Ipotesi su un miracolo

Martedì 24, ore 18.30

Relatore:

Vittorio Messori,
scrittore

Moderatore:

Alberto Savorana

Savorana: Vittorio Messori è un amico, oltre che un grande scrittore. Lui non vuole che si dica questo perché è molto umile, ma i milioni di copie dei suoi libri che in questi anni sono stati venduti e tradotti in tutto il mondo, dicono che spendere parole di elogio, di plauso, non è esagerato. Chi non è d’accordo con lui, chi lo giudica politicamente scorretto, deve comunque riconoscergli un uso della ragione come raramente si trova: nella nostra epoca dubbio e paura sono diventati la legge del pensiero e dell’esistenza.

Il suo ultimo libro, la sua ultima creatura, pubblicato da Rizzoli all’inizio di quest’anno, ha già macinato più e più edizioni, ed è senza dubbio una provocazione. È una provocazione perché mette a tema qualcosa che per il mondo non è neanche pensabile, tanto è sentito inconcepibile: il fatto che il Mistero, Dio, interviene nel reale, modificandolo, producendo un fenomeno di cambiamento così clamoroso che in qualche modo chi vi si imbatte debba pensare a qualcosa d’altro rispetto a quello che crede già di conoscere e possedere. Questo è il miracolo: l’inesorabile evocazione di un significato più grande del segno che lo porta.

Messori: Correva il 1990; durante l’edizione del Meeting di quell’anno, presentai il mio libro appena uscito, che si chiamava allora Un italiano serio e che molti conoscono con il nuovo titolo Il beato Francesco Faà Di Bruno, ripubblicato dalla BUR nella collana diretta da don Giussani. Per alcune parole che mi sfuggirono, fui trasformato nel mostro di Rimini. Che giornalista sarei se prendessi troppo sul serio i giornali? Guardavo con un misto di ironia a quella lapidazione a cui tutti si unirono, perché accusato di aver chiesto il tribunale di Norimberga per i baffuti padri della patria. In realtà, la ruota gira, i tempi cambiano, e se chiedessi oggi la stessa cosa, chiedessi appunto un tribunale di Norimberga per Mazzini, Garibaldi, Vittorio Emanuele, invece che lapidato, probabilmente sarei incoronato con l’alloro in Campidoglio in segno di riconoscimento, perché da nove anni a questa parte quello che allora sembrava una provocazione, una provocazione intollerabile – laici e cattolici, comunisti e fascisti, furono uniti nel gettare le pietre –, oggi è diventato un nuovo conformismo. Memore di questa ruota, che fu molto noiosa perché mi costrinse poi (io sono piuttosto pigro, scrivo soltanto per dovere) a scrivere degli articoli di replica, delle precisazioni, non vorrei che se ne mettesse in moto una simile. Quindi cercherò di misurare le parole, cominciando col dirvi che pensavo, venendo qui, che a motto di questo tema sta una frase molto bella: "il Mistero genera stupore".

L’équipe della Rai, elettricisti, tecnici, fonici, registi, aiuto registi, che hanno seguito il progetto di documentare il miracolo di Calanda, hanno mostrato veramente stupore. La situazione è in qualche modo schizofrenica, imbarazzante, perché mi trovo ad avere fatto una sorta di scoop con tre secoli e mezzo di ritardo. Quando uscì il libro erano passati 358 anni da quella notte fatale del 29 di marzo del 1640. Il cuore festante del cronista, d’altra parte, deve fare i conti anche con l’amarezza del credente, nel constatare che questo miracolo per eccellenza è stato dimenticato per secoli. Non a caso gli spagnoli lo chiamano El Milagro, senza altro aggettivo, o El Milagro de los Milagros. La bellissima liturgia che la Santa Sede ha concesso alle diocesi di Saragozza, proprio nell’anniversario di questo miracolo, cantava in latino: "Non fecit taliter omni nationi", "Non ha fatto nulla di simile per nessun’altra nazione". Ci troviamo in questa situazione paradossale: il miracolo per eccellenza fece clamore per qualche anno nell'intera Europa e poi cadde in una sorta di dimenticanza. La sconcertante situazione mi pone come primo italiano che dedica attenzione, ricerca, fino addirittura a farne un libro intero, a questo evento che dovrebbe essere conosciutissimo almeno tra i cattolici.

La sfida di tutti i positivismi, di tutti gli agnosticismi, di tutti i miscredenti, è sempre stata questa: poter vedere come ex-voto, almeno una volta, una gamba di legno appesa in qualche santuario. Émile Zola – apostolo del Positivismo in letteratura così come Renan lo era in esegesi e in teologia – nel 1896 accompagnò beffardo il pellegrinaggio nazionale francese a Lourdes. Intendeva preparare un romanzo dissacrante e riuscì nel suo intento, avendo anche molto successo, scrivendo un best seller. Giunto davanti alla grotta e vedendo gli ex-voto che allora pendevano dalla grotta, affermò: "Vedo tanti bastoni, vedo tante stampelle, ma non vedo nessuna gamba di legno". La scienza non lo aveva ancora scoperto, ma certamente avrebbe prima o poi trovato la spiegazione della guarigione da una paralisi: sarebbe stato qualcosa di ben diverso spiegare una gamba di legno. Renan stesso conferma le parole di Zola: "Basterebbe un solo miracolo davvero provato – e anche lui citava la solita gamba che ricresce – per confutare l’ateismo". In fondo, Zola stesso osservava, vedere risuscitare un morto sarebbe meno probante di una gamba che ricresce, perché i casi di morte apparente sono tanti.

Il miracolo, per fortuna, è il mio tredicesimo libro: con i dodici precedenti mi sono procurato almeno quel minimo di credibilità che ha impedito che mi legassero e mi trascinassero in qualche stanza imbottita, per aver scritto un libro su una gamba che ricresce. Non faccio parte di quella intellighenzia clericale che pretende di stabilire il piano a Dio; molti teologi, nel comfort dei loro studi e delle loro biblioteche, stabiliscono ciò che il Padreterno può fare o non può fare, ciò che è teologicamente e teologicamente scorretto. Fanno il piano a Dio: in questo piano è considerato teologicamente scorretto ciò che va al di là delle leggi della natura, quindi il Padreterno non può e non deve fare quello che noi chiamiamo il miracolo e il prodigio. Non faccio parte di questa cerchia, ma ho letto da qualche parte che le vie di Dio non sono le nostre vie.

Per questo motivo spesso mi sono occupato di prodigi e di miracoli tenendo sempre presente che se dono di Dio è indubbiamente la fede, è altrettanto dono di Dio la ragione. Non sono affatto, come direbbero gli spagnoli, un milagrero, un visionario che va alla ricerca di miracoli. Non essendo nato cristiano, né tanto meno cattolico, per me la fede è stata una scoperta alquanto tardiva: quella cultura che mi ha formato o deformato – non ho ancora ben stabilito se questa laicissima cultura nelle scuole, nei santuari laici della vecchia Torino mi abbia appunto formato o deformato – potrebbe tentarmi nella direzione del razionalismo e non della superstizione. Sta di fatto che ho sempre pensato che la ragione sia un dono di Dio e che quindi ci debba accompagnare fino alla soglia del Mistero. Per dirla con Pascal: "L’ultimo passo della ragione è riconoscere che vi è un’infinità di cose che la superano".

La ragione deve condurci fino a un certo punto. Ho sempre cercato di ragionare sui prodigi, di cui la storia del cristianesimo non è mai stata avara, nella consapevolezza, naturalmente, che si è cristiani soltanto perché si accetta un miracolo. In fondo è d’obbligo, se ci diciamo credenti, accettare e credere al miracolo del sepolcro vuoto; l’intero cristianesimo, parole di Paolo di Tarso, resiste o cade sul fatto della resurrezione di Gesù. Tutto il resto, tutti gli altri miracoli di fatto non sono indispensabili: sono doni di un Dio generoso, il quale ci dà questi segni in più, per venire incontro all’incredulità che sempre ci minaccia. Mi sono, quindi, sempre avvicinato a questo mondo del miracoloso con una grande tranquillità, convinto, e nel libro lo preciso subito, che il vero libero pensatore, di fronte a questo mondo misterioso e inquietante, è il credente. Il non credente è costretto a negare sempre e comunque anche l’evidenza: se constatasse e accettasse il miracolo, crollerebbe tutto il suo schema. Il credente davvero è un libero pensatore di fronte a questi eventi perché, se io mi fossi convinto che qui non è stata riattaccata nessuna gamba due anni e mezzo dopo l’amputazione, per la mia fede nulla sarebbe cambiato.

