Tutto il mondo in città: le megalopoli del terzo mondo

Martedì 25, ore 11

Relatori:

Anna Michelini

Antonio Kandir

Sumihiro Kuyama

Franco Foschi

Gervasio Gestori

Moderatore:

Gianluigi Da Rold

 

Da Rold: Il tema che affronteremo è forse uno dei più drammatici della realtà contemporanea. Parliamo delle megalopoli del Terzo Mondo, una realtà che, vista all’improvviso, può suscitare sentimenti come essere all’inferno. Mi è capitato molto spesso sia in Africa sia in Sudamerica di trovarmi in alcune megalopoli; il primo aspetto che si può notare è proprio un contrasto estetico spaventoso. A San Paolo ho visto nello spazio di un chilometro baracche infernali nel degrado più terribile e palazzi smaglianti, dove la vita forse è migliore che nella stessa Europa o negli Stati Uniti. Ma la realtà complessiva delle megalopoli sconvolge soprattutto in Africa dove spesso si muore di fame o di sete.

In Brasile, l’anno scorso, ho fatto un lungo giro nella favelas e poi in alcuni centri dell’Amazzonia. Non ero mai entrato in una favelas, non avevo mai visto questo tipo di inferno. Se ci sono entrato a Rio, a Belo Horizonte, a San Paolo, a Bahia, lo devo ad Anna Michelini ed ai suoi amici che sono lì ad operare. E’ un fatto incredibile e straordinario quello che riescono a fare: riescono a parlare con dei delinquenti, in un mondo di violenza; riescono a ristrutturare ambienti impossibili. Una realtà, la loro, che i mass media non trattano molto ma credo siano le più esemplari da citare.

Anna Michelini è nata a Milano 37 anni fa. E’ sociologa specializzata sui temi della sociologia urbano-rurale e dello sviluppo. Ha lavorato come responsabile della formazione nella CISL del Trentino-Alto Adige e come dirigente sindacale delle categorie tessili-abbigliamento e sanità.

Dall’84 lavora nel campo della cooperazione allo sviluppo per l’AVSI (Associazione Volontari per il Servizio Internazionale). Ha collaborato alla realizzazione di vari progetti di cooperazione in Brasile e particolarmente all’intervento integrato di recupero sociale e ambientale delle favelas nella metropoli di Belo Horizonte, stato del Minas Gerais, Brasile. A motivo della vasta esperienza nell’affronto degli squilibri economici, sociali e ambientali delle megalopoli, è in procinto di stabilirsi a Salvador Bahia per lavorare ad un nuovo progetto di recupero di insediamenti marginali sul litorale marittimo ("Alagados").

Michelini: La mia è una storia personale che si intreccia alla storia di tante persone che lavorano da otto anni in Brasile per un progetto di cooperazione allo sviluppo promosso dall’AVSI il quale si propone di rendere vivibili certi quartieri e di riconoscere i diritti come uomini e come cittadini a quanti vivono nelle favelas, queste immense baraccopoli dove vive, in città come Belo Horizonte, un quarto della popolazione, 500.000 persone su 2.000.000 di abitanti e che, in altre città più povere, arrivano a comprendere anche metà della popolazione. Sono come città clandestine entro la città ufficiale.

Per anni sono state vissute come un fenomeno negativo, indesiderato, da nascondere, un fenomeno che, in qualche modo, il progresso avrebbe prima o poi spazzato via. L’unica strategia che si è utilizzata nei confronti di tale fenomeno per anni è stata quella dell’espulsione violenta (specialmente in Brasile negli anni della dittatura militare) attraverso operazioni di polizia o quell’"espulsione naturale" che la speculazione immobiliare crea, spingendo sempre più i poveri verso la periferia. Comunque, la favelas non era mai stata considerata come qualcosa di recuperabile e i suoi abitanti non esistevano per la città ufficiale, perché non avevano diritto a nessun tipo di beneficio urbano, dai servizi più essenziali come l’acqua, le fogne, la raccolta della spazzatura, ai servizi che riguardano la salute, la scuola, carenti anche al di fuori delle favelas.

