è bloccato, come se per risolvere i problemi delle infrastrutture fosse meglio non mettere più una firma, non fare più nulla, così si è sicuri di stare tranquilli, e il Vicepresidente del Consiglio ha comunicato che la Milano-Genova ad alta velocità non si farà, che la Torino-Frejus-Lione non si farà... Tutto questo non va bene, nonostante le dichiarazioni di ottimismo dei soliti uomini di governo: c’è bisogno di una svolta, di una grande spinta.

Queste sono le tre caratteristiche che dovrebbe avere una reale politica di investimento. E c’è anche un’altra questione decisiva, quella della formazione: siamo partiti dall’innalzamento dell’obbligo a diciotto anni, siamo arrivati a sedici, forse ci accontentiamo di quindici... e si legge normalmente sui giornali che la laurea non fa trovare lavoro. Ma non bisogna che i giovani credano a queste notizie: nel terreno nuovo che noi affronteremo il sapere sarà fondamentale e solo il sapere farà la differenza. Ciò che impedisce un’autentica formazione è il diritto allo studio: oggi sulla formazione avviene il peggio della diseguaglianza, la diseguaglianza vera non è sull’avere, spesso è sull’essere. I figli degli imprenditori fanno gli imprenditori, i figli degli operai fanno gli operai, i figli dei medici fanno i medici, i figli dei colonnelli fanno i colonnelli... stiamo trasmettendo la cultura per ceto, per censo, che è quanto di peggio dal punto di vista della diseguaglianza ci possa essere.

Di fronte a questo, occorre una mobilitazione generale che ponga al centro lavoro e formazione: è quello che tocca a noi, alle grandi organizzazioni autonome che si misurano in questa società.

Bersani: Nel nostro paese il problema della disoccupazione coincide fondamentalmente col problema del Mezzogiorno; oggi, a differenza di un paio di anni fa, siamo in condizione di parlare di Sud senza problemi, di parlare di rilancio del Mezzogiorno e di nuove politiche per il Mezzogiorno.

Dobbiamo poter discutere in una chiave di concertazione: se devo riconoscere un limite - non l’unico, naturalmente - alla nostra compagine di governo, è quella di non essere riuscita sempre a tenere in equilibrio maggioranza parlamentare e maggioranza di governo. Se cadrà questo governo, non cadrà su una bega di corrente, cadrà su una capacità o meno di dare risposta soddisfacente ai problemi dello sviluppo e del lavoro: questa è una cosa nuova, che segnala un passaggio di civiltà. Non sono del gruppo di chi dice che tutto va bene, anche se per creare un clima di fiducia si cerca, giustamente, di sottolineare il positivo; ma non possiamo fare passi avanti senza guardare in faccia i problemi.

Se avessimo una bacchetta magica e una fata ci dicesse che possiamo realizzare un solo desiderio, credo che il desiderio dovrebbe essere qualcosa di cui non si è ancora parlato: toglierci i due milioni di miliardi e mezzo di debito, perché fin che noi avremo da pagare 40.000, 50.000. 60.000 miliardi all’anno, sarà difficile pensare di incassare qualcosa. Le nostre politiche devono tenere conto di questo: non illudiamo il paese e non illudiamo il Mezzogiorno, perché abbiamo davanti un percorso non breve. Questo percorso ci consegna nell’immediato due questioni: noi dovremmo riuscire in primo luogo a tenere tassi progressivamente crescenti, significativi di sviluppo; in secondo luogo, dovremmo cercare di fare in modo che questi investimenti si collochino là dove c’è da risolvere il problema, nel Mezzogiorno. Una parte del paese è dal punto di vista dell’occupazione ai punti alti dell’Unione Europea, l’altra, il Mezzogiorno, è in tutt’altro stato. Dobbiamo trovare chiavi di governo e chiavi di concertazione per arrivare nei prossimi mesi ad un rilancio degli investimenti, sia negli spazi consentiti degli investimenti pubblici - la finanziaria dovrà fare uno sforzo in questa direzione, non solo economico ma anche procedurale - e in particolare in quelli degli investimenti privati. Attraverso quali condizioni possiamo mobilitare una mole sufficiente di investimenti privati? Questo è il nostro primo problema: investimenti non solo per risparmiare lavoro, per diminuire il costo di lavoro per unità di prodotto, per migliorare l’efficienza delle imprese, ma anche per allargare la base produttiva, per ampliare le linee di produzione, per fare nuove attività produttive.

Come governo, stiamo prendendo una serie di misure; cercheremo di aggredire parzialmente già attorno alla finanziaria il tema della contribuzione. Dobbiamo discutere con gli imprenditori per aiutarli a compiere i famosi investimenti, anche al Sud. Non ci siamo trincerati dietro l’Europa, siamo invece andati a combattere per ottenere una proroga della sottrazione di contributi che altri governi avevano svenduto. Abbiamo tenuto gli uffici del Ministero dell’Industria aperti a lavorare fino al 15 agosto compreso, per mettere in banca le somme di chi investirà dal primo di settembre. L’abbiamo fatto perché ci aspettiamo che si crei quel clima di fiducia e di credibilità che non c’è mai stato. Chiediamo agli imprenditori che partano con altrettanta rapidità, la stessa rapidità che in quest’occasione ha dimostrato la burocrazia.

Sulle infrastrutture, cerchiamo di rimontare rispetto alla critica di D’Antoni: in questo senso è da notare che avevamo, ad aprile, 4000 miliardi per le risorse idriche per il Mezzogiorno, e fino ad oggi sono stati assegnati lavori per i primi 2600 miliardi; su 240 progetti per le risorse idriche sono già stati assegnati i lavori alle imprese per 160 di questi progetti. Faremo di più, ma scorciatoie miracolistiche non ci sono.

È il governo che deve stipulare le politiche, ma bisogna mettersi assieme tutti per riformare il paese. Riformare non è semplice: sono convinto ad esempio dell’importanza dei corpi intermedi, fra individuo e Stato ci vuole qualcosa di intermedio, ma si chiamano corpi intermedi anche gli ordini professionali, che talvolta impediscono di fare le società di professionisti, anche le strutture intermedie possono a loro volta burocratizzarsi e vivere sull’inefficenza del sistema che invece deve diventare efficiente. Quello che lo Stato deve fare sono le regole: allo Stato tocca liberalizzare o privatizzare, e questo non si può fare senza delle nuove regole. Come si fa a vendere l’ENI se non c’è ancora una regola di riforma? Bisogna creare nella società degli elementi di dinamismo e di regolazione statale: queste sono riforme profonde, come quella di trasferire al basso delle leve economiche. Anche questa è sussidiarietà: responsabilità diretta del cittadini, eliminazione di milioni di pratiche burocratiche, riforma dei corpi intermedi. Se vogliamo risvegliare l’economia dobbiamo abbassare i costi: emerge da tutte le tabelle che in Italia abbiamo dei sistemi di costi, per quel che riguarda alcuni servizi fondamentali, nettamente superiori rispetto a quelli europei. Rimediare a questo però significa scomodarsi in tanti, e dai luoghi più impensati vengono resistenze: sono disposto a sentire dire che l’Ulivo è statalista - nessuno è senza peccato! -, però non vedo in giro grandi liberalizzatori.

Sono tanti i problemi, ma in ultima analisi credo che il nostro problema strutturale principale sia la questione del rapporto tra risorse finanziarie e capacità di risorse imprenditoriali: c’è sempre stato il problema di trovare risorse per gli investimenti imprenditoriali. L’IRI fu inventato quando crollarono le banche che avevano tentato la soluzione alla tedesca. Oggi, giustamente, abbiamo mandato in pensione l’IRI che aveva ormai compiuto più di sessanta anni, ma purtroppo il paese non ha ancora l’ossatura e le spalle per affrontare questo problema. La colpa non è degli imprenditori, non si può pretendere che uno che sa fare bene l’imprenditore abbia anche tutti i soldi necessari per fare un salto. Noi non abbiamo ancora creato i meccanismi, non siamo né all’inglese né alla tedesca.

Chiudo con un esempio, partendo dai territori in cui siamo: le cose migliori che sono successe in questo paese non sono nate perché Roma ha deciso con una legge di fare gli asili nido o i centri per gli anziani o gli ospedali; le cose migliori sono partite da meccanismi di imitazione e di competizione che si sono sviluppati su scala locale. Se Reggio Emilia ha fatto una cosa, non poteva non farla Modena, e così via per Varese e Vicenza... Dopo si sono fatte le leggi regionali, dopo le leggi nazionali, perché il paese è fatto così; anche per lo sviluppo e l’occupazione noi dobbiamo offrire al Mezzogiorno aiuti e prototipi, sono buoni i meccanismi dello sportello unico o le procedure per attivare investimenti, ma bisogna specialmente cercare di creare dal basso dinamismi che peraltro già ci sono. Questa linea conta molto su un bricolage di soggetti intermedi locali, è una carta che possiamo giocare, che forse non abbiamo ancora giocato fino in fondo. Dobbiamo puntare su quello che già c’è, sui primi elementi di dinamismo, dobbiamo migliorare un percorso che ci siamo dati, accettare le sollecitazioni e la volontà di protagonismo e d’intervento; l’idea del miracolo e l’aggravarsi della sfiducia sono estremi che si toccano e che non portano a nulla.