La mia fede non riposa sulla gamba di Calanda. Zola aveva ragione allora e avrebbe ragione anche adesso. Aveva ragione nel 1896 e avrebbe ragione nel 1999, perché tra i casi ufficialmente riconosciuti a Lourdes come miracolosi, non sono mai ricresciuti gli arti. La situazione non è così soltanto a Lourdes. Nella storia cristiana si parla dei santi Cosma e Damiano, i quali avrebbero reimpiantato a un bianco la gamba di un nero: avrebbero creato una sorta di uomo bicolore. Si parla di san Giovanni Damasceno, difensore delle icone, a cui gli iconoclasti tagliarono la mano; Maria, per ringraziarlo di aver difeso le sue icone, gli avrebbe reimpiantato la mano. Si parla di sant’Antonio da Padova che avrebbe reimpiantato il piede a un ragazzo. Nella agiografia cristiana si trovano spesso racconti di questo tipo. Questi racconti, però, fanno parte di un genere letterario preciso, che è quello della agiografia, del fioretto, della pia credenza, talvolta anche della leggenda. Potrebbero essere veri, ma non esiste alcun caso che goda di una documentazione tale da appagare il nostro gusto critico di moderni, non esiste documentazione sufficiente per potere dare assenso ragionevole a questi eventi. Il libro sul miracolo di Calanda è la storia di una resa, proprio perché il caso è documentato: questo fa la differenza.

Tutto sommato, sarei stato contento se, alla fine della ricerca, avessi dovuto constatare che anche qui ci trovavamo di fronte a una pia credenza senza una solida base documentaria. Credevo con Pascal che Dio lascia abbastanza luce per chi vuole credere, ma conserva anche abbastanza ombra per chi vuole negare. Nel sistema cristiano la negazione, l’agnosticismo, l’ateismo, sono del tutto fisiologici: dimostrano come la fede non sia una costrizione e come il Paradiso non sia un lager dove tutti sono costretti ad andare perché Dio si è reso così evidente che dobbiamo tutti rispettare la sua volontà. Dio può tutto, ma se avesse fatto rispuntare una gamba avrei considerato questo evento una sorta di violenza, mi sarei sentito obbligato, avrei visto sconvolta questa mia immagine di un Dio che rispetta la nostra libertà. Quando mi sono accorto – e fin dall’inizio con sgomento – che mi trovavo di fronte ad una documentazione granitica, originale, inoppugnabile, la mia speranza è stata a lungo quella di incontrare qualche documento avverso, di trovare qualche crepa in questo edificio, di arrivare, cioè, a scoprire che tutto sommato anche in questo caso più che di fronte a un caso storico ci trovavamo di fronte ad una pia tradizione. L’avrei preferito perché ciascuno di noi, anche per pigrizia, si adagia nelle sue gabbie, nei suoi schemi.

Per una volta a Calanda il chiaroscuro, però, non è stato rispettato. Non è stato rispettato al punto che il libro non è diventato un libro di religione, ma di storia. Mi è costato, proprio perché volevo essere ben sicuro di non ingannarmi e di non ingannare, più e più viaggi nella desolata bassa Aragona, tra gli archivi impolverati della Spagna, a confrontarmi con storici aragonesi. Esaminata tutta quanta la bibliografia in proposito ho scritto un vero e proprio dossier da cronista. Avrei potuto riempire questo libro di note, non l’ho fatto perché non è nello stile dei libri che propongo ai lettori: le note sono comunque a disposizione di chi le richieda.

Questo libro di storia va a sbattere contro il muro del mistero. È un libro di storia che finisce laddove bisogna scegliere: o ci si persuade che arrivati a quel punto il solo modo per rispettare la ragione è andare al di là di essa, oppure ci si ferma davanti a questo muro, rinchiudendosi, nel ghetto soffocante di ciò che non è più ragione ma razionalismo. Io stesso alla fine del libro lancio l’invito ai lettori di segnalarmi eventuali fragilità della ricostruzione; fino ad ora mi sono pervenute osservazioni già ampiamente da me previste. Per esempio qualcuno ha osservato che ci sarebbe potuto trattare di uno scambio tra gemelli. L’ipotesi fu avanzata dai "rossi", ma è priva di fondamenti, data la scrupolisità dei documenti anagrafici dell’epoca. Questa fu una delle menzogne della terribile dittatura che colpì all’inizio del secolo questa zona.

Ci troviamo, infatti, nella bassa Aragona, dove gli anarchici catalani arrivarono e distrussero tutto. Per liberare proprio la zona di Calanda, intervennero gli italiani e, nel marzo del 1938 ne morirono tremila nell’offensiva per spezzare il fronte repubblicano. Si trattava di truppe mandate da Mussolini e proprio per questo sono morti dimenticati da tutti, tranne che dagli aragonesi. Quando arrivai a Calanda, villaggio desolato di tremila abitanti, in quello che le mappe, non a caso, indicano come el desierto de Calanda, ero probabilmente il primo italiano che arrivava lì dopo sessantuno anni, cioè dai tempi dell’offensiva che portò alla rottura del fronte e alla fine della guerra di Spagna. Si sparse immediatamente la voce che c’era un italiano, gli abitanti saltarono fuori da case calcinate, da un fondale tipo "spaghetti western". Un paesaggio bellissimo che ricorda la Giudea, la Samaria e la Terra Santa: scenario molto adeguato, per un evento come questo che è un segno di resurrezione. Da queste case saltarono fuori tanti vecchi e si precipitarono sul sottoscritto. Cominciarono ad accarezzarmi e a chiamarmi italianito bonito, italianito bonito, tutto questo semplicemente perché volevano dimostrare ancora affezione e riconoscenza per quegli italiani in camicia nera del 1938. Scene simili dovevano essere successe quando i romani accolsero gli americani nel giugno del 1944. Se qualcuno volesse affrontare il difficile e rischioso mestiere del revisionista, vada in bassa Aragona e avrà pane per i suoi denti: si renderà conto che quelli che dentro i nostri schemi sono i cattivi per eccellenza, per gli aragonesi, ancora oggi sono in realtà i buoni.

Il governo italiano – il quale è un po’ imbarazzato, ovviamente, per questi morti – ha riunito ora, nel sacrario di Saragozza i resti degli ottomila italiani che caddero in quei terribili tre anni di guerra civile. Prima che i resti degli italiani dispersi nei piccoli cimiteri dell’Aragona venissero trasferiti dalla torre al sacrario di Saragozza, gli aragonesi non fecero mai mancare fiori freschi sulle tombe di quegli italiani ai quali dovevano la liberazione dal terrore rosso. Questi rossi si spinsero fino a far fucilare innumerevoli persone semplicemente per aver pronunciato inavvertitamente la parola proibita: adiòs. Essendo adiòs un richiamo a Dio, molti furono fucilati a Calanda stessa. Se andrete in Aragona, fate qualche domanda su quel periodo agli anziani e vedrete che i libri che avete studiato a scuola, almeno per quello che riguarda alcuni paragrafi, dovranno essere riletti secondo un’altra versione.

