Martedì 23 agosto

"ARCHITETTURA E POPOLI DELL’EUROPA OCCIDENTALE"

Presentazione della mostra con la presenza dell’autore:

Arch. Santino Langè.

Moderatore:

Dott. Sandro Chierici.

S. Chierici:

A nome degli organizzatori della IV edizione del Meeting per l’amicizia fra i popoli, porgo il benvenuto fra noi all’architetto Langè e all’architetto Citi che hanno curato insieme al Dott. Meschini e a Pepi Merisio, la mostra "Architettura e Popoli dell’Europa Occidentale". Ieri mattina parlando con la nostra ospite, la dott.ssa Perpère, che ha presentato la mostra sulle origini dell’uomo, era emersa una definizione: la dott.ssa Perpère diceva che l’uomo, nel momento in cui ha forgiato il primo utensile, è stato come chiamato da Dio a proseguire l’opera della sua creazione. Ed è quindi un uomo creatore. Pensavo, guardando la mostra che presentiamo oggi, come la cultura contemporanea, tende sempre di più a confinare la dimensione creativa dell’uomo in spazi delimitati: l’arte figurativa, lo spettacolo, ecc., mentre cerca sempre di più di soffocarla in altri ambiti, il più delle volte proprio quegli ambiti che riguardano più da vicino la vita quotidiana dell’uomo. Basta entrare, credo, nelle camere di uno degli alberghi di Rimini, per notare come l'arredo sia una negazione della creatività; basta pensare, ad esempio, come l’oggetto su misura, l’oggetto a misura d’uomo, che una volta era la norma, oggi è diventato un lusso. Ma non è sempre stato così, e la mostra di oggi, la mostra dedicata all'architettura e ai popoli dell'Europa Occidentale, mi sembra che costituisca un significativo esempio di un momento, di un periodo, di un luogo che ha dei confini vasti, che abbracciano davvero uno spazio enorme, dalla Spagna, alla Francia, all'Italia, all'Europa centrale, in cui l'uomo ha vissuto un'esperienza di creatività, ha tentato di modellare la natura e le cose… che gli stavano intorno; in particolare questa mostra lo esemplifica nel campo dell'architettura cioè in primo luogo, nella casa, il luogo dove si abita, ma anche in qualcosa di più della casa, nell'edificio di culto, o nell'edificio ad uso lavorativo, o addirittura nell’insieme di case, di luoghi di vita di nuclei di persone, di comunità. E mi pare che questo taglio di lettura faccia di questa mostra non il frutto di un lavoro di curiosa archeologia, ma agganci questo lavoro con la domanda che l'uomo si pone legata al proprio destino, domanda che si intreccia sempre con quella che l'uomo si pone sulle proprie origini e sulle proprie tradizioni. Questa mostra credo costituisca uno stimolo per fare riemergere ancora una domanda e una preoccupazione che per secoli ha guidato l'uomo e lo ha spinto a modellare la terra e l'ambiente in cui viveva, costruendosi i luoghi della sua esperienza e della sua vita. A questo proposito lascio adesso la parola all'architetto Langè che ci introdurrà brevemente alla mostra, dopo di che sarà possibile rivolgergli alcune domande. Infine andremo a visitare insieme la mostra stessa.

