Più società meno Stato

 

 

 

 

Martedì 26, ore 11.30

Relatori: Renato Brunetta, Luigi Mastrobuono,

Marco Martini, Docente di Economia del Lavoro Segretario Generale di Unioncamere

Ordinario di Statistica Economica presso la Seconda Università Giovanni Mauro,

presso l’Università degli Studi di Roma e Membro del CNEL Presidente della Provincia di Ragusa

di Milano

 

 

 

 

Martini: Vorrei sviluppare il mio intervento in quattro punti: che cosa è la società; quale è il ruolo dello Stato rispetto alla società; perché il rapporto società e Stato in Italia è squilibrato e che cosa si può fare per riequilibrarlo.

Partiamo dal primo punto: la società, societas, è il risultato di un patto tra persone che perseguono insieme e liberamente il tentativo di dare risposte ai bisogni propri o altrui. Un esempio classico sono le università, nate nel Medioevo come patto tra studenti e professori per realizzare un obiettivo comune. Nel momento in cui queste societates sono tante, bisogna dar loro una regolamentazione.

Le persone in azione che cercano di dare risposta ai loro bisogni costituiscono innanzitutto imprese, luoghi stabili per la produzione di valore, orientati alla distribuzione del risultato dei profitti che si conseguono a coloro che hanno partecipato a questa produzione in diverse forme. Ma le persone danno vita, come seconda modalità, anche ad organizzazioni che hanno come finalità quella di soddisfare o di tentare di soddisfare i bisogni educativi, culturali, assistenziali, di salute e così via: si tratta di organizzazioni non profit. La lunga storia delle organizzazioni non profit – nate circa mille anni fa sullo slancio di gruppi di persone che intendevano dedicare i loro sforzi e le loro risorse al soddisfacimento di queste risorse stesse – è una storia più antica di quella dello Stato.

In terzo luogo il patto tra le persone può essere un patto finalizzato a realizzare il soddisfacimento di mutui bisogni: sono le società mutualistiche, società che nascono per soddisfare i bisogni dei partecipanti. Tipiche società mutualistiche sono le società di mutuo soccorso, i sindacati – almeno nella loro originaria impostazione –, la Compagnia delle Opere. Infine – anche se non è certo alla fine della società o di un eventuale ordine di importanza – la società sono le persone che si mettono insieme per realizzare un luogo di generazione e di educazione di altre persone, la famiglia.

Questa è la società: il mettersi insieme di persone in imprese, in organizzazione educative, culturali e assistenziali, in organizzazioni mutualistiche, nella famiglia. E la società nasce dalla iniziativa libera delle persone in azione, libera perché i bisogni a cui si vuole rispondere non sono mai conosciuti esaustivamente. Quindi, la libertà è essenziale perché il tentativo di risposta al bisogno sia un tentativo adeguato.

"Organizzazione" significa il mettere in comune risorse umane, finanziarie e fisiche; in una società complessa e mutevole come quella in cui viviamo è impossibile che un’organizzazione permanga in vita senza il proficuum. Senza proficuum nessuna organizzazione può rimanere in vita in un contesto mutevole come il nostro. È come lo scambio energetico tra organismi biologici; un organismo biologico che nello scambio con l’esterno andasse in pari morirebbe, deve avere un surplus che gli consenta di affrontare il nuovo, l’imprevisto. Il profitto è la differenza tra il valore di ciò che si è prodotto e il valore di ciò si è usato per produrlo; è necessario alla sopravvivenza e allo sviluppo, perché un’organizzazione non sopravvive se non si sviluppa.

A differenza di quanto normalmente si pensa, il profitto non è una categoria che riguarda soltanto le imprese che agiscono sul mercato, ma è una categoria che riguarda qualsiasi organizzazione sana. La differenza tra profit e non profit è semplicemente dovuta al fatto che mentre le imprese profit distribuiscono i loro profitti a coloro che hanno apportato il capitale necessario per la realizzazione dell’impresa stessa, le organizzazioni non profit si impegnano a non distribuire questi profitti ma a reinvestirli per le finalità sociali, culturali, educative che si sono date. Queste diverse finalità corrispondono alla tripartizione che il diritto americano fa delle organizzazioni produttive: infatti in America si prevede l’esistenza di non profit public, ovvero non profit che realizzano risposte a bisogni generali – educazione, cultura, sanità, assistenza –; non profit mutual, che realizzano invece il soddisfacimento di bisogni dei partecipanti – la società degli scacchi, della pesca, la società italiana di statistica, il sindacato...-, non profit religious che riguardano gli scopi religiosi.