Sembra opportuno raccontare, a questo punto, la storia del milagro. È successo, semplicemente, in brevissima sintesi, che un contadino dell’Aragona, di Calanda per l’appunto, ebbe un incidente sul lavoro: la sua gamba finì sotto la ruota di un carro carico di grano. La frattura era tale che con i mezzi della medicina del tempo l’unica soluzione fu l’amputazione. L’operazione, avuta luogo nell’ospedale di Saragozza, si svolse utilizzando strumenti rudimentali: sega da falegname per tagliare la carne, scalpello e martello per spezzare l’osso e ferri roventi per cauterizzare la ferita. Evidentemente la fibra di questo contadino doveva essere tale da permettergli di superare un’operazione di questo genere. Dopo mesi e mesi di convalescenza venne dimesso dall’ospedale con una gamba legno, fornitagli dall’amministrazione del lazzaretto stesso, una stampella, e un patentino da mendicante, persona che chiede l’elemosina in nome di Dio. Quest’ultimo gli permise di stendere la mano davanti al grande santuario di Nostra Signora del Pilar.

In questa storia, così, un mistero si incastra nel mistero. Ciò che alla fine mi ha fatto allargare le braccia ed arrendermi all’evidenza dei fatti, e che costringe il lettore oggettivo a fare altrettanto, è un enigma molto duro e il fatto di un incastrarsi di enigmi. Quello che avverrà a Calanda, cioè il reimpianto istantaneo provatissimo, pubblico e definitivo di una gamba amputata due anni e mezzo prima e sepolta nel cimitero, ebbene, questo evento unico nella storia del cristianesimo, avviene per intercessione di un culto, di una invocazione mariana, che è anch’essa un unicum. Il santuario di Saragozza è il luogo dove, nella notte del 2 gennaio dell’anno 40, Maria apparve a san Giacomo. Non si trattò di apparizione, ma di venuta: la Madonna, giunta a consolare l’apostolo deluso delle poche conversioni tra gli spagnoli, non era ancora passata attraverso la morte. Quella notte san Giacomo si trovava sulla riva dell’Ebro – a Cesarea Augusta diventata poi la Saragusta degli arabi – stava congedandosi dai soli sette discepoli che era riuscito a convertire. Ad un certo punto le tenebre si illuminarono, apparve Maria portata da una schiera di angeli e un pilastro portato da una seconda schiera. Prima di andarsene Maria avrebbe detto agli angeli di infiggere, lì nel terreno, quel pilastro di granito, segno di ciò che sarebbe stata la fede degli spagnoli. Il santuario sorto attorno è stato, nei secoli, più e più volte rifatto, ma mai, per quanto lontano si vada coi documenti, il pilar è stato spostato: è rimasto sempre lì.

Non bastassero questi misteri occorre ricordare che il 12 ottobre del 1492, dall’alto dell’albero maestro di una caravella che si chiamava, non a caso, "Santa Maria", un marinaio, per giunta un aragonese, gridò per la prima volta "terra!". Il 12 ottobre a Saragozza si celebrava con grandissimo fasto la festa della Nostra Signora del Pilar, mentre un aragonese segnalava la scoperta del nuovo continente. Non a caso, da sempre la Virgen del Pilar è patrona di tutta la gente di lingua spagnola, non a caso attorno alla cappella dove è conservato il Pilar stanno le bandiere di tutti gli stati latinoamericani, non a caso, ancora oggi, il nome femminile più diffuso in tutta l’America Latina è Pilar.

Gli enigmi non finiscono qui, ma è utile tentare un bilancio. Pare di potere concludere che, se noi volessimo mettere in dubbio questo evento, dovremmo mettere in dubbio ogni altro evento della storia, a cominciare dalla esistenza di un signore chiamato Napoleone Bonaparte. Dopo tanti anni di frequentazione della storia, spero di non essere un dilettante. La mia remota laurea all’Università di Torino era proprio in storia così come la mia tesi: da allora la storia è la sola disciplina che abbia davvero coltivato sempre. Proprio sulla base di questa esperienza, e non essendo certamente la prima volta che frequento archivi e biblioteche, dico che se noi, per qualunque altro evento della storia, avessimo una documentazione così completa come nel caso del milagro, potremmo fare i salti mortali di gioia.

