EDUCARE PER COSTRUIRE. CICLO DI INCONTRI PROMOSSO DALLA COMPAGNIA DELLE OPERE

Città, regioni, Europa:
è la fine dello Stato?

In collaborazione con Unioncamere

Giovedì 26, ore 18.30

Relatori:

Roberto Formigoni,
Presidente Regione Lombardia

Enzo Ghigo,
Presidente Regione Piemonte

Giancarlo Galan,
Presidente Regione Veneto

Giorgio Guazzaloca,
Sindaco di Bologna

Danilo Longhi,
Presidente Unioncamere

Formigoni: La prima scelta che come amministrazione regionale lombarda abbiamo fatto è stata una scelta non ideologica: la scelta per il primato e per il protagonismo, del cittadino o meglio delle persone in carne ed ossa, gli uomini, le donne, gli anziani. L’azione non è contraria allo Stato, ma in antagonismo a quella forma concreta che lo Stato ha assunto in Italia. Si tratta di un paese che non funziona, che ha messo nell’angolo le persone, che ha messo nell’angolo le formazioni sociali dentro le quali la persona vive.

Basta ricordare qualche dato: un tasso di crescita economica che è il più basso non soltanto dell’Europa comunitaria, ma anche dei paesi dell’OSCE; il tasso fiscale più alto e un’inflazione che, nonostante appaia bassa, è quattro volte superiore a quella degli altri paesi europei; un tasso di criminalità che ha reso le nostre città praticamente invivibili e nonostante gli appelli che si ripetono, nonostante gli impegni che il governo assume, non ancora mutato. Ieri si poteva pensare o si poteva dire che il cittadino che sentiva un maggiore bisogno di sicurezza era il cittadino agiato, se non ricco; oggi il cittadino che soffre di più l’insicurezza della propria vita è il cittadino debole, è il cittadino indigente, sono i vecchi, gli anziani oggetti di scippo, truffe, rapine. Abbiamo in Italia una situazione riguardo all’immigrazione che, a parole, sembra essere determinata da una grande attenzione solidale, ma che, nei fatti, rende impossibile la vita proprio a chi vuole dare una mano agli immigrati extra comunitari. Per esempio in Lombardia, fratel Ettore Boschini, l’uomo che spende totalmente la propria esistenza per questo genere di persone, ha lanciato un appello drammatico dicendo che in queste condizioni non si può andare avanti. È ormai di vitale importanza stabilire il numero di persone possiamo assistere, perché continuare a far finta di esercitare una solidarietà, lasciando i nostri confini nello stato di colabrodo in cui sono, significa ingannare i cittadini più deboli che vivono nelle nostre città e anche questi nostri fratelli che vengono da fuori. Voglio dire che la critica allo Stato, mai come oggi, non è una critica ideologica, ma emerge semplicemente dall’esperienza, dai dati di fatto. Quello che si deve fare, quindi, è riportare lo Stato nei suoi confini, affinché svolga e cerchi di svolgere bene alcune opere essenziali che gli sono state affidate come la difesa e la giustizia; non trasformando in eroi uomini o donne che si sono macchiati di crimini orrendi, come è capitato ultimamente! Esclusi questi irrinunciabili compiti, lo Stato dovrebbe affidare tutto il resto alla libera iniziativa dei cittadini, aiutando i cittadini ad organizzarsi da sé. In Italia si verifica, infatti, una straordinaria fioritura di opere nel campo dell’educazione, della sanità, della solidarietà, dell’assistenza, del lavoro.

In Lombardia abbiamo cercato di valorizzare proprio quello che la società faceva, senza cadere nella tentazione di produrre uno statalismo in scala regionale. Nel campo della sanità non abbiamo venduto la sanità ai privati, come qualcuno afferma: abbiamo dato ai cittadini la possibilità di scegliere, abbiamo chiamato i medici ad essere i protagonisti della riforma sanitaria. Nella formazione professionale la rivoluzione che stiamo impostando è quella di consegnare, da una parte agli studenti e alle loro famiglie e dall’altra agli artigiani, la piena potestà sul percorso formativo: che ognuno abbia la possibilità di farsi il percorso formativo che più ritiene opportuno e che la regione garantisca le finanze per fare questo.