Se questa è la società, che cos’è lo Stato? I romani chiamavano lo Stato res publica, cosa pubblica, in contrapposizione dalla res familiae, la cosa della famiglia. Veniamo ora alla seconda questione: il ruolo dello Stato nei confronti della società. La res publica è necessaria alla società: non esiste una società senza Stato, è una illusione poter pensare a una società senza Stato. Alla società è infatti necessario un ordinamento specifico, ciò che i greci chiamavano nomos, che voleva dire contemporaneamente il confine della città – quindi le mura che la difendevano – e la legge. Senza un ordinamento oggettivo, la pluralità delle iniziative della società non può sopravvivere, perché inevitabilmente il più potente tende a soffocare il più piccolo o il nascente. Lo Stato è dunque necessario per difendere la societas contro il nemico esterno e per difendere i più piccoli dalla sopraffazione dei più grandi.

Per quanto riguarda l’aspetto economico della questione, il ruolo dello Stato sta innanzitutto nel riconoscere e garantire la società, e in secondo luogo nel combattere la prevaricazione del più potente sul più debole. La società non ha questa capacità di difendersi dalla prepotenza del più forte: basti pensare a un imprenditore di successo, che non vuole certo la concorrenza. La prevaricazione del più forte è inevitabile senza una polis, una autorità politica che riapra costantemente le porte di accesso alla piazza del mercato. Il mercato aperto a tutti non è un dato di natura, è una istituzione di giustizia e nel contempo è la giungla – come vediamo si sta avverando nei paesi dell’Est dove, crollato lo Stato, non è nato il mercato ma la mafia –: per questo, ci vuole in sistema politico che garantisca giustizia. Che cos’è la giustizia? Simon Weil diceva che la giustizia è una bilancia: quando le forze in campo sono le stesse è un fatto meccanico, la giustizia interviene invece quando le forze in campo non sono le stesse. La virtù della giustizia è trattare il più debole come se fosse uguale, e l’obiettivo fondamentale della giustizia è mettere il più debole nelle stesse condizioni del più forte, almeno tentativamente.

Il mercato è dunque una istituzione di giustizia che fissa pesi, misure e regole d’accesso, che consente a tutti di accedere, che garantisce il più debole contro la prevaricazione del forte, che combatte il monopolio – nemico per eccellenza della giustizia – privato o pubblico che sia. Compito dello Stato è combattere il monopolio per realizzare la giustizia, la possibilità per tutti di intraprendere tentativi di risposte a bisogni con modalità e realizzazioni pluralistiche. Purtroppo – e mi preme sottolinearlo – una cultura falsa, propagandata a piene mani da un liberismo semplicista, considera il mercato come uno stato di natura: lasciate che le cose vadano per conto loro e si realizzerà il meglio. Ma questo non è vero: se si lasciano andare le cose per conto loro, l’unico risultato è che il pesce più grosso mangia il pesce più piccolo.

Perché il rapporto tra società e Stato in Italia oggi è squilibrato? Perché lo Stato di fatto si impadronisce del prodotto della nazione e lo distribuisce secondo il suo razionale intendimento, senza riconoscere che prima ci sono compiti di natura sociale, compiti che la famiglia, l’impresa, le organizzazioni non profit tentano di assolvere. Al posto della tassazione, ci vogliono le detrazioni e deduzioni fiscali, che non possono venire realizzate (come invece avviene oggi) in virtù del principio delle tassazioni, secondo il quale lo Stato non è un ordinamento oggettivo ma un soggetto dotato di una capacità di conoscenza informativa e decisionale, un soggetto che conosce tutti i bisogni di tutti i cittadini, e che per ciò può graduare per 50 milioni di cittadini lo stato di bisogno relativo e quindi distribuire secondo questo stato di bisogno tutto il reddito prodotto dalla società. Lo Stato oggi preleva tutto ciò che viene prodotto fino al mese di luglio per poi redistribuirlo secondo la logica razionale della sua infinita capacità di conoscenza dei bisogni dei suoi cittadini. Questa è l’idea orientale dello Stato soggetto, dello Stato monarca, dello Stato uomo, dello Stato idolo, idea che già combattevano i greci e successivamente anche i cristiani del Medioevo hanno combattuto.

Il risultato di questa concezione dello Stato come soggetto e non come ordinamento oggettivo, concezione oggi prevalente, è un mercato dimezzato: in Italia non esiste il mercato se non per il 30% delle transazioni, per il resto siamo in un regime di monopolio pubblico o privato, dalle poste all’automobile, dai telefoni alle macellerie... siamo in una situazione di monopoli protetti, corporazioni protette a tutti i livelli. È il contrario della libera concorrenza, il concorso di tutti nel tentativo di dare risposta al bisogno. Per questo in Italia il non profit è "dimezzato", e il concetto stesso di organizzazione non profit è da ricostruire faticosamente all’interno delle normative vigenti.

Cerchiamo ora di comprendere come mai siamo arrivati a questo risultato. La nostra Costituzione repubblicana è l’esito di tre componenti: quella azionista giacobina – che aveva nei suoi geni l’idea di Stato onnipotente capace di interpretare gli uomini meglio degli uomini stessi, idea espressa ad esempio da Jean Jacques Rousseau nella sua volonté general –, la componente vincente; la componente socialista-marxista – che vede lo Stato come strumento per la formazione della società –, che pur non riuscendo a vincere ha comunque introdotto i suoi contenuti; la componente cattolica, che è stata equivoca perché da un lato ha giustamente difeso la priorità della persona e delle formazioni sociali, come si legge nell’articolo 2 della Costituzione, ma dall’altro lato si è lasciata prendere – soprattutto nella prassi ma anche nel redarre la Costituzione – dall’illusione che i cattolici governando lo Stato avrebbero cristianizzato la società. Esempio di quest’ultima illusione è una televisione di Stato controllata dai cattolici, l’ideale per cristianizzare la società, il cui esito è sotto gli occhi di tutti. Anche quando don Sturzo fece la battaglia per impadronirsi dell’I.R.I. struttura creata dal fascismo e dall’idea dello Stato onnipresente nell’economia, aveva l’illusione che controllando questa struttura si sarebbero realizzati gli obiettivi cattolici. Ma gli obiettivi cattolici non si realizzano con il potere statale.

Come si può riequilibrare questo rapporto società-Stato, squilibrato fin dal sorgere della nostra Costituzione? Sono tre gli aspetti su cui ci si deve battere.

Anzitutto, un concetto di razionalità adeguato. La ragione non è illimitata, non è capace di conoscere tutti i bisogni dell’uomo, perché se i bisogni dell’uomo sono senza limiti, nessuna ragione, tanto meno quella dello Stato è in grado di descriverli e contenerli. Se fosse vero che c’è una ragione così, avrebbe avuto ragione Hegel nell’affermare che lo Stato è la massima realizzazione della ragione; ma, siccome una ragione così non esiste, lo Stato così concepito è una menzogna. Bisogna in secondo luogo combattere per un concetto adeguato di Stato: non bisogna abolire lo Stato, bensì fargli fare il suo ruolo di realizzatore del commercio; se non ci fosse stata la Comunità Economica Europea noi non avremmo neanche quel parziale adeguamento al mercato che oggi a denti stretti e obtorto collo i nostri politici e i nostri imprenditori hanno dovuto subire.

In terzo luogo, occorre riguadagnare una concezione della persona e della libertà: per avere una passione positiva per il tentativo continuo di dare risposta ai bisogni degli uomini, ci vuole un motivo. L’uomo non si mette in azione senza un motivo, e infatti la carenza di motivi è il punto più critico della nostra società.

 

 

Brunetta: Voglio porre una domanda ancora più radicale di quella che riguarda la nascita della società. Perché – restando negli esempi delle università già prima menzionati – la prima università è nata proprio a Bologna e non a Padova o a Cambridge? Perché proprio in quel momento e proprio a Bologna? Qual è stato il catalizzatore?

Ci sono degli elementi visibili – reddito, ricchezza, intelligenza, persone – e ci sono degli elementi invisibili nella formazione delle società civili. Di due imprese del tutto uguali per dotazione di capitale, di macchinari, di tecnologie, per quantità di addetti, per impiegati, management, una funziona e l’altra no. Di due imprese che producono gli stessi bulloni, gli stessi torni, lo stesso servizio, una funziona e l’altra no. E come le imprese anche le famiglie, o le amministrazioni, gli uffici pubblici e così via.

Evidentemente ci sono degli assets – così direbbero gli economisti – che in una impresa ci sono e in un’altra no, che in una società o in una famiglia ci sono e in un’altra no: questi assets invisibili sono detti anche beni relazionali, e bisogna riconoscere il loro peso di catalizzatori. È come nei processi chimici: ci possono essere tutte le sostanze, se però non c’è il catalizzatore il composto non viene fuori; il catalizzatore di volta in volta può essere un’altra sostanza, o la temperatura, o la pressione. Bisogna dunque chiedersi come funzionano i catalizzatori e, una volta capito questo, se è possibile produrli artificialmente. In questa maniera, si capiscono i processi e, dal punto di vista costruttivistico, si è in grado di dire se è possibile produrli artificialmente.

È possibile produrre quel catalizzatore per eccellenza che è la società civile? Quando noi diciamo "più società meno Stato" implicitamente ammettiamo che sia possibile produrre più società. Normalmente la società civile è il prodotto dello Stato: quando in un luogo manca società civile e quindi manca sviluppo, profitto, si prende una parte della spesa pubblica e si producono dei beni pubblici – ponti, strade e così via – , sperando che attraverso questi beni pubblici arrivino investimenti privati, in maniera tale da innestare la crescita. Il circolo spesa pubblica, beni pubblici, investimenti privati, imprese fa imprenditoria, fa sviluppo, e dunque fa società civile.

Questo a volte funziona, a volte no: nel nostro Sud non ha funzionato perché quasi mai vi è la situazione ottimale della tabula rasa: quasi sempre c’è già una società, anche se spesso incapace di svilupparsi. Nei sistemi associati possono infatti prevalere le devianze, e i beni relazionali possono essere anche dei mali relazionali.

Se in un’area prevalgono i mali relazionali, ovvero quella parte di società civile antagonista allo sviluppo, quale è il risultato dell’investimento pubblico? Rafforzare la società antagonista. È esattamente quello che è successo nel nostro sud, in cui la spesa pubblica – che aveva buone intenzioni per fare sviluppo e beni relazionali, per fare società civile – ha rafforzato il cancro che in quella società permaneva.

L’esito di questo è che non basta più pensare di rafforzare o fare sviluppare la società civile in maniera indiretta – attraverso la spesa pubblica –, ma occorre verificare se è possibile produrre direttamente società civile. Questa è la scommessa di tanta teoria dello sviluppo oggi, ed è uno dei problemi più difficili e raffinati della moderna programmazione economica.

Una strategia del genere richiede un’enorme capacità di cultura e di amministrazione, di regole, di nomoi, di perimetri. E occorre tanta pazienza, e anche tante risorse. Un esempio è quello dell’ordine pubblico.

L’ordine pubblico, è una delle componenti fondamentali dei beni relazionali: se c’è ordine pubblico condiviso, l’intero sistema può funzionare, se non c’è ordine pubblico le cose vanno male. L’ordine pubblico non è altro che una sommatoria di comportamenti efficienti fisiologici, controllati quanto basta. Sarebbe facile fare ordine pubblico mettendo un soldato davanti a ogni incrocio o cabina telefonica, che controlli violentemente il territorio: ma quello non è ordine pubblico, è militarizzazione. L’ordine pubblico è quando un sistema fisiologicamente evolve e si autocontrolla, rispettando le regole.