Questo non è solo un miracolo che mette con le spalle al muro per la sua attendibilità: in questo tempo di buonismi, di cristianesimi politicamente e teologicamente corretti, ci troviamo di fronte, finalmente, ad un evento scandaloso. In questo caso è davvero possibile recuperare quello scandalo, quella follia che, parola di san Paolo, fa sì che il cristianesimo resti tale. Qui davvero il sale non è scipito, qui il sale ha ancora il suo sapore. Questo non è soltanto un miracolo per la ragione, perché si va al di là delle leggi della natura: si tratta di un reimpianto di un organo sepolto da due anni e mezzo, e certamente sepolto, e certamente distrutto dalla cancrena e dalla terra nella quale era stato messo. Lo scandalo nasce anche dal fatto che questo è un miracolo scandalosamente cattolico: si tratta di una sorta di imprimatur divino alla Spagna del ’600. Questa è la Spagna che aveva appena cacciato i moriscos, che aveva respinto i marranos, la Spagna della devozione mariana, del culto popolare guardato come superstizioso da tanti nostri liturgisti. Qui viene premiata la fede di quei contadini considerati fanatici, oscurantisti, ignoranti. Il miracolato è, naturalmente, un analfabeta, ma tutta la Chiesa che lo circonda è quella Chiesa che fa fremere di orrore certo cattolicesimo corretto.

Non a caso uno dei motivi di straordinaria conferma della storicità di questo fatto è che si svolga sotto l’occhio sospettoso, attento, a cui nulla sfugge, dell’Inquisizione. Il fatto che l’Inquisizione non intervenga, il fatto che non mandi a casa tutti, o magari metta qualcuno nelle sue ben guardate segrete, è una garanzia straordinaria di storicità: se ci fosse stato il minimo sospetto di superstizione, l’Inquisizione sarebbe venuta. Soltanto nei talk show televisivi, soltanto nelle chiacchiere da bar si pensa che la Suprema – come gli spagnoli chiamavano quel tribunale – fosse un organo per favorire la superstizione. Al contrario, tentazione della Suprema era, semmai, il razionalismo: temeva soprattutto i visionari, i falsi profeti, i mistici. Uno dei motivi che mi fa pensare che proprio oggi sia particolarmente attuale questo miracolo è proprio la considerazione che qui non si tratta soltanto di una straordinaria conferma della verità della fede cristiana, ma anche di uno straordinario avallo venuto dal cielo stesso, con un evento che non ha esempi in nessun altro tempo e luogo. Un esempio di quella modulazione cattolica che oggi spiace tanto anche a certi cattolici stessi.

Savorana: Il miracolo di Calanda è una testimonianza scandalosa; è il cristianesimo stesso che nasce per una testimonianza scandalosa, vale a dire per l’annuncio di qualcosa che sembrava impossibile eppure è reale: quel mistero che l’uomo antico indicava come l’ignoto, fonte di una paura, e quindi di una incertezza al riguardo della possibilità che la propria vita potesse svolgersi come positiva. Quello che era un ignoto lontano, ha assunto la carne dell’esistenza: questo è lo scandalo che ci rende familiare anche un miracolo così inaudito come quello di cui tratta Ipotesi su un miracolo.

Si tratta di un’evidenza semplice, come fu semplice per il cieco nato lavarsi nella fontana e dover riconoscere che, dopo essere stato cieco, finalmente ci vedeva; i capi del popolo, invece, rimasero prigionieri del proprio pregiudizio.

"L’imprevisto è la sola speranza, ma mi dicono che è una stoltezza dirselo", scrive Montale. La condizione drammatica in cui viviamo è frutto di secoli di storia in cui si è preteso di contestare l’evidenza della realtà: non c’era e c’è. Questo è il mistero. Quella gamba non c’era più, e poi c’è: non è magia, è la legge della realtà, che nessun uomo ha prodotto, e che Colui che ha suscitato dal niente può manipolare facendo meraviglie.

Per credere al miracolo, bisogna che tutto l’urto di quella mentalità che ha preteso di negare la realtà facendola consistere nel pensiero capace di produrla, sia contestato da quella che il Vangelo chiama la semplicità dei bambini, di chi conserva una lealtà.