Le battaglie in Lombardia, in Piemonte, in Veneto, hanno portato negli ultimi cinque anni una serie di novità importantissime. È giunto il momento di difenderle da eventuali attacchi pensando magari di costituire un patto più forte tra le regioni: una federazione delle regioni europee per essere più forti nei confronti di Roma e nei confronti di Bruxelles, per costruire un’Europa a misura d’uomo.

Ghigo: Il fatto che lo Stato non possa più ricoprire certe funzioni del passato non è semplicemente una provocazione, ma anche una necessità. Tutti abbiamo fatto dei sacrifici per entrare in Europa; nel momento attuale dobbiamo fare degli sforzi per rimanerci. L’organizzazione della macchina amministrativa italiana, obiettivamente, costa troppo; è come un’azienda in concorrenza con interlocutori che riescono a produrre a costi inferiori. Di conseguenza, siccome nel mercato c’è anche l’Italia, il governo deve riuscire ad incidere su quei fattori di produzione che ci permettano di tornare ad essere competitivi. Non si ha più la possibilità, come in passato, di svalutare la lira, per permettere ai nostri imprenditori di esportare i loro prodotti; questa possibilità, all’interno del mercato comune non c’è più: non si ha più la possibilità di aumentare a dismisura il debito pubblico per finanziare lo Stato sociale.

Per rendere più efficiente il nostro Stato la strada è quella di mettere mano alla Costituzione che ha cinquant’anni. Nessuno vuole metterne in discussione i valori fondamentali, ma credo che si debba necessariamente, fortemente, mettere in discussione l’organizzazione del funzionamento della macchina statale. Il processo di decentramento amministrativo, la cosiddetta riforma Bassanini, sta dimostrando che è difficile vincere la burocrazia romana e raggiungere obiettivi concreti senza mettere mano a riforme istituzionali, da una parte, e forti finanziamenti iniziali, dall’altra.

È diventato assolutamente necessario affrontare con decisione le riforme. Non può più accadere quello che si è verificato negli ultimi anni nelle regioni italiane. La riforma dell’elezione del Presidente della regione, approvata in prima lettura da Camera e Senato, in futuro, dà la possibilità ai cittadini delle regioni a statuto ordinario, di scegliere direttamente il Presidente della regione. Nella passata legislatura ci fu una forma mista: il cittadino aveva facoltà di indicare il Presidente della regione, ma solo le assemblee regionali, attraverso la competizione tra maggioranza e minoranze, potevano eleggerlo e far sì che restasse in carica due anni. Alla scadenza dei due anni, periodo in cui anche il cambio di maggioranza non poteva determinare la crisi, in alcune regioni italiane, si è dato sfogo alle peggiori forme di trasformismo politico attraverso la realizzazione di "ribaltoni". Con l’elezione diretta questo sarà impossibile perché, nel momento in cui un Presidente eletto direttamente dai cittadini dovesse incontrare in assemblea la sfiducia, questa sfiducia si realizzerebbe immediatamente con una nuova elezione; esattamente come succede con l’applicazione della legge 142 che riguarda l’elezione dei sindaci e dei presidente di provincia. Finalmente le regioni avranno governi stabili, governi che dureranno cinque anni, governi che potranno programmare una politica concreta per le loro regioni.

La forma federativa tra le regioni, anche se rischia di favorire l’annullamento delle identità specifiche di ognuna di esse, pericolo assolutamente da evitare, rappresenta una proposta affascinante. Le forme associative, i Quattro Motori o l’Alpe Adria, per esempio, sono fenomeni troppo limitati. L’iniziativa del Presidente lombardo potrebbe rivolgersi con forza alla latitanza di un governo centrale che deve cambiare e che non fa nulla per cambiare.

Galan: Vorrei partire di un pericolo che intravedo: la contrapposizione di vari federalismi. Mi ha colpito l’iniziativa che ha raccolto l’adesione di 8.400 comuni piccoli e grandi che richiedono insieme più responsabilità e più competenze. Eppure le amministrazioni locali non si possono costituire in federazione, non esiste nel Medioevo un fenomeno di questo genere, per contrapporsi ad altre istituzioni come le regioni. Il comune deve occuparsi, in uno Stato moderno, di aspetti del tutto diversi da quelli di cui si deve occupare la regione: questo è evidente in qualsiasi Stato civile. Forse questa iniziativa è stata avviata da qualcuno che voleva ingraziarsi politicamente i sindaci più potenti. L’unico federalismo sensato è infatti quello regionale.

La regione, unica istituzione che può realizzare la forma federale, sarà aiutata dalla nuova riforma sull’elezione diretta del Presidente. Almeno non ci saranno quelle conseguenze oscene a cui abbiamo assistito in troppe parti d’Italia: consiglieri regionali eletti per uno schieramento che passano dall’altra parte e modificano la volontà degli elettori. Vorrei approfittare di quest’occasione per ricordare che occorre mobilitarsi anche per evitare il listino bloccato alle elezioni regionali: sono ancora le segreterie di partito e i partecipanti alla consultazione elettorale che impongono i nomi da eleggere con la quota proporzionale. Nessun articolo di giornale ha sottolineato la statistica che proprio i consiglieri che non hanno dovuto neanche fare la fatica di cercarsi le preferenze per essere eletti, sono poi i più propensi a cambiare schieramento, a tradire la volontà degli elettori alla quale per altro non si sono neppure rivolti per le elezioni.

Rispetto all’azione che la regione deve compiere nei confronti di uno Stato che tenta ancora di occuparsi di tutti i settori della società, mi incuriosisce proprio la storia di questo secolo. Strano questo secolo che inizia con l’esaltazione dello Stato nazionale, col suo rinnovamento e rafforzamento nel dopo guerra, ma che prosegue con la perplessità dei nostri giorni che lo stato possa essere ancora utile; una vicenda che si intreccia con l’esaltazione dell’individuo passando, in seguito, attraverso l’esaltazione delle masse e il ritorno dell’esaltazione dell’individuo verso l’inizio degli anni Novanta. Di fronte al nostro secolo, ad un’Europa che è passata attraverso tutte queste contraddizioni, le regioni hanno il compito di trovare un loro coordinamento per riaffermare in campo internazionale importanti principi che rischiano di scomparire: quello della sussidiarietà, della responsabilità dell’individuo, della centralità dell’individuo. È un problema che riguarda direttamente soprattutto l’Italia in cui ministri come Bindi e Filiberto, fanno di tutto per affermare uno statalismo centralista e senza uguaglianza sociale.

Guazzaloca: Da quindici anni seguo il Meeting e per la prima volta sono venuto come ospite invitato a parlare. Essendo un apprendista mi sono preparato accuratamente al tema proposto.

Inizierò col sottolineare che sono gli ultimi dieci anni ad aver portato grandi cambiamenti nelle strutture politiche ed amministrative dei paesi europei. Sarebbe più corretto considerare il percorso in atto non ancora concluso: l’ultimo periodo, tra l’altro, ha avuto un’accelerazione nell’integrazione europea e passaggi significativi non solo di carattere economico; basti citare a questo proposito la libera circolazione delle persone. Si tratta di un processo che presenta parecchi problemi da risolvere, innanzitutto quello di una più precisa definizione dei poteri e dei ruoli da assegnare alle istituzioni comunitarie, in particolare modo al Parlamento europeo. Poi ci sono altre questioni come la reale armonizzazione delle normative dei paesi membri, la tutela della concorrenza, che significa anche parità di condizione per le imprese, il reciproco riconoscimento di percorsi formativi, la libertà di accesso a concorsi ed appalti.

In questi anni è maturata la consapevolezza che i problemi di una società sempre più complessa richiedano un approccio settoriale, richiedono una logica da integrazione: un elemento chiave è quindi diventato il territorio e il suo governo. Questa credo sia la vera grande e sostanziale novità; l’esigenza di portare il più vicino possibile i cittadini ai punti decisionali ha oggettivamente condotto ad un profondo ripensamento del ruolo dei diversi livelli istituzionali, in particolare ad una maggiore valorizzazione degli enti locali e delle regioni. In questo contesto il tema delle città ha assunto un peso prevalente; è infatti nella città che appare evidente l’esigenza di interventi coordinati con un punto decisionale forte, capace di portare a sintesi le diverse esigenze. Nel contempo è apparso evidente il contrasto tra l’esigenza di interventi efficaci e la frammentazione di poteri e centri decisionali; anche a livello locale si manifesta allora la necessità che aspetti quali l’ordine pubblico non possono non aver una dimensione sovraterritoriale. In sintesi mi sembra che si debba affermare l’esigenza di uno stretto raccordo funzionale con chi è responsabile del governo del territorio, fermo restando che, dove è possibile, la strada maestra resta quella di riunire le competenze in campo nel soggetto più a contatto con i cittadini.

In Italia abbiamo visto svilupparsi un dibattito abbastanza vivace sul tema del federalismo che molto spesso è stato confuso con il semplice decentramento di funzioni; dal punto di vista concreto questo ha prodotto unicamente provvedimenti parziali. Il federalismo fiscale è rimasto un obiettivo lontano, in particolare è lontana la possibilità di un’effettiva trasparenza nel rapporto fra cittadini e amministrazione sui prelievi e anche sul loro uso; il meccanismo della addizionale, a cui sempre più spesso si ricorre, nonché una rigida predeterminazione a livello nazionale di altre imposte, rendono sempre più difficile per il cittadino capire per cosa vengono impiegati i suoi soldi. Credo proprio che si possa dire che una certa mentalità centralista continua ad operare attraverso un trasferimento di competenze condizionate, quando non decise nel dettaglio da programmi, dall’ente superiore che opera la delega; allora quello che resta a livello decentrato sono le parti di pura gestione amministrativa. Un tipo di Stato che pretendesse di governare tutto è uno Stato che però è destinato a finire. Dico questo anche se, in un contesto di Europa più forte o in futuro dotato di un Parlamento con maggiori poteri, la funzione degli Stati non verrà mai meno: ci sono storie, culture, che non solo non sarebbe possibile, ma non sarebbe neppure giusto tentare di eliminare e queste differenze costituiscono una ricchezza e garanzia di confronto reale sulle scelte. Quello che l’Europa è destinata a mettere in crisi è una concezione in un certo senso assolutista dello Stato, uno Stato fonte di ogni diritto e detentore di ogni potere; potere che al massimo può essere delegato o decentrato, ma comunque deve sempre essere sotto controllo.

Gli stessi comuni possono concepirsi come istituzioni assolute e centraliste. Credo però che a livello locale il contatto più diretto ed immediato con i cittadini e le loro aggregazioni renda oggettivamente più difficile affermare e, soprattutto, mantenere un controllo assoluto dell’ente pubblico sulla vita economica e sociale. Un eventuale progetto statalista può essere contrastato da una sorta di anticorpi naturali: tanti soggetti che operano attivamente tutti i giorni a contatto diretto con l’istituzione locale. La mia esperienza, fino a poco tempo fa, è stata quella di trovarmi tra questi soggetti della comunità locale, poiché ho presieduto Associazioni del commercio e del turismo della provincia di Bologna. Proprio in questo lavoro mi sono reso conto di quanto sia necessaria un’amministrazione della città che si concepisca sì al servizio dei cittadini senza la presunzione di sapere tutto ciò che è bene e che è giusto, e senza imporre una logica dirigistica ed accentratrice. Un’amministrazione deve agire partendo dall’ascolto delle esigenze vere dei cittadini e svolgendo il proprio ruolo politico amministrativo particolare: collocare gli interessi della collettività in un contesto più ampio.