L’ordine pubblico è classificabile come un insieme di funzioni o di comportamenti, che possono essere devianti o corretti. Per ogni funzione è possibile calcolare il punto di autocontrollo. Non si può mettere un vigile ad ogni incrocio, bisogna invece investire ed educare la gente a portare il livello di autocontrollo ad un punto tale da produrre un’autoregolazione del sistema. L’investimento che si deve fare in una società civile nel rispetto delle regole è quello di trovare per ciascuna possibile devianza il punto di flesso, cioè il punto al di sotto del quale il fenomeno della devianza si azzera da solo.

Tutto questo significa investimenti, ma non investimenti in beni pubblici astratti, bensì in cultura. Occorrerebbe che l’investimento pubblico strutturale fosse accompagnato da pari investimenti in capitale umano, in scuola, regole, comportamenti associati favoriti, stimoli alla formazione di societates che sappiano innervare il tessuto e il territorio.

 

 

Mastrobuono: Il disallineamento di società, economia e istituzioni, è uno dei modi di leggere il grosso disagio che oggi c’è nei confronti delle istituzioni, soprattutto da parte del mondo economico: il fatto di non riscontrare nelle istituzioni un sistema di regole che consentano all’economia di ottenere i suoi obiettivi e di rispondere ai problemi che si trova ad affrontare. Allineare queste tre realtà è dunque cruciale. Questo allineamento, nella Costituzione che è stata scritta cinquanta anni fa, partiva da presupposti completamente diversi da quelli di oggi. Quando è stata scritta la Costituzione italiana, in Italia esistevano circa 700.000 imprese: oggi presso le Camere di Commercio sono censiti 5.500.000 imprese. Quando è stata scritta la Costituzione il concetto di mercato era un concetto ben diverso e ancora molto immaturo rispetto a quello che è oggi. Anche il concetto di impresa era diverso: la Costituzione sostanzialmente non conosce l’impresa. Sono esempi di concetti che invece l’Europa ha messo nei suoi tentativi di Costituzione europea: per questo, parlare oggi di mercato, di impresa, di consumatori all’interno dell’Unione Europea ha un certo significato. Quindi, abbiamo non solo un disallineamento delle istituzioni dell’Italia rispetto alla realtà economica italiana, ma anche un disallineamento rispetto a quanto è maturato all’interno dell’Unione Europea.

Il problema del disallineamento è d’altro canto molto serio per la nascente Europa: gli Stati infatti sono organizzati in modi molto diversi. Perché sia possibile "riallineare" è indispensabile tener presente e operante dal punto di vista economico e sociale il concetto di sussidiarietà. Questo concetto viene letto in modi molto diversi in Europa: ad esempio, il trattato di Maastricht usa il concetto di sussidiarietà come un rapporto tra fonti normative; la versione tedesca della sussidiarietà è invece un rapporto territoriale; in Italia il concetto di sussidiarietà (nato in ambiente cattolico per difendere l’autonomia del privato dai totalitarismi, e quindi per sostenere l’autonomia dell’organizzazione privata) è stato introdotto nella legislazione quest’anno. La prima legge che parla del principio di sussidiarietà è infatti una delle due leggi Bassanini, che arriva a ricomprendere nel concetto di sussidiarietà anche i concetti di famiglia, di associazione, di rapporto dell’impresa con l’amministrazione. La legge Bassanini ha in sostanza introdotto un forte concetto di sussidiarietà; ulteriormente, il testo della Bicamerale che è stato mandato al Parlamento per la discussione, contiene un aspetto rivoluzionario. Nel testo attualmente in vigore nella Costituzione si prevede che lo Stato intervenga nell’economia per disciplinarne gli orientamenti e per ottenere degli obiettivi. Il nuovo testo della Bicamerale afferma invece che lo Stato deve intervenire soltanto là dove l’organizzazione privata non arriva: è il capovolgimento del concetto. Il concetto di sussidiarietà viene visto come fondamento del nostro ordinamento: il privato si organizza, gestisce delle funzioni e lo Stato interviene dove il privato non può arrivare. Questa interpretazione della sussidiarietà è importante e positiva, perché è l’affermazione di un’autonomia, un’autonomia che si organizza a livello del privato. Non è un fatto casuale: chi ha scritto quell’articolo del testo della Bicamerale ha riconosciuto che nel nostro paese c’è stato qualcosa di importante che ha mantenuto in qualche modo un rapporto tra economia, società civile e istituzioni, impedendo che il disallineamento diventasse frattura totale.