S. Langè:

Innanzitutto, consentitemi le solite parole, non solo di circostanza, ma reali, di ringraziamento innanzitutto al Meeting che ha voluto aiutarci a realizzare questa mostra. In secondo luogo, devo ringraziare il Consorzio Casa di Milano della confederazione delle Cooperative italiane e in particolare il Geom. Giuseppe Parmisano, i quali hanno sponsorizzato il catalogo, che si presenta effettivamente come un libro, più che come un catalogo; tale sponsorizzazione ci consente inoltre di offrirlo qui al Meeting ad un prezzo veramente popolare. Devo ringraziare gli amici chic hanno realizzato con me la mostra: Duilio Citi, che è qui presente, Pepi Merisio, che sarà nello stand nei prossimi giorni, e Vanni Meschini che ha curato l’allestimento. Devo ringraziare anche tutti quelli che hanno partecipato, più o meno direttamente o indirettamente, a questa impresa che è solo agli inizi e che consiste in una rilettura, in qualche caso una lettura del tutto nuova, ma comunque una rilettura totalmente rifondata su basi interpretative nuove dell'architettura popolare. In questo senso abbiamo scelto per la presentazione di questa prima ipotesi di modello proprio il Meeting di Rimini, più che un ambiente o una situazione accademica. Questa ricerca è svolta in Università, in Istituti di ricerca specialistici, però abbiamo deciso di presentarla la prima volta proprio in un ambito popolare. popolare. Popolare, perché noi personalmente ci riconosciamo in questo popolo, più che forse nella tradizione e nell'ambito accademico, ma anche perché la possibilità di rileggere l'architettura popolare ci è data proprio da un'esperienza che da anni, penso, tutti noi poniamo avanti dentro a un contesto, dentro a un popolo che si muove. Implicitamente, direi, ho già accennato a quello che è l'oggetto e il tema della mostra come già l'ha accennato anche Sandro Chierici: il tema della mostra è questa sua espressione del lavoro, della vita, delle capacità artistiche popolari dell'Europa occidentale. Quindi tutti gli aspetti che riguardano, nel tempo, la capacità dell'uomo di esprimere se stesso attraverso le trasformazioni dello spazio, della natura e dell'ambiente, del mondo fisico, con cui è venuto a contatto: del paesaggio rurale, della faccia dei monti, delle valli, dei campi, ma anche dell'insediamento, del villaggio, del paese, della propria casa, delle cose più importanti e più stabili che l'uomo conserva nel proprio paese e nella propria casa. Quindi un'attenzione a questo arco di fatti espressivi, che vanno appunto dal paesaggio, diremmo, all'architettura, e a fatti e oggetti simbolici legati all'architettura stessa. Perché? Perché questi sono gli elementi primi, sono gli elementi primi che l'uomo nella sua storia e nella sua esperienza trasforma, perché sono quelli più legati al suo gesto necessario di lavoro, al gesto necessitante del lavoro, perché sono i più legati alla logica e all'esperienza del quotidiano: la necessità di sopravvivenza, la necessità di far vivere la propria famiglia, la necessità di dare un assetto al nucleo sociale cui si appartiene. Di queste esperienze, diciamo primarie, abbiamo privilegiato indubbiamente, poi ne vedremo i motivi, quelle legate alla vita della campagna e alla vita rurale; perché? Per diverse ragioni: perché le abbiamo ritenute primarie nell’esperienza, nello svolgersi della storia umana, e perché effettivamente primarie in quanto non sottoposte mai a mediazioni ideologiche o di porre, almeno in origine, come invece sono state le città, e perché effettivamente in esse si coglie più direttamente, proprio per questa motivazione a cui ho accennato, quella che è l'esperienza diretta dal rapporto umano, cioè quello che noi possiamo chiamare la condizione quasi materiale dell'esperienza di popolo. Rileggendo e riguardando queste manifestazioni espressive popolari, abbiamo costruito, o ricostruito, un modello interpretativo, (scusatemi la rigidità di questo termine, modello che uso tanto per farmi intendere) un modello interpretativo che direi è articolato su tre osservazioni principali: la prima riguarda lo spazio e la dimensione, quasi territoriale, di queste esperienze; la seconda, riguarda il tempo dell'esperienza stessa; la terza la relazione che questa esperienza ha con noi. L'esperienza di cultura popolare in Europa, ha avuto una dimensione europea. Perché insistiamo su questa dimensione europea della cultura popolare? Nelle comunità di valle si fanno mostre, si parla di aspetti della cultura popolare, e anche noi spesso, in passato, siamo caduti in un limite, che tenterò di spiegarvi. Quasi sempre queste forme sono state lette come il risultato di condizioni materiali locali, come se il clima, la disponibilità di un materiale da costruzione, le pressioni di popoli confinanti, la natura del terreno, meccanicisticamente determinassero i modi dell'aggregazione sociale, i modi della struttura familiare, e non fossero da inserire invece in un altro orizzonte più ampio. Quando si leggono i testi che dal 1930 ad oggi trattano di questo argomento, sembra quasi di vedere l'uomo rurale della storia dell'Occidente, dall'Alto Medio Evo fino a oggi, comportarsi come un sapiente insetto, che, senza sapere che cosa fa, ma solo per un istinto naturale ben guidato dalle condizioni stesse del mondo in cui vive, ha realizzato delle bellissime cose, ma che di queste cose realizzate non conosce né il principio, né tanto meno la fine. L'avere allargato i confini dell'osservazione, cioè aver visto che le forme espressive, ad esempio, sono le stesse nell'Appennino ligure-emiliano piuttosto che in Galizia o nel Massiccio Centrale piuttosto che nella, Val d'Ossola o nel Portogallo settentrionale, non è solo un ampliamento di scala, non è solo un fatto, un'osservazione che ha una sua consistenza quantitativa, ma è un'osservazione che ha incominciato e incomincia a lasciar pensare. Evidentemente è stata la prima soglia di un discorso, è stata la prima soglia di un nuovo disegno che ci si è presentato di questa cultura. Evidentemente, se il contadino galiziano nel 1300 e nel 1400 aveva o si dava la stessa struttura sociale, e di conseguenza le stesse forme del paese e della propria casa, del contadino dellAppennino ligure-emiliano, è evidente che non si è di fronte a una fenomenologia di reattività funzionale dell'uomo rispetto alle condizioni materiali e contingenti della vita, ma si tratta di qualcosa di più. Evidentemente questi uomini lontani territorialmente fra di loro, avevano e intrattenevano degli scambi tra di loro. Soprattutto intrattenevano degli scambi che costituivano cultura, cioè davano a ciascuno di loro un orizzonte e un significato della vita in cui collocarsi, per cui l'espressione e i prodotti diventano simili, rappresentano una stessa matrice che non può essere né casuale, né frutto solamente di una evoluzione puramente materiale della cultura. Da qui a rileggere le espressioni dell'arte popolare come legate anche alle possibilità per l'Europa di avere una cultura unitaria, il passo è stato breve; ed ancora, il riconoscere che nel territorio, sul suolo, diciamo, questo livello di connessioni era dato, ed è stato dato materialmente da una rete di infrastrutture ben precisa, il passo è stato, direi, abbastanza semplice. Questa struttura di comunicazioni, c’è stata, e, se pensiamo che queste comunità hanno avuto un loro consolidamento a, cavallo tra l'Alto Medio Evo e il Medio Evo, cioè tra l'800 e il 1200 circa, è evidente che la struttura portante di questa cultura popolare occidentale era rappresentata, analogamente a quella che noi definiamo anche la cultura maggiore medioevale, dai grandi assi e dalle grandi strade di pellegrinaggio. Da quelle grandi strade, di pellegrinaggio che sostanzialmente univano l’estremo lembo del territorio della terra allora conosciuta, il Capo di Finis Terrae, e, Santiago di Compostella, con i grandi monasteri, con i grandi centri di diffusione monastica della Francia centrale, e con la Penisola Italiana, soprattutto con Roma, il centro della cristianità. Questi assi di pellegrinaggio infatti così come hanno consentito la crescita di una certa cultura rappresentata dai centri monastici e da alcune città fondamentali, hanno rappresentato contemporaneamente anche la possibilità di crescita di quel mondo che la nostra cultura, soprattutto dall'800 ad oggi, ha ritenuto sempre un fatto marginale, un fatto che ha avuto un'evoluzione diversa, e una struttura naturale invece che culturale. Questa osservazione è importantissima, perché riconduce a un'origine ben precisa della cultura popolare: che non è in un'aderenza alle cose, anche se, intendiamoci, è sempre in aderenza, alle condizioni date, alla realtà materiale della vita, ma la supera dentro a un orizzonte culturale, cioè a una visione generale del principio e del fine, che è l'orizzonte cristiano, che è l'esperienza cristiana. La seconda osservazione, riguarda il tempo di queste manifestazioni, perchè questi fenomeni, delle architetture popolari, sono sempre stati ritenuti dei fenomeni senza tempo. In realtà non sono senza tempo: hanno una dimensione di sviluppo cronologico ben precisa, che è diversa dalla tradizionale periodizzazione degli stili, artistici o architettonici, ma ha una sua periodizzazione, che a un certo momento e in alcuni secoli si lega alla cultura, diciamo, dominante, ma che non è strettamente corrispondente a quella che potremmo chiamare, in prima approssimazione, "cultura dominante". Ci siamo però resi conto che questa architettura popolare, sempre realizzata in pietra, ha origine grosso modo dopo il 1000, nel primo secolo dopo il 1000, si protrae, e scandisce il tempo con queste forme, originate in quei secoli, fino alle soglie del XX secolo. È come se il Medio Evo avesse, o abbia saputo dar vita a una fioritura architettonica, a una fioritura artistica che è la fioritura del Romanico, che è la fioritura delle grandi famiglie dei costruttori, dei grandi movimenti di costruttori (i Comacini, gli Antelami, le loro derivazioni francesi di Frère Masson e così via) e che questo modo, questa sapienza, questa capacità di esprimersi, soprattutto attraverso l'uso della pietra, che di solito noi accostiamo nelle grandi abbazie, nelle grandi cattedrali romaniche, nelle chiese romaniche, avesse avuto in quell'epoca un sottofondo molto più vasto che toccava anche l'architettura del quotidiano, la casa che ciascuno abitava e viveva in tutti i giorni, per cui le grandi cattedrali sono, per il Medio Evo, quasi la punta affiorante di un iceberg molto più vasto e che rimane nascosto sott'acqua. Evidentemente questi maestri costruttori dedicavano più attenzione e cura alle fabbriche maggiori, alle abbazie, alle cattedrali. A queste costruzioni anche il popolo dedicava le proprie risorse. Le case sono state realizzate, diciamo, più coerentemente con le risorse disponibili, quindi rappresentano, pur innestate sulle stesse modalità costruttive, un prodotto che potremmo dir non minore qualitativamente, ma minore come applicazione costruttiva. Bene, cosa significa questo? Significa che, per quel che riguarda la cultura medioevale, non possiamo fare distinzioni tra un'arte maggiore e un'arte minore. Quando si parla della cultura medioevale, si parla di una cultura che era una cosa unica e che investiva tutto, in cui tutti quanti erano calati, e che rappresentava il gesto del quotidiano di tutti. Sia che si costruisse una cattedrale, o si rimanesse anche legati allo sbozzare una testa da collocare sopra il focolare o sopra la porta di una casa privata, di una casa contadina, di una casa dell'ultimo borgo sperduto sulle montagne, (che oggi noi riteniamo sperduto sulle montagne, e che magari allora era al, centro o lungo una via di comunicazione importantissima) il significato era lo stesso. La divaricazione avviene, grosso modo alla fine del '400 quando si costituisce un potere elitario, il potere dei signori, o il potere dei re: nascono le Signorie in Italia, nascono le grandi nazioni europee; nasce la cultura dell'umanesimo che, intendiamoci, ha avuto la sua importanza e il suo altissimo pregio, ma che, per quel che ci riguarda, ha creato una classe elitaria di progettisti, di architetti (Brunelleschi, Alberti), di trasformatori, di ingegneri del territorio e dell'ambiente (Leonardo da Vinci, le grandi macchine per l'irrigazione, per la trasformazione del territorio), e questi, capaci di utilizzare la novità delle arti del disegno, diventano una classe elitaria, che poi trascina con sé, per esempio, anche molti strati dei Frères Massons francesi, di questi costruttori di tradizione medioevale, o anche italiani, che diventano poi massoneria, diventano dei punti elitari e ristretti, che determinano ciò che è la rappresentazione del mondo, alleandosi o stando, o vivendo assieme al potere. E quindi, dal '400 e dal '500 in avanti, l'Europa si spacca in due: si spacca nell'Europa colta, nell'Europa del progresso, nell'Europa che vede nella capacità dell'individuo di rappresentare il mondo la molla del progresso stesso; dall'altra parte invece c'è un'Europa formata da un popolo silenzioso che rimane ancorato a questo suo tessuto di rapporti esperienziali, e che si arrocca in una difesa delle strutture comunitarie, delle strutture di villaggio, nelle aree e nelle zone che sostanzialmente il potere dei signori, dei re e il potere di tutta questa classe neofeudale, patrizia, di colonizzatori del territorio, lascia, quasi come margine, un margine consistente, se lo guardiamo e lo pesiamo, sia da un punto di vista di dimensione di aree e di superficie, sia da un punto di vista anche proprio anagrafico. Ma questo mondo silenzioso che non lascia la propria storia, né scrive le proprie storie, che non si dà costituzioni, né statuti, che non elabora ciò che noi comunemente chiamiamo cultura, continua e ci lascia tracce importanti, che sono giunte fino a questo secolo, abbiamo detto. Quindi è una cultura: qualche studioso, seppur di passaggio, osservando queste tracce, le ha definite il "romanico perenne" forse senza neppure pensar bene alla valenza dell'affermazione che andava a fare, (abbiamo ritrovato ancora dei capomastri, dei modellatori, degli scultori che, o loro direttamente, o ricordando i padri, costruiscono ancora con questi moduli, con queste forme derivate dalla tradizione delle maestranze di origine romanica, di origine medioevale). Quindi la dimensione cronologica scardina un pochino la lettura che di solito si fa della periodizzazione artistica, e fa leggere nella storia una stratificazione delle forme artistiche, più che una successione cronologica. Voi direte: "Però queste forme ultimamente, nell'impatto ultimo con la società industriale, con un moto di pianificazione del territorio basato su un concetto di profitto, basato su una società sostanzialmente individualistica, alla fine ha dovuto cedere le armi". Ma io vi chiedo: "Forse non sta cedendo le armi, e forse, non è in crisi ancora più profonda quel modo stesso che a un certo momento ha tentato di emarginare questa tradizione popolare medioevale? Forse che la nostra società, di tipo industriale e capitalistico, non è allo stesso modo in crisi? E non chiede allo stesso modo una profonda revisione"? Io credo proprio di sì. Credo proprio di sì, e credo che, e qui ci innestiamo sul senso e sul significato che può avere un lavoro di questo genere oltre a quello della revisione di una storia, e evidentemente della rilettura di una storia. Indubbiamente il senso deve essere visto in un'ottica non restrittiva. Alcuni ieri, fermandosi lì allo stand, mi dicevano: "bhé ma questi lavori hanno un utilità?", pensando all'utilità come uno strumento che serve a manipolare qualche cosa. Io direi che ha un'utilità proprio in quanto nega che la storia venga usata per manipolare qualcosa. Certo, intendiamoci, cerco sempre di restare il più possibile attaccato coi piedi per terra, un'utilità anche operativa esiste: le nostre montagne sono state trasformate tutte da questo tipo di cultura e di civiltà: pensiamo alla comunità di villaggio, basata sulla solidarietà, sulla divisione paritetica dei beni fra i componenti della comunità stessa; sulla negazione della proprietà privata non come appartenenza, ma come elemento da far fruttare in termini capitalistici, su una famiglia non legata all’interesse e all’egoismo, ma sulla famiglia patriarcale ha voluto dire nello stesso tempo, nello svolgimento della storia della comunità di villaggio tantissime cose, ma vuol dire sostanzialmente una famiglia che non si chiude in se stessa, una famiglia che accoglie, una famiglia che continua nel tempo, una famiglia che può essere composta anche da due persone, ma che rimane sempre una famiglia diversa dalla famiglia mononucleare di tipo moderno. Ecco, questo tipo di comunità, dicevo, anche la stessa comunità di villaggio, per andare avanti nelle tipologie, la stessa comunità di villaggio che decide ogni operazione che riguarda la vita quotidiana assieme, attraverso l’assemblea e prende decisioni comuni in riferimento a tutte le operazioni che riguardano la vita quotidiana e che sono le operazioni proprie della sopravvivenza, non solo della polizia municipale o dell’urbanistica, così come l’intendiamo oggi, ma di ciò che deve essere messo a cultura ogni anno, delle operazioni appunto culturali che si devono fare, di quel che si deve costruire e così via. Bene, questo tipo di comunità è quell’istituzione che ha dato luogo alla montagna; che ha dato luogo a tutte le trasformazioni: al tipo di coltivazioni, alle forme dei campi, a trasformazioni interne di montagne attraverso tutti i terrazzamenti, all’irregimentazione delle acque, alle infrastrutture stradali e così via. Questa forma del paesaggio e dell’ambiente corrisponde in modo stretto al tipo di società, cioè, è una forma di paesaggio e di territorio che è legata alla vita e alla sopravvivenza delle comunità, e quindi è legata fondamentalmente alla microcultura non di sfruttamento. Questa microcultura, che non è basata sullo sfruttamento, è la condizione dell’equilibrio del territorio, e quindi può intervenire sul territorio con dei criteri che sono totalmente diversi da quelli che nascono da una società invece di sfruttamento, qual è la nostra, (che già peraltro comincia a manifestarsi dal ‘500, che adotta la monocoltura, che vede la montagna in funzione solamente di una fruizione di svago, ecc., ecc., che relega il contadino alla periferia o ai margini dello sviluppo, e tutti questi discorsi che voi sapete benissimo e meglio di me). Questo modello e questa immagine moderna è ciò che più contrario a quello che noi riteniamo l’obiettivo primario da perseguire oggi nella pianificazione e nella programmazione del territorio e nell’equilibrio dell’ambiente (leggi, ecologia e tutte queste storie). La conoscenza di queste forme di vita e di forme insediative è la condizione ineliminabile per intervenire sul territorio, altrimenti si va alla cieca, e questo, diciamo, è un fatto operativo, è un fatto strumentale, e bisogna possederlo, perché bisogna possedere anche gli strumenti materiali della vita, ma non è l’obiettivo di una storia, dev’essere un altro. Quale? Forse quello di ritrovare nel passato quelle che noi riteniamo le coordinate dell’immagine di società e di vita che abbiamo noi oggi? E’ un rischio in cui cadiamo molto spesso e troppo spesso, ed è il rischio dell’ideologia, ed è il rischio di vedere la storia come puntello, come antefatto di quello che noi abbiamo deciso di essere, di quello che noi abbiamo deciso di fare. E badate che questo rischio c’è anche nella tradizione cristiana! Si annida sempre, e rischiamo di cascarci dentro, e ci caschiamo: siamo peccatori, ci caschiamo dentro. Anche il vedere nel passato dei modelli realizzati di vita cristiana può diventare ideologia, quando non riusciamo a cogliere, il nesso drammatico che c'è oggi tra noi e quelli che in passato hanno vissuto quell'esperienza in cui noi ci sentiamo dentro e che ci hanno preceduto in un cammino e in una strada. Io credo che questo sia l'obiettivo di un lavoro come quello che possiamo fare: è un obiettivo che sembra che sfugga di mano, sembra di non possederlo, sembra che renda poco praticamente utilizzabile il lavoro culturale che si fa, la ricerca che si fa, le cose che si vanno a leggere, che si vanno a vedere; eppure è l'unica strada, l'unica strada per aprirsi a una vita. Io dico queste cose perché oggi penso che, se siete venuti qui a sentirmi avrete o sentirete alcuni problemi che riguardano appunto la conservazione dell'ambiente storico, del patrimonio storico e così via. Oggi i conservatori del patrimonio storico fanno di tutto per conservare i reperti materiali del passato, come se la conservazione materiale della storia del passato fosse la condizione dell'esistenza per noi oggi: una continuazione, diciamo, una perpetuazione di oggetti e di cose. La cultura materiale ci insegna questo (o vorrebbe insegnarci questo): vorrebbe una dipendenza dai meccanismi delle cose, e quindi anche dal manufatti artistici, dalla storia come successione di manufatti artistici. Tutto ciò non è né più né meno che la riproposizione più aggiornata di un materialismo di vecchio stampo; questo non si deve fare, questo impedisce, questo nega la vita, nega il rinnovamento. Il rinnovamento e un distacco, un distacco dalle cose stesse, non per rifiutarle, ma per riviverle. In questa storia, nella storia popolare dell'Europa occidentale, io credo che noi leggiamo questa capacità di distacco, o almeno o che ci interessa leggere, ciò che più ci prende, ciò che ci accomuna, che ce la rende simpatetica, è questa capacità di vivere nelle cose e nello stesso tempo, fa parte di questi popoli, la capacità di saper utilizzare queste cose per un obiettivo, un obiettivo non definito, un obiettivo misterioso che è al di là delle cose stesse. Questo è un fatto che la cultura occidentale ha sempre avuto presente, ha sempre avuto in sé, anche in modo naturale prima ancora che il Cristianesimo entrasse a dargli una ragione storica.. La religione naturale delle popolazioni Celtiche protostoriche e così via, si è espressa spesso in queste forme del dolmen, della pietra, ecco, qui ritorna il tema nostro della mostra dell'architettura in pietra: perché la pietra? Il do1men è la soglia, il dolmen è il passaggio dal mondo noto a un mondo misterioso; non a un mondo ignoto, ripeto, a un mondo misterioso, un mondo che è sempre al di là dell'esperienza, un mondo che si pone sempre come qualcosa al di là dell'esperienza. Perché? Perché il mondo non è ciò che l'uomo costruisce, il mondo è dato all'uomo per accompagnarsi, con lui, a un futuro che è misterioso. Il Cristianesimo è entrato in questa tradizione di religione naturale della storia occidentale, malgrado tutti gli impedimenti delle ideologie, da quella romana a quella poi subentrata medioevale. E’ entrato, e ha trovato terreno fertile, e ha trovato nello stesso tempo una capacità, di queste culture, di riesprimere questa sacralità della vita. E questa cultura dell'Europa occidentale riesprime la sacralità della vita, l'ha riespressa (ci sono tanti modi per riesprimerla, in questo caso l'ha riespressa nella pietra), l'ha riespressa nella continuità dello spazio del villaggio, ma l'ha riespressa soprattutto nella casa, nella soglia della casa, in questi portali che quasi in modo ossessivo di ripetono in tutta l’Europa, e che ripropongono e ripetono il tema del dolmen megalitico; in questa sacralità del focolare, dove fortunatamente, invece delle teste mozzate degli avi o dei morti del villaggio, l'età cristiana ha sostituito le teste scolpite in pietra, che ogni famiglia porta con sé, o dentro i muri del focolare o dentro i muri della casa, inscindibili con questa realtà materiale di villaggio, le comunità rurali del Medio Evo esprimono e testimoniano per noi, e di sacrificare per questa sacralità ogni illusione di ideologia e di potere, ogni speranza di affermarsi anche a partire da una giustizia contro i potenti stessi. E’ una pacificazione della vita e della natura, momenti di equilibrio indubbiamente che la storia ci presenta e a cui noi dobbiamo attaccarci per trovare non tanto dei modelli schematici, ma dei compagni di viaggio, nella nostra storia e nella nostra esperienza.