Omaggio a Testori.

Testimonianze e letture

Lunedì 23, ore 21

Relatori:

Antonio Mazzi

Onorato Grassi

Moderatore:

Riccardo Bonacina

Nel corso della serata sono stati proposti articoli e brani tratti dalle opere di Giovanni Testori, letti da Franco Branciaroli, oltre ad una intervista a Testori sulla sofferenza. Nell’impossibilità di riprodurre i testi si ricorda la possibilità di richiedere la registrazione della serata all’Associazione Meeting (n.d.r.).

Bonacina: Testori è scomparso il 16 marzo scorso al San Raffaele di Milano. Per molti, questo artista, intellettuale, uomo di cultura, è stato soprattutto un amico, un compagno di strada, un maestro con cui abbiamo fatto una strada di quindici anni, dal ‘78 al ‘93. Dall’incontro con lui sono nate tantissime esperienze: opere, riviste, compagnie teatrali, anche singole avventure professionali.

Testori è scomparso cinque mesi fa, ma questi cinque mesi pesano, sembrano un’eternità, perché ha lasciato un vuoto non solo di affetto per molti di noi, ma anche nella società civile.

Nel nostro vivere quotidiano manca la sua intelligenza, la sua passione e la sua capacità di stare dentro la realtà, dentro ciò che accade cercando sempre di aprire uno spiraglio di luce o, comunque, uno spiraglio di verità.

Spesso era doloroso il modo con cui Testori sottolineava questa verità: ma oggi anche chi, come tanti mass-media e tanti giornali, etichettava Testori come un intellettuale fuori dalla storia, o anche chi sopportava a fatica la scandalosità di alcune sue visioni, riconosce che Testori aveva intuito, aveva visto tantissime cose. Per questo, sono cinque mesi di un’assenza pesante.

Rivolgo la prima domanda a don Mazzi: più di una volta in questi mesi mi hai detto: "Mi capita spesso di pensare a Testori e sento tantissimo la sua mancanza". Perché?

Sacerdote dell’Opera Don Calabria, don Antonio Mazzi è l’ideatore del Progetto Exodus per il recupero dei tossicodipendenti.

Mazzi: Ho incontrato Giovanni Testori poche volte. La prima volta, ci siamo visti alla stazione centrale in occasione del testo teatrale In exitu. Sono rimasto affascinato da quest’uomo, le cui parole colpivano inesorabilmente, come se spaccassero la faccia, ma soprattutto spaccavano il cuore. Ho voluto che portasse questo testo in comunità, la notte di Natale di quattro anni fa. E’ stata una notte violentissima, perché dire la Messa della notte di Natale dopo aver sentito questo testo mi sembrava un sacrilegio. Forse per la prima volta nella mia vita, mi sono sentito profondamente a disagio a leggere il Vangelo, perché tanto era autentica e violenta la parola di Giovanni Testori, altrettanto mi sembrava mellifua la trasformazione che noi abbiamo fatto del Vangelo. Il Vangelo è un testo fortissimo, "caratteriale" in un certo senso – basta pensare al Vangelo secondo San Matteo di Pasolini – ma noi l’abbiamo ridotto ad un panicello caldo che raccontiamo a dei nipotini idioti; abbiamo evirato il Vangelo, l’abbiamo completamente svuotato.

Ho visto Testori pochi giorni prima che morisse e mi diceva: "Caro Antonio, io, in un certo senso, sono stato il profeta della parola, ho riportato la parola alla sua essenzialità: l’ho sviscerata, l’ho aperta, l’ho cambiata, l’ho denudata, l’ho rovesciata, l’ho raddrizzata; ho fatto della parola lo strumento della mia vita e ho anche tentato in qualche maniera di riportare la parola, nella sua crudezza, nella sua essenzialità, in mezzo alla gente; però, sto morendo, e ho capito che non è sufficiente, che non è più sufficiente neanche la parola. Voi preti dovete riuscire a riportare nel mondo delle presenze, perché se ci accontentiamo delle parole, abbiamo fatto un passo, ma è ancora un passo troppo breve per cambiare questa umanità". Usava degli aggettivi che è inutile che io ripeta, perché li ripeterei in una maniera troppo dolce. Mi ha poi invitato a riproporre me stesso al mondo; e diceva: "Tu, Antonio, lo puoi fare, non perché sei un santo, ma perché sei ancora fondamentalmente un birbante". Prima di Testori eravamo alla parola edulcorata, alla briochina che diamo la mattina ai nostri ragazzi; con Giovanni Testori abbiamo riscoperto il pane duro, il pane dei profeti, il pane di Elia, il pane che ci aiuta ad attraversare il deserto. Tuttavia, Testori mi diceva: "Io mi sono fermato nel deserto, tra un po’ forse mi incontrerò con Qualcuno, ma il dubbio è ancora più forte della mia certezza, la mia solitudine è ancora più vasta della mia ricerca... bisogna che voi riusciate anche con gente come me". Diceva che noi preti, poveri testimoni e anche poco capiti dalla gente, dobbiamo portare queste presenze forti nel mondo per riuscire ad aiutare il mondo a passare, a traghettare questo fiume che è sempre più limaccioso, che è sempre più di taglio infernale e sempre meno di taglio spirituale. Dobbiamo riuscire non a fare i caronti, ma a fare i profeti disadorni, poveri, umili, ignoranti forse anche, ma con la forza di andare contro l’onda limacciosa, infangata, nauseabonda di questo mondo. Il messaggio di Testori è questo, ed è anche intriso di grande disperazione, di grande speranza, di grande essenzialità e di grande spudoratezza. Spero che Giovanni mi aiuti in questi ultimi anni della mia vita a fare quel pezzo di strada che lui mi ha augurato di fare poco prima di morire.

Bonacina: Quando Onorato Grassi dirigeva il Centro Culturale "San Carlo", ha fatto delle mostre insieme a Testori, tantissimi incontri, una rivista – Synesis, – che è nata proprio da una intuizione di Testori... Adesso tu sei anche docente universitario: cosa ti colpiva, cosa ti colpisce del modo di Testori di essere un intellettuale, un uomo di cultura?

Grassi: Quello che mi ha sempre colpito in Testori è stata l’imponenza e la possanza della vita davanti a lui. Credo che Testori abbia colpito non solo me, ma molti di noi, per questa sua virulenta vicinanza alla vita concreta. Aveva chiarissimo il senso delle parole, della responsabilità del dire e del fare, ma aveva anche chiarissimo il fatto che la vita è violenta. Testori fu un violento, anche nella parola, perché la vita è violenta e la parola che noi diciamo è attraversata da questa violenza. C’è un’altra scrittrice, non so se Testori la conoscesse, Flannery O’Connor, che ha portato nei suoi libri il senso di questa violenza della vita e nello stesso tempo il senso della grazia che può redimere questa violenza, senza annullarla, ma che può essere l’ancora per poter vivere, per poter sperare. La parola speranza spesso ricorreva sulle labbra di Testori, e anche se la diceva con il timore di un bambino, era la parola più vera. Mi ha sempre colpito questa sua passione per la vita e questa titubanza della parola, perché la vita è più grande di come noi possiamo dirla: per questo si cercano sempre nuove parole, si trasformano, si distruggono, perché la vita sia quella che si incontra, non le nostre parole. Le nostre parole servono unicamente per fare accedere alla vita che è sempre più complessa, più varia, più forte, più disordinata e più attraente di quello che possiamo dire.

Riccardo ha introdotto questo incontro parlando dell’assenza di Testori: ma, ad un certo livello, Testori non ha lasciato nessun vuoto, perché quello che ha riempito il rapporto tra noi e Testori è stata la presenza di qualcos’altro, di cui Testori stesso era segno. A questo livello, io non sento nessuna mancanza, nessun vuoto, perché quello che sostiene la nostra vita non è il ricordo di un passato, ma qualcosa che è presente ancora adesso, di cui ciascuno di noi è segno ed è qualcosa talmente grande per cui ciascuno di noi si lega all’altro in un modo affettuosissimo, ma ultimamente distaccato. Per questo noi continuiamo a vivere: è un vuoto grandissimo quello che ha lasciato Testori, ma è un vuoto che è pieno, perché noi continuiamo ad essere, perché quella presenza per cui Testori ha incominciato a parlare di Cristo – e noi ci siamo incontrati quando lui scriveva di Cristo sul Corriere della Sera – è ancora il pieno della vita. Lui fu segno di questo avvenimento; sicuramente, ce lo comunicò con drammaticità, e infatti quando si era con lui non si riusciva a star fermi. Quando chiedeva: "Come stai?", a cui tutti rispondevano: "Bene!", si capiva che era una risposta sbagliata, perché chiedeva qualcos’altro, fino all’implorazione della misericordia sempre presente nei suoi discorsi. Testori partiva sempre dalla coscienza di essere peccatore e, come dice don Giussani, questa è la partenza più vera in ogni rapporto, perché si diventa amici quando l’altro che hai davanti ti fa vedere che è peccatore: solo così il senso della misericordia non è astratto, è vero. La sua drammaticità era piena di questo senso di misericordia: con Testori si era sempre sballati – scusate per questa parola milanese... gli americani dicono "freak", indica semplicemente chi non è mai a posto – perché voleva essere quasi sballato, non perché fosse "fuori", ma perché la condizione dell’uomo è di essere sballato, perché ciò che ti fa essere al tuo posto è il rapporto con un Altro, con una misericordia, con qualcuno che ti abbraccia e che ti vuole. E questo per un intellettuale è una grande cosa: l’intellettuale vuole progettare la vita, ma il massimo della ragione, dell’intelligenza e anche della espressione è l’intellettuale che riconosce invece qualcosa che gli è dato.

Negli anni in cui si faceva il San Carlo imparammo a voler bene a Milano anche grazie a Testori. A Milano, negli anni ‘70 hanno tirato i sassi nelle vetrine, negli anni ‘80 hanno fatto carriera e, adesso, negli anni ‘90 se ne stanno andando tutti. Ma Testori diceva anche negli ultimi scritti: "Restiamo a Milano, ad amare questa terra; non è una bella terra, è una terra che ha la lebbra". La prima volta che ci siamo incontrati – Franco lo ricorderà – al Piccolo, Testori ci chiese di leggere il memoriale di San Carlo ai milanesi, perché era quello che voleva si dicesse ai milanesi: terra appestata, ma ugualmente amata. Non è una terra in cui si sta bene, coi fumi e con la violenza di adesso, ma ugualmente amata e la parola che San Carlo fece risuonare era la parola di un ricordatevi, ricordatevi chi siete, ricordatevi chi siete in questa terra, che non siete né contestatori, né carrieristi, né gente che vuol fare gli snob... siete uomini che vivete insieme in questa terra, appestata, ma ugualmente amata da Dio. Milano vissuta così, Milano amata così forse può avere in Testori uno dei suoi primi profeti e un personaggio da ricordare, perché è un personaggio che ci vincola ad una città. Vincolare ad una città è vincolare ad una terra, ad una casa, ad una appartenenza.

Bonacina: Ciò che ha contraddistinto l’incontro con Testori è che nessuno si è legato all’altro per una visione politica, estetica, etica, ma piuttosto è sempre stato uno stimolo, uno stimolo grandissimo. L’unica nota costante e l’aiuto reciproco che ci si è dati – e soprattutto che Testori dava – era quello di non essere mai quieti, tranquilli, ma di essere piuttosto senza patria, almeno in questa terra.

La solitudine in Testori non era un dato estetico, come magari per tanti artisti del Novecento: era un dato di coscienza, di realtà. Per questo l’incontro con noi lo commosse. Era il 1978, momenti tesi e drammatici, che culminarono, nel marzo, nel rapimento e poi nell’uccisione di Aldo Moro. Eravamo un gruppo di studenti universitari, e ci trovavamo spesso la sera a ritagliare i giornali, per una sorta di rassegna stampa che facevamo il giorno dopo in università, cercando di evidenziare qualche parola che fosse meno nauseante delle altre. Ci imbattemmo, il 20 marzo del ‘78, in un articolo di Testori intitolato Realtà senza Dio che il giorno dopo venne affisso in tutte le università: fummo talmente colpiti da avere l’impulso di andare ad incontrarlo nel suo ufficio, in via Brera. Da allora, quell’incontro si è ripetuto ogni giorno per quindici anni.

La nostra amicizia con Testori nacque leggendo questo articolo, dalla sorpresa di giovani universitari che vedevano esprimere in maniera meno confusa di quanto loro non riuscivano a fare una posizione di fronte alla vita, e a ciò che accadeva. Uno dei primi frutti di questo incontro fu un libro, un dialogo tra don Giussani e Giovanni Testori, intitolato Il senso della nascita, che ripercorre quello che è stato uno dei punti fermi nell’avventura artistica di Testori: il riandare al momento della nascita, prima per maledirla, poi per ringraziare in qualche modo di essere stati voluti. Testori diceva che non si è padri se non si capisce di essere figli.

Testori volle gridare questa coscienza della nascita, dell’essere voluto, dell’essere amato: questo muta anche la sua drammaturgia, che dal ‘79, con Conversazione con la morte, cerca un coro, è quasi in forma di preghiera. Lo stesso Testori va sul palcoscenico a leggere questa sua opera; poi, nascerà L’interrogatorio a Maria dall’incontro con una compagnia di Forlì, la Compagnia dell’Arca. In seguito Factum est, un monologo sull’atto del concepimento, monologo che fu recitato nel ‘81, alla vigilia del referendum sull’aborto, e questo testimonia il coraggio con cui Testori affrontava la società civile e quella politica. Nel ‘83, nascono gli Incamminati, con l’opera Post Amlet, e con la figura del "Totem re", raffigurazione più che mai attuale dell’astrazione del potere, di un potere che ha sempre meno volto ed è sempre più tecnocratico, sempre più fumoso. Testori ha scritto ogni testo di teatro proprio per un attore, e per questo nuovo teatro, che costringeva la parola ad incarnarsi in un corpo, nel sudore, nei gesti, e quindi obbligava a combattere l’astrazione, scelse Franco Branciaroli. Il primo testo che Branciaroli e Testori fanno insieme è In exitu. Chiedo a don Mazzi di introdurre l’ultima parte.

Don Mazzi: Vorrei prima finire di raccontare l’ultimo incontro fra me e Testori. Era ormai solo cartilagine e mi ha detto: "Antonio, il sociale: merda, merda; il politico: merda, merda", poi ha ripreso un po’ fiato e ha proseguito: "devi far capire alla gente che ti sei incontrato..."; poi si è fermato e ha chiesto: "ti sei veramente incontrato con Lui?". Quando ti incontri con un uomo, quando ti dice le grandi verità, ti vengono i grandi dubbi, nel momento in cui ti fa vedere le speranze più affascinanti, ti riempie di tensioni. Quella notte di Natale, quando abbiamo finito In exitu, ci siamo guardati in faccia, ci siamo abbracciati e ho detto: "Giovanni, stasera mi sono cavato dalla bocca il catetere! Fino a ieri ho predicato il Vangelo, ma avevo il catetere in bocca! Stasera ho imparato che devo essere più autentico... forse non sarò autentico come lo sei tu, però ho capito che devo essere più essenziale, devo dire le parole con la bocca che mi ha dato mia madre. Nella speranza che attraverso le parole possa incontrare anche quella persona o quelle persone che tu hai incontrato, che insieme abbiamo incontrato e che forse insieme dubitiamo di aver incontrato".

Le ultime dieci righe di In exitu sono la sintesi di questo raggio che arriva sul cadavere di Gino coperto da un lenzuolo bianco, alla stazione di Milano: il raggio che tocca il lenzuolo non illumina fino in fondo la testa. Anche il raggio di Dio non riesce mai ad arrivare dritto alla nostra persona perché abbiamo queste lenzuola che ci coprono. Qualche volta anche la religione diventa un qualcosa che ci divide da Dio, qualche volta anche la giovinezza diventa qualcosa che ci divide da Dio. Anche noi siamo della povera gente, siamo dei poveri Gino, ma in qualche modo possiamo liberarci di questo lenzuolo, che ha fatto sì che Lazzaro uscisse dalla tomba, come anche lo stesso Cristo.

Grassi: Per concludere, direi di Testori, come Dante disse di colui che poteva essere significativo per la propria vita, che fu "segno di maggior desio", segno di maggior desiderio: colui che desidera tanto e che invita gli altri a desiderare di più. Testori fu uno che desiderò, che invitò a desiderare, e il desiderio è l’unica arma che si ha contro il potere, perché il potere può tutto eccetto che combattere il desiderio: questo è un lascito che Testori ci ha lasciato.

Don Mazzi: Vorrei fare un ultimo invito: se è vero che Testori è vivo e che è ancora presente tra noi, dobbiamo avere il coraggio di testimoniare che ognuno di noi in qualche maniera ha incontrato Cristo e che quindi in qualche maniera può portarlo per le strade del mondo. Questo può essere l’unico modo per non commemorare Testori, ma sentirlo vicino, sentirlo vivo. Parlando della misericordia rispetto al terrorismo, dissi che la qualità che fa di Dio, Dio, è la misericordia. E’ la misericordia perché se Dio è proprio Dio lo è perché ha una misericordia così infinita che non è una virtù che ripara, ma attraverso la misericordia Iddio fa rinascere l’uomo. Dopo, Testori mi ha telefonato, ringraziandomi di questa definizione di Dio. Portiamo questo in mezzo alle strade, in mezzo alla nostra gente perché la gente ha bisogno meno delle nostre parole e più della nostra testimonianza, senza paura. E’ quanto ha detto il Papa: "Non abbiate paura!".