Si tratta di un passo essenziale, perché è il riconoscimento di tutto quello che si è organizzato tra lo Stato e il cittadino. Un disegno costituzionale che riconosca tra Stato e cittadino una ampia fascia di soggetti intermedi, di autonomia dei privati e di Costituzione pubblica, serve a riallineare e quindi a rendere rapidi i cambiamenti normativi e le decisioni rispetto all’economia e alla società civile.

Il processo della Bicamerale ha inserito un elemento importante che può cambiare i rapporti e che incide sia sui privati e la loro organizzazione, sia sugli enti e le autonomie locali (province, regioni, comuni, Camere di commercio...), perché interpretino i cambiamenti dell’economia e della società civile per dare delle risposte rapide.

Da qui deriva immediatamente la necessità di scelta per tutti i soggetti istituzionali e privati, tra un approccio statalista e un approccio realista. Tre esempi aiuteranno a capire la differenza tra questi approcci.

Nel caso del lavoro l’approccio statalista consiste nel prendere delle misure perché a breve termine si riduca il più possibile il numero dei disoccupati; in parte è un meccanismo positivo, ma sostanzialmente con questo intervento calato dall’alto il problema dell’occupazione viene risolto solo in modo parziale. L’approccio realista invece sa che ciò che produce posti di lavoro è una vera competitività tra imprese. La soluzione statalista non è soltanto quello di chi attualmente governa, ma è anche del sindacato e di tutte le associazioni di categoria.

Il secondo esempio è il decentramento. La stessa spinta di Bassanini a decentrare le funzioni amministrative sul territorio può essere interpretata in modo statalista, creando a livello di regioni e di province una nuova forma di statalismo e di centralismo, oppure invertendo, in base al concetto di sussidiarietà, il principio e la modalità di esecuzione dell’amministrazione. Per un cittadino, che il centro statalista sia Roma, o il capoluogo di regione, o il capoluogo di provincia o persino Bruxelles, non fa differenza. Un concetto diverso è invece quello realista, per cui il cittadino deve risolvere il più possibile il suo problema, prima con la sua autoorganizzazione e poi nel soggetto istituzionale più vicino a lui, che possa rispondere completamente al suo problema senza che egli debba fare una trafila di ordini sovracostituiti e di passaggi burocratici.

Il terzo esempio è quello della semplificazione: nel rapporto tra Stato e cittadino – nel fisco, nel mercato del lavoro – si è costituita infatti una grossa fetta di mercato di intermediazione, una fascia di lavoratori autonomi – commercialisti, ragionieri, associazioni di categoria – che aiutano il cittadino nel suo rapporto con lo Stato. Tutta questa fascia di intermediazione, che non può certo essere cancellata, ha bisogno di riorganizzarsi completamente, e lo può fare solo se lo Stato diventa più semplice.

Questi tre esempi comportano una riorganizzazione sia culturale che economica: se questa riorganizzazione manca, non usciamo dal disallineamento tra economia, stato civile e istituzioni. Le battaglie che dobbiamo portare avanti si svolgono nel territorio, nelle professioni, sul campo del lavoro, non soltanto discutendo la Bicamerale. Devono essere battaglie quotidiane nel lavoro, quindi ci deve essere una guida in queste battaglie e in questo cambiamento.

Chi ha la forza di guidare il cambiamento? Innanzitutto il processo culturale, una sorta di pressione culturale che è molto lento e che deve avere una avanguardia di "illuminati". La seconda strategia consiste nel riuscire a portare avanti questioni più concrete – come la concezione di mercato di cui abbiamo parlato – di quelle apparenti strillate sui giornali: la continuità dell’iniziativa è fattore essenziale al cambiamento. La terza ed ultima strategia è il lavorare nel cambiamento nel confine con le istituzioni: l’esperienza delle Camere di Commercio è in questo senso un tentativo di dire ai privati di venire a gestire un soggetto pubblico.

Se tutto questo diventa un circuito virtuoso, si possono riallineare almeno quanto basta economia, società civile e istituzioni; se però si resta nel circolo vizioso, il disallineamento è senza speranza e diventerà sempre più frattura, perché vinceranno forze che condizioneranno ancora questi processi viziosi.

 

 

Mauro: Rappresento qui l’ente locale, l’autonomia locale, ed anche il luogo di questa autonomia, il luogo dove svolgo il mio lavoro di amministratore: Ragusa, la provincia più a Sud di Italia, che sviluppa la propria vita e la propria azione nel contesto della Regione siciliana.

Partirò da quest’ultimo dato di fatto, la mia provincia. In Sicilia le provincie sono diverse dal resto d’Italia. In Italia abbiamo tre tipi di provincie: quelle assolutamente autonome, come Bolzano, quelle semi-autonome a statuto speciale – cui sono attribuite delle deleghe particolari in attuazione di quel principio di sussidiarietà di cui parlava Mastrobuono –, e infine le provincie "rimanenti" che non hanno ancora una identificazione esatta e di conseguenza un ruolo pregnante, e che per questo sono morte nel cuore della gente perché la gente non vede in questo tipo di istituzione una capacità di sintesi.

Sono così passato al secondo punto che mi sta a cuore: l’individuo e la sua libertà. Chi può scegliere i processi se non la gente? E come la gente sta vivendo queste trasformazioni di cui parliamo? Come vive il disagio comune Nord-Sud? Esistono davvero un Nord e un Sud, una contrapposizione di interessi, di pesi, di società? Nord e Sud sono categorie che sono state create o sono dei fatti esistenti del paese?

Al di là delle degenerazioni di Bossi, io avverto il disagio della cosiddetta gente del Nord-Est, perché la vivo io che sono nel Sud-Est. La mia provincia ha raggiunto in tre anni dei livelli di disoccupazione notevolissima, con un tasso del 11.4%, al di sotto della media di disoccupazione nazionale. Ma il prodotto interno lordo è pari a quello di Rovigo o Ferrara, che producono per la collettività nazionale, pagano le strutture nazionali e non hanno una capacità in termini di servizi, di infrastruttura, di vivibilità paragonata all’impegno da loro profuso nella realizzazione di questa societas. Non è vero che più a Sud vai più disoccupazione trovi, più incapacità di costruire, più volontà di assistenzialismo: la realtà è che un tessuto imprenditoriale stimolato adeguatamente sviluppa una capacità produttiva, se invece il tessuto non è stimolato produce la situazione del nostro Sud.

Hanno parlato di me come il Bossi del Sud perché avevo detto provocatoriamente che bisogna andare verso il concetto di città-stato, cioè del territorio che si interroga e si programma: occorre individuare quegli elementi catalizzatori del territorio stesso che riescono poi a trasformarsi in lievito per l’economia e la società. Non ho mai voluto la secessione: a chi serve la secessione se non a qualche grosso gruppo industriale? A chi serve spaccare il Paese? Perché mai un soggetto dovrebbe privarsi di un vantaggio economico? L’Italia unitariamente intesa nel suo sforzo verso la propensione e l’integrazione europea, è un vantaggio per tutti, in primis per gli imprenditori siciliani. L’imprenditore siciliano infatti – potrà sembrare strano – esiste: assomiglia esattamente all’imprenditore veneto o padano, perché come lui decide su qualsivoglia questione, risponde di sé e della sua impresa, mostra la stessa reattività rispetto ai fenomeni sociali ed economici.

La ricetta per questa rinascita del tessuto sociale, se di ricetta si può parlare, è che la gente che vive in un dato territorio sia posta in condizione di poter esprimere e determinare se stessa, prima ancora che dal punto di vista del semplice contenuto economico, da quello della organizzazione stessa dei servizio.

Il desiderio è quello di una politica nazionale che vada verso l’integrazione dei processi dell’economia, processi cui si accompagnano sempre i processi sociali dello Stato e del popolo.