La soluzione dei bisogni dei cittadini deve partire, innanzitutto, dal coinvolgimento dei soggetti interessati. Perché ciò avvenga bisogna passare dall’assemblearismo sterile alla partecipazione attiva, dalla discussione sui massimi sistemi alle decisioni consapevoli e condivise negli obiettivi. Una comunità locale che impari a riacquistare responsabilità è la condizione essenziale per il governo di problemi complessi come quelli che le città di oggi devono affrontare. Perché ciò sia reso possibile c’è un ultimo presupposto: serve credibilità e autorevolezza della classe dirigente e delle amministrazioni nel loro complesso. Credibilità ed autorevolezza che si devono conquistare sul campo, attraverso gli atti che si compiono tutti i giorni, come succede nella vita, nel lavoro e nelle professioni. Dobbiamo essere convinti che anche nella politica e nelle istituzioni sono gli uomini e le loro capacità che fanno la differenza e pertanto tutti si dovranno prima o poi rendere conto che se non si avanza su questo terreno nessuna riforma da sola ci porterà veramente in Europa. In Europa ci si va maturando. L’Europa non può essere soltanto un luogo fisico, è anche un luogo ideale, culturale è anche un luogo della cultura amministrativa.

Longhi: Voglio ricordare che l’anno scorso, venendo al Meeting, incontrai nei corridoi Giorgio Guazzaloca. Non aveva giornalisti al seguito, non aveva neanche la cravatta, era un cittadino. Da poco aveva lasciato anche la Camera di commercio ed avendo una lunga consuetudine di amicizia ci scambiammo qualche battuta e fui facile profeta rivolgendomi a lui e ricordando le parole che ripeteva spesso mia nonna: quando si chiude una porta se ne apre una più grande. Credo che questo si sia ampiamente avverato.

Passando al tema proposto, credo che con la caduta del muro di Berlino si sia chiusa un’epoca che ha avuto inizio nel 1789 con la Rivoluzione francese: l’epoca degli Stati nazione. Lo dimostrano alcuni fatti. Innanzitutto la globalizzazione dell’economia. Le imprese oggi hanno delle radici in un territorio, ma lo sguardo è sul mercato, ossia sul mondo. La mobilità degli esseri umani riguarda trecento milioni di immigranti, immigranti per ragioni patologiche, non fisiologiche, in ricerca di risposte non trovate nella propria patria di origine. Se si aggiungono la mobilità dei capitali, la mobilità delle informazioni, ci si accorge che tutto questo sta oggi incrinando la logica territoriale su cui si è fondato il concetto stesso di Stato: confini precisi, corpus legislativo autonomo, lingua ufficiale, esercito nazionale, moneta nazionale.

A trasformare lo Stato ha contributo anche la crisi della politica e il tramonto delle grandi costruzioni istituzionali uscite proprio dalla Rivoluzione francese. Credo che lo scarto tra il nostro ordine politico e la realtà di oggi sia diventato talmente grande da essere più consistente della differenza tra la Francia del re Sole e la Francia rivoluzionaria. Il tentativo per superare questo scarto è quello di regolare l’orologio sociale limitando il potere con il potere. In questo scenario il gestore ha sostituito il sovrano, le regole soppiantano i principi.

Come potranno governarsi le comunità nel loro insieme, come potranno trovare e costruire la loro identità? Innanzitutto attraverso le autonomie e il rispetto del principio di sussidiarietà. Con la nascita della Comunità Economica Europea solo la Germania aveva nella sua Costituzione la previsione di uno Stato federale, non tanto in ricordo dei principi elettori, ma perché imposta dal trattato di pace; oggi 14 Paesi su 15 paesi della Comunità hanno rivisto la loro organizzazione statale valorizzando città e regioni, valorizzando il tema delle autonomie. A questo Stato noi come imprenditori guardiamo con grande interesse mentre rifiutiamo lo Stato etico che riconosce le autonomie ma non affida loro alcun potere.