Il motivo che ci ha spinti ad iniziare un lavoro in questa periferia era l’amicizia con persone italiane che erano lì da molti anni, in mezzo ai favelados, per un lavoro di presenza della Chiesa e che, partendo non da analisi astratte, ma da una condivisione della realtà, avevano cominciato a vedere questo problema con gli occhi degli abitanti. Dal punto di vista degli abitanti la favelas è molto diversa da quella che normalmente i benpensanti si immaginano: per loro è il frutto di anni di sacrifici, di lotte, di solidarietà, nell’intento di rispondere in modo autonomo ai propri bisogni di cui né la società né il governo si interessano. I movimenti dei favelados hanno una specie di slogan che io trovo interessante: "la favelas non è un problema, ma è l’inizio di una soluzione". Nella convivenza, infatti, si capisce che le favelas sono realtà molto più organizzate di quanto non ci si immagini. Io mi ricordo che ho accompagnato un giornalista in un accampamento di baracche iniziali, un’invasione recente fatta di materiale plastico, con gente buttata lì insieme ai bambini, alle pentole. Lui pensava di trovare solo caos, invece ci è venuto incontro un signore che si è presentato subito come Assessore della pianificazione del Movimento dei senza tetto. Egli ci ha spiegato che aveva una logica precisa tutta l’invasione fatta, dove si pensava poi di costruire le case; ogni famiglia già aveva occupato il suo pezzettino, in vista di un futuro quartiere: una forma di urbanizzazione spontanea. Questo sforzo non è riconosciuto, proprio oggi che si parla tanto di sviluppo sostenibile! Penso si possa dire che la favela sociologicamente è un’organizzazione sociale capace, con un supporto esterno che deve essere dato (perché nessuno con nessun mezzo può fare qualcosa), di arricchire e rafforzare i propri mezzi e prendersi cura del proprio ambiente soddisfacendo nel frattempo i propri bisogni fondamentali.

Da dove viene questa capacità di iniziativa e di solidarietà, come si può svilupparla? La favela non solo è abbastanza organizzata, ma ci sono associazioni democraticamente elette che si occupano dei problemi della gente riuscendo a fare cose significative: nessuno gli fa la fogna, loro si uniscono e la fanno, trascorrono i loro fine settimana a costruire la chiesa per la loro comunità o l’asilo per i loro bambini e se li gestiscono. Nelle favelas di Belo Horizonte, gli unici servizi sociali sono autogestiti da famiglie di favelados. Sono associazioni comunitarie, con una capacità, una dedizione e, soprattutto, una voglia di mettersi insieme e di aiutarsi che non c’è in molti quartieri benestanti. Perché succede questo, perché c’è questa solidarietà? Normalmente la miseria e le difficoltà abbruttiscono e schiacciano quando non c’è una visione del mondo che fornisca un significato, una ragione per questa battaglia quotidiana. Io credo si possa dire, che in Brasile, specie nel Minas Gerais, lo Stato forse più tradizionalmente cattolico del Brasile, sopravvivono le radici di una evangelizzazione antica, di una visione del mondo che è ancora cristiana, anche se con qualche problema. Un favelados diceva: "Mi sono sentito una persona dopo essere venuto qui; per le persone che abbiamo incontrato, oggi qui viviamo una vita da fratelli nella comunità. Io mi sono ammalato due volte e non potevo comprare le medicine, i miei vicini hanno fatto una colletta poi, siccome non bastavano i soldi, sono andati a chiedere fuori e mi hanno portato queste medicine, così sono guarito. Un’altra volta ho trovato un lavoro, ma finché non ricevevo il primo salario non avevo da pagare il trasporto. Ho spiegato nella riunione della comunità la situazione e loro mi hanno aiutato. Tutto questo lascia un segno nella nostra vita. Qui abbiamo fatto varie cose insieme: ricostruito le case distrutte dalla piena del fiume, le fogne, abbiamo fatto l’asilo per i nostri bambini". Quando io gli ho chiesto da dove venisse questa tradizione di comunità, lui mi ha risposto che personalmente per lui veniva dall’essere legato alla Chiesa fin dall’infanzia grazie a sua madre che, anche se nella zona rurale in cui vivevano il prete non c’era mai, manteneva una specie di catechesi familiare. "Solo quando sono venuto qui però ho capito che cosa vuol dire vivere in una comunità".

Se però da un lato, questi riferimenti ad un’opera di evangelizzazione antica sopravvivono, dall’altro non bisogna illudersi, perché sicuramente tale visione della vita e del mondo è in declino, anche in America Latina, a causa dell’impatto con la cultura urbana e con i modelli che si hanno davanti. In questi Paesi ha grande peso la frustrazione dovuta alla consapevolezza di quanto sia menzognero e irraggiungibile per loro un simile paradiso artificiale di benessere, successo, soldi, viaggi, indipendenza come libertà di scelta. Occorre partire dal bisogno concreto di una qualità della vita più umana, più degna, affinché queste persone possano avere la possibilità di avere una nuova coscienza, che genera grinta, desiderio di costruzione e di cambiamento, come si avverte nelle parole del favelados che prima ho citato.

La favela non è un fenomeno della periferia, è soprattutto un fenomeno del centro, è abbarbicata dentro la città. Abbiamo tentato di integrare anche dal punto di vista urbanistico, oltre che dal punto di vista sociale, la favela come un quartiere normale dentro la città. Le favelas si localizzano negli spazi che avanzano. I poveri occupano tutti i terreni liberi, con problemi seri di erosione, di frane, di allagamenti che a volte invadono e distruggono le case. Queste sono costruite all’inizio con materiali di fortuna, pezzi di compensato, plastica poi, man mano che la favela si consolida, tendono a diventare più solide.

Il lavoro in favela inizia sempre da un incontro: si fanno delle assemblee con le comunità, si spiega e si cerca di approfittare di tutto quello che la gente ha da dare, sia in termini economici, come il proprio lavoro volontario per aiutare nelle opere di urbanizzazione, sia in termini di organizzazione, di disponibilità: per esempio le mamme gestiscono l’asilo. Quindi ci sono varie assemblee in cui si decide il piano di lavoro e di ristrutturazione della favela.

Da qualche tempo con l’aiuto di moltissime persone qui in Italia e anche di ditte private, abbiamo montato un sistema informatico di elaborazione dati; si fanno così le mappe di tutte le favelas (che al momento non esistono) e di tutti i lotti. Una delle finalità di questa mappa è studiare il piano urbanistico per raccordare la rete di strade con la rete viaria del quartiere della città e permettere l’accesso ai trasporti e a tutta una serie di servizi che altrimenti non entrerebbero. Quindi si fa un censimento demografico di tutti gli abitanti i quali, alla fine del processo, ricevono il titolo di proprietà della terra e, con una legge avanzata, ottenuta attraverso l’aiuto della Chiesa, diventano proprietari del loro terreno. A partire da qui si sviluppa anche un processo spontaneo di miglioramento delle condizioni delle case. Quando si sentono sicuri e sanno che non saranno cacciati via dalla polizia, cominciano loro stessi a investire quel poco che hanno per migliorare la situazione.

Quindi, le mappe vengono registrate alla prefettura, al catasto, vengono a far parte della città, del piano regolatore. A quel punto iniziano le opere di urbanizzazione vera e propria, vengono installati per lo meno i servizi essenziali, con la collaborazione di tutti.

Antonio Kandir, economista brasiliano, è nato nel 1953. E’ stato professore al Dipartimento di Economia della Pontificia Università Cattolica di San Paolo (1984-85), nell’Istituto di Economia dell’Università di Campinas dal marzo ‘85, e Assistant Faculty Fellow all’Istituto di Studi Internazionali della University of Notre-Dame, Indiana, U.S.A. (1987).

Ha ricoperto, fra le altre cariche, quelle di Segretario di politica economica del Ministero di economia e pianificazione (1990-91), tecnico in ricerca e pianificazione presso l’Istituto di pianificazione economica e sociale del Segretariato di pianificazione della Presidenza della Repubblica.

Kandir: Abito a San Paolo, maggior città dell’America Latina, sono brasiliano, cittadino di un Paese che in questi ultimi decenni ha assistito ad un processo vertiginoso di urbanizzazione. Il processo che ha trasformato in megalopoli San Paolo, oggi la città più grande dell’America del Sud con circa 10.000.000 di abitanti, è iniziato negli anni ‘40, quando cominciava a prendere corpo l’industrializzazione. Specialmente l’insediamento dell’industria automobilistica nelle vicinanze della città, ha fatto slittare il centro economico del Paese da Rio de Janeiro a San Paolo. E’ venuta così a crearsi una grande migrazione di lavoratori provenienti da altre regioni del Brasile, Minas Gerais e da altri Stati del Nord-Est in particolar modo, e anche dall’interno dello Stato di San Paolo verso la città di San Paolo. Questo processo migratorio è stato intenso dalla fine degli anni ‘40 fino all’inizio degli anni ‘80, periodo in cui l’economia brasiliana è cresciuta in media del 7% all’anno.

Nell’80 il 36% della manodopera industriale del Paese era concentrato nella regione metropolitana di San Paolo come il 46% del totale degli stipendi e il 40% del valore della trasformazione industriale e degli investimenti del capitale nell’industria.

L’occupazione dello spazio urbano da parte dei nuovi contingenti che arrivavano in città è stata in quel periodo esplosiva e disordinata e in nessun momento vi è stato uno sforzo consistente di regolamentazione pubblica del processo di occupazione urbana. Nel periodo susseguitosi al dopoguerra, quando era già acuta la crisi dell’alloggio nella città, le autorità hanno usato un atteggiamento di permissivismo verso la popolazione che si spostava in massa verso la periferia della città, dove costruiva le proprie case. Con il golpe militare del ‘64, il processo di espansione disordinata della città viene ad intensificarsi. Con il ritorno alla democrazia, gli abitanti della periferia ricompaiono nella politica, sia in veste di clientelismo urbano tradizionale, sia sotto forma di movimenti sociali, con una grande partecipazione della Chiesa e dei partiti di sinistra legali e clandestini.

Attualmente le politiche pubbliche sono messe al servizio della costruzione della società moderna, fortemente elitaria. La concentrazione del reddito è aumentata in maniera sensibile. Il 50% dei meno abbienti a San Paolo ha soltanto il 20% del reddito mentre il 10% dei più abbienti ha il 30%. A San Paolo i quartieri più ricchi hanno il 100% dell’acqua, il 100% di fogne, esiste una mortalità infantile di 20-21 persone per mille, lo stesso standard dei migliori Paesi europei. Contemporaneamente, analizzando un’altra parte di San Paolo, ci sono però quartieri dove l’acqua è distribuita soltanto al 60% della popolazione, e le fognature sono erogate soltanto al 7-10% della popolazione circa. Questo incide molto sulla mortalità infantile che qui arriva appunto al 70 per mille, indici forse anche superiori a quelli del Congo, del Marocco e dello Zambia. Così, nella stessa città, abbiamo due realtà diverse, abbiamo standard europei e standard africani o indiani. Risultato di questo processo è una città la quale, essendo oggi 9 volte più grande di quanto lo fosse 40 anni fa, accumula una quantità di problemi che la rende praticamente ingestibile.

Durante gli anni ‘80 abbiamo cominciato ad individuare un processo di disgregazione industriale, un debordamento delle attività manifatturiere della città di San Paolo verso i comuni della regione metropolitana e verso i comuni dell’interno più vicini al capoluogo. E’ iniziato anche un processo di addensamento della città e, analizzando le migrazioni della popolazione, possiamo identificare due fenomeni: 1) in virtù della diminuzione del salario reale, della valorizzazione della terra in periferia e dell’elevato costo dei trasporti, una parte della popolazione meno abbiente va verso le regioni centrali, dove abita nelle baracche delle favelas; 2) segmenti meno abbienti della classe media e popolazione a basso reddito abitano negli stessi quartieri e segmenti di alto reddito abitano le zone periferiche che sono diventate quartieri residenziali in questi ultimi anni.

L’avvicinamento di insediamenti di cittadini di reddito diverso non sembra significare l’ampliamento dello spazio comune di convivenza. Sembra, invece, che si verifichi la sostituzione di una segregazione estensiva con una di natura intensiva; esiste la proliferazione di condomini residenziali e centri imprenditoriali chiusi, con schemi propri e prefissati di sicurezza, che occupano territori abbastanza estesi e sono, nella maggior parte dei casi, completamente autosufficienti in molti servizi. La segregazione intensiva è la risposta dei ricchi all’incapacità del potere pubblico di provvedere ai servizi e alle infrastrutture adeguate al funzionamento di una città così complessa, segnata per lo più da livelli spaventosi di imparità sociale e di violenza. Comprensibile come meccanismo di autodifesa, la segregazione intensiva ha delle conseguenze estremamente negative, perché implica la privatizzazione dello spazio pubblico. La segregazione estensiva mette in dubbio l’idea permanente di città come spazio comune di convivenza regolato da un complesso unico di norme, però non la distrugge completamente. La segregazione intensiva, invece, caratterizzata dalla nascita di enclaves in cui la regola pubblica non penetra, concretizza il fallimento completo di questa idea.

In alcune città brasiliane, per esempio Rio de Janeiro, questo fenomeno racchiude in sé un terribile potenziale esplosivo: vi sono enclaves alla base e al vertice della piramide sociale. A questi condomini chiusi, che hanno a disposizione dispositivi paramilitari di sicurezza, si contrappongono fianco a fianco delle zone di popolazione dominate dalla criminalità organizzata. La sostituzione dello stato da parte della criminalità organizzata che detta leggi ed elargisce beni e servizi alla popolazione è il caso più grave di minaccia alla democrazia e alle istituzioni. Niente può garantire che questo fenomeno resti circoscritto alla sola Rio de Janeiro. Anche essendo abbastanza ottimisti, la proliferazione di queste enclaves urbane dà problemi seri alla rappresentanza democratica nell’ambito della propria città perché si produce una costellazione di interessi che non vedono vantaggi nella reversione del processo. Quali sono, allora, le implicazioni di questo processo per la rappresentanza democratica della città? Essa presuppone, non solo idealmente, l’esistenza di una comunità, non importa quanto sia diversa ed eterogenea. La ragione d’essere di un potere pubblico che è autorizzato democraticamente a legiferare e ad eseguire sono gravemente compromesse se una parte crescente di questa popolazione vive e lavora in luoghi che costituiscono microsocietà al riparo da tutti i tipi di interferenza e di controlli esterni. Il mio timore è che, di fronte alla crisi e all’indebolimento dello stato, la risposta predominante sia ricercare soluzioni private che minano il terreno già poco sicuro sul quale costruire una società democratica e civilizzata. Alzare muri, costruire dispositivi privati di sicurezza, allontanarsi dalla città, escludere completamente le fasce meno abbienti da determinate regioni può forse essere razionale nella logica ristretta di ogni individuo, ma è un disastro dal punto di vista generale.

Oggi più che mai nelle grandi città brasiliane è necessario mantenere viva la pratica della solidarietà e l’idea di destino comune. Esempio molto importante in questo senso è il lavoro di recupero urbano delle favelas e il miglioramento della capacità professionale dei loro abitanti promossi dall’Associazione dei Volontari del Servizio Internazionale (AVSI) a Belo Horizonte. Ampliate e articolate fra di loro, iniziative di questo genere possono frenare le forti tendenze di disgregazione sociale, le quali creano climi propizi a soluzioni di forza e al consolidamento di una vera apartheid di classe.

Giapponese, Sumihiro Kuyama è uno degli assistenti del Segretario Generale delle Nazioni Unite e vice-amministratore del Centro delle Nazioni Unite per gli Insediamenti Umani (Habitat).

Kuyama: E’ evidente che il futuro di questo pianeta sarà un futuro urbano. Nei Paesi industrializzati dell’Europa, dell’America del Nord e dell’Asia, la popolazione delle zone urbane ha già superato il 70% della popolazione complessiva; il medesimo fenomeno riguarda tuttavia anche i Paesi in via di sviluppo. Lì, la popolazione delle aree urbane ha raggiunto quasi il livello del 40%, dal solo 17% nel 1950, allorché la popolazione nelle aree urbane dei Paesi industrializzati superava invece la percentuale del 50%. Questo succede anzitutto in America Latina, per esempio in Brasile, dove già un’ampia quota della popolazione vive in aree metropolitane e dove, se dovessero persistere le tendenze attuali, circa l’80% della popolazione si troverà a vivere in città entro l’anno 2000, raggiungendo una concentrazione superiore a 400.000.000 di persone. L’urbanizzazione può essere ascritta a due motivi: la crescita demografica culturale; il fenomeno migratorio che è, prevalentemente, di natura volontaria. Tuttavia, in alcune regioni, si tratta di un fenomeno di migrazione forzata o transnazionale. Lo spostamento dalle zone rurali a quelle urbane può essere spiegato anzitutto da motivi economici, dalla differenza di infrastrutture, di servizi di base, come per esempio l’accesso all’acqua potabile, condizioni igieniche oppure di istruzione o sanitarie-ospedaliere, infine, dalla presenza di strutture ludiche o comunque cittadine. Va notato che la maggioranza di emigrati nei Paesi in via di sviluppo riguarda la fascia di età di età dai 15 ai 29 anni. Più grande è la città dove ci si reca, maggiore è anche la possibilità di fare fortuna. Esistono poi sempre differenze a livello di sviluppo e di distribuzione di opportunità economiche da regione a regione, che possono in ultima istanza portare ad una migrazione volontaria. Ad esempio, in America Latina le persone che provengono dai paesi più poveri, Bolivia, Columbia e Paraguay, emigrano verso i più ricchi, Argentina e Venezuela.

Le città, nei paesi in via di sviluppo, sono ormai in fase di decadenza: un ambiente di vita in degrado, fonte potenziale di fermento, di disordine, non soltanto economicamente e socialmente, ma anche politicamente. La sfida per sostenere lo sviluppo della crescita economica a livello mondiale e per mantenere l’integrità al tempo stesso del sistema ecologico del nostro pianeta, è prevalentemente una sfida a livello urbano, dove il posto centrale è occupato da tali aree nella distribuzione demografica, nella produzione e nel consumo di beni e di servizi. Tale sfida può essere affrontata soltanto con una nuova visione, con nuove politiche e con azioni determinanti. I processi di urbanizzazione e di sviluppo urbano giocano un ruolo centrale nei sistemi economici ed ecologici e nei loro risultati sul piano locale, nazionale e globale. Se vogliamo realizzare gli obiettivi sociali, ambientali ed economici nell’ambito del cosiddetto sviluppo sostenibile, le città devono lavorare bene e devono essere ben gestite. Infatti, esse, piccole o grandi, possono rappresentare una fonte importante di disfunzione e possono compromettere i sistemi ecologici ed economici; giocano, pertanto, un ruolo centrale nelle politiche e nei provvedimenti che devono essere presi. Tutto sommato, è proprio nei centri urbani che la maggior parte delle risorse vengono consumate o convertite e trasformate in prodotti.

I poveri rappresentano dal 30% al 60% della popolazione urbana complessiva nei paesi in via di sviluppo. Il problema più grave è costituito dalla condizione sanitaria di questi cittadini urbani, il cui ambiente di vita, sotto il livello accettabile, non li protegge dal contatto di scorie umane o di altra natura e dall’inquinamento dell’aria. Per i poveri le priorità ambientali assolute rimangono il miglioramento delle loro condizioni, dall’alloggio alla presenza di servizi di base e di strutture e di servizi a costi accettabili. E’ pertanto logico pensare che, se il nostro obiettivo è raggiungere un futuro sostenibile per la razza umana, non dobbiamo soltanto perseverare negli sforzi per proteggerci dal buco dell’ozono o proteggere le foreste tropicali, i laghi i fiumi, gli oceani e le risorse naturali, ma dobbiamo anche prendere seriamente in considerazione il problema dell’ambiente di vita delle persone, in modo che tutti gli esseri umani possano avere delle condizioni che ottimizzino il loro potenziale di sviluppo sociale ed economico. Lo sviluppo deve avanzare, ma dobbiamo, al tempo stesso, trovare degli strumenti per gestire meglio le risorse naturali, per usare con saggezza l’energia e sviluppare nuove tecnologie. Una buona gestione dell’ambiente urbano, nel futuro, richiederà non soltanto la riduzione delle emissioni delle città, un ottimo uso delle risorse naturali e il contenimento della generazione delle scorie e dei rifiuti, ma anche il significativo contributo da parte di tutte le città all’economia nazionale. La gestione ambientale deve avere, tra i suoi principali obiettivi, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, soprattutto per i più poveri e una migliore qualità di vita: creare dei trasporti di massa che siano più ecologici oppure equilibrare il bilancio comunale, fornire accesso ai servizi di base e soprattutto abitazioni per i poveri, garantire una crescita dell’economia urbana. Tutto questo significa poter trovare il giusto equilibrio, assolutamente necessario se vogliamo raggiungere lo sviluppo sostenibile, un equilibrio che richiede la motivazione della leadership a tutti i livelli, anche comunali o municipali, più vicine, queste ultime, alle loro circoscrizioni, con cui hanno interazioni quotidiane, più efficienti ed efficaci nel cercare di rispondere ai fabbisogni locali, nel fornire possibilità di sviluppo locale, rispetto a strutture burocratiche più lontane e decentrate.

I livelli centrali ed intermedi del governo, d’altra parte, dovrebbero cercare di concentrarsi per realizzare delle azioni di sostegno. Le autorità decisionali e l’autonomia fiscale devono essere concesse a tutte le città di qualunque dimensione. Ciò consentirà loro di identificare e realizzare nuove fonti reddituali, ma anche di perseguire opportunità di sviluppo senza vincoli superflui, provenienti da autorità nazionali o regionali. I proventi riscossi a livello locale e poi prosciugati dal governo provinciale e nazionale devono inoltre essere restituiti proporzionalmente, per consentire alle città di avviare una pianificazione a lungo termine. Tali misure devono essere tuttavia accompagnate da tentativi concertati per migliorare le procedure di gestione urbane nel campo della gestione dei territori, della gestione finanziaria, delle infrastrutture, della fornitura dei servizi e della gestione ambientale urbana. Una maggiore libertà delle autorità locali sarà necessaria per poter aumentare e per poter spendere meglio questi proventi, come parte di una politica di decentramento che porterà una migliore qualità dell’ambiente urbano.

Habitat sta attualmente lavorando su due programmi di assistenza tecnica. Il primo è il Programma di gestione urbana, realizzato in collaborazione con il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite e della Banca Mondiale; il secondo è il Programma sostenibile delle città di Habitat, concepito come un affiliato operativo del programma di gestione urbana. Entrambi si sono proposti il compito di migliorare le condizioni di vita, di lavoro e di produttività degli insediamenti umani. La recente Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e sullo sviluppo, tenutasi a Rio de Janeiro, in giugno, ha deciso di annoverare il problema degli insediamenti umani come un programma distinto.

Franco Foschi, presidente della Commissione per la Cooperazione e lo Sviluppo Umano.

Foschi: Non credo che il problema delle megalopoli possa essere analizzato senza tener conto del complesso di cause che le determinano, come non credo che le azioni tendenti a combattere la patologia delle grandi città possano essere limitate al contenimento dei processi di urbanizzazione o dei processi demografici, delle condizioni subumane di vita, di alloggio e di lavoro. Le cause di tali fenomeni albergano altrove e, in particolare, nel sottosviluppo economico-sociale, nei sistemi oppressivi e corrotti che dominano in gran parte del mondo, nelle regole dell’egoismo che guidano i rapporti tra Nord e Sud del mondo e che ora investono anche la nostra cattiva coscienza europea nei confronti dei vicini Paesi dell’Est. I processi di urbanizzazione, il passaggio dalla campagna alla città non sono che un capitolo dei complessi fenomeni di migrazione che investono da sempre l’umanità e che, purtroppo, anziché riguardare il diritto vitale dei singoli e dei popoli alla mobilità, poiché muoversi è aspetto della vita umana, riguarda in realtà la logica delle necessità, del bisogno e dell’esilio. Quando parliamo di processi migratori dobbiamo anche tenere conto del fatto che oggi, nel mondo, ci sono almeno 16 milioni di rifugiati, costretti all’esilio per realtà oppressive e per guerre, spesso non dichiarate.

Verso l’anno 2000 delle 15 città più grandi del mondo, 12 saranno nei Paesi in via di sviluppo. L’esplosione demografica si incrocia con l’implosione urbana: metà della crescita è dovuta a fattori interni alle città, ormai, ma l’altra metà è dovuta a fenomeni migratori dovuti all’incapacità di programmare uno sviluppo intenso in termini globali. Le imprese, gli uffici tendono ora ad abbandonare i centri urbani delle megalopoli, perché non sono più vivibili neanche per le ragioni originarie per le quali essi erano stati motivo di attrazione. Ma l’aspetto che credo fondamentale per l’orientamento della nostra cooperazione, è il problema del lavoro. I contadini hanno lasciato un’agricoltura resa impossibile dai modi con cui i progetti di industrializzazione dell’agricoltura sono stati finanziati dai Paesi occidentali, rompendo la tradizione, rendendo stagionali i lavori che consentivano l’occupazione per tutto l’arco dell’anno e rendendo sempre più bassa la possibilità di avere salari e remunerazione. Questi contadini sono diventati il nuovo sottoproletariato, il quale fugge verso la città nel miraggio di un lavoro industriale o nei settori terziari, un lavoro che diventa, invece, sempre di più informale, "lavoro nero", favorito anche nel nostro Paese, un lavoro che, in quelle realtà, è comunque l’unica possibilità di arrangiarsi ai limiti della legalità. Bambini e donne vengono utilizzati senza alcun rispetto. Ciò a volte sfocia in attività antisociali e comunque in una situazione di insicurezza.

Questo è il quadro del quale siamo in parte responsabili, derivato dal fenomeno delle megalopoli, uno degli aspetti cui si lega l’incapacità di programmazione di una visione complessiva dello sviluppo. Ad essa occorre donare più mezzi di quanti ne abbiamo dati fino ad ora; il problema però non è di quantità, bensì di qualità. Noi abbiamo agito frammentariamente in questi anni, prevalentemente nell’ottica dello sviluppo economico. "Ricevere almeno quanto si dona", questa è una delle regole che tutti i Paesi sviluppati seguono e, non da ultimo, l’Italia. La possibilità di riuscire ad affermare, attraverso i progetti di sviluppo, la competitività delle nostre aziende sul piano internazionale, pretendere di costruire le case secondo le tipologie italiane: l’ho visto nei recenti piani di intervento e di sviluppo italiano per l’Argentina e per il Cile, luoghi nei quali non manca certamente la capacità di progettare e di eseguire secondo le tipologia locali, per i poveri e non naturalmente per i molto ricchi.

La Commissione parlamentare che ho l’onore di presiedere ha cambiato la sua denominazione: non siamo la Commissione per la cooperazione allo sviluppo, ma per la cooperazione e lo sviluppo umano. Sono concetti elementari, che tuttavia trovano una difficoltà incredibile a poter essere accettati. Per riuscirci bisogna che diamo un ruolo maggiore alle O.N.G., le Organizzazioni non governative, di cui poco ancora si parla, un mondo inesplorato, che ha il vantaggio di determinare una possibilità di intervento partecipato, di riuscire a far sì che la gente si muova.

Nei Paesi del Sud ci sono almeno 30 mila organizzazioni non governative: bisogna che queste, sempre più dialogando e lavorando con le nostre organizzazioni italiane ed europee, possano riuscire a svolgere non solo micro progetti, ma anche progetti importanti, che liberino dalla passività le popolazioni non solo dell’America Latina che, per tante ragioni storiche e culturali, è più vicina alla nostra realtà ma dell’Africa e di alcune realtà asiatiche, che presentano caratteristichemolto diverse e più difficili.

Oggi occorre poi applicare lo stesso principio nei confronti di alcune nuove realtà dei Paesi dell’Est, per le quali ormai abbiamo sviluppato una legislazione autonoma, la quale, tuttavia, deve seguire le stesse regole dal punto di vista morale, politico e della coerenza nell’utilizzazione dei motivi della solidarietà. Di qui l’esigenza di sviluppare un grande progetto culturale, educativo, al fine di riuscire a mobilitare le coscienze, le persone e le risorse umane, prima e accanto alle risorse economiche. Lo sviluppo economico da solo, infatti, non determinerà nessuno sviluppo e nessuna conseguenza dal punto di vista degli obiettivi. Questi o sono obiettivi per gli uomini, per le famiglie, per le comunità, per le etnie, qualunque sia l’orientamento culturale, ideologico e religioso, oppure si cadrà in una nuova contrapposizione quale quella a cui purtroppo assistiamo, ad una frammentazione anche all’interno della nostra realtà.

Ciò di cui fino ad ora si è discusso non è che un epifenomeno di un problema più generale, il quale coinvolge la prospettiva di una politica che sappia costruire la risposta ai problemi delle popolazioni del Sud del mondo e corretti rapporti tra Nord-Sud, Est-Ovest, Sud-Sud ed Est-Sud, affinché il mondo finalmente sia uno solo.

Mons. Gervasio Gestori, vice presidente della CEI.

Gestori: Al termine di questa tavola rotonda sulle megalopoli, ci troviamo di fronte a un vicolo cieco: cosa è possibile fare per affrontare in qualche modo questi problemi? Si ha l’impressione, fondata, che le megalopoli siano un circolo vizioso, che i problemi non si risolvano, ma si moltiplichino e si aggravino, man mano che la storia e la vita procedono. Cosa tenta di fare la Chiesa? Sotto il profilo strettamente pastorale, sono almeno quattro i problemi principali che la Chiesa deve affrontare nelle megalopoli. Il primo riguarda la crescita accellerata di queste favelas, delle periferie nelle quali la presenza delle strutture della Chiesa risulta praticamente difficile se non impossibile: mancano chiese, strutture di incontro umano, sociale e religioso, e mancano gli operatori, i preti. Un secondo problema riguarda la grande città che obbliga una divisione al suo interno anche dal punto di vista religioso: ormai le varie città vengono divise in grandi diocesi, con la conseguenza di rendere più funzionale un servizio religioso, ma più difficile la coordinazione di una pastorale metropolitana.

Un terzo problema riguarda le differenze sociali e culturali presenti nelle megalopoli, che obbligano a seguire metodologie pastorali diverse: nei quartieri alti o medio alti e in quelli popolari o di miseria, non è facile far cogliere l’appartenenza all’unica Chiesa; gli stessi sacerdoti sono spesso critici nei confronti dei confratelli che lavorano negli altri settori sociali della medesima megalopoli. Un quarto problema riguarda la trasmissione dei contenuti della fede, dell’evangelizzazione, della dottrina sociale della Chiesa: come fare ad arrivare fino nei meandri di queste maxi-città?

Nonostante queste situazioni, apparentemente irrisolvibili, la Chiesa è chiamata ad essere presente e a fare tutto il possibile in queste megalopoli dove, comunque, nonostante la sua fragilità essa è altamente apprezzata, stimata e voluta da tanti.

La Chiesa dell’America Latina, le congregazioni religiose, i missionari, tanti volontari laici, ultimamente anche la stessa Conferenza Episcopale Italiana si danno molto da fare con una serie infinita e stupenda di interventi. C’è, ad esempio, a Rio de Janeiro, un prete valtellinese, don Enrico Arrigoni, parroco del Buon Pastore, accolto con sorrisi da tutti nella favela, apprezzato e amato, e ci sono le Figlie della Provvidenza di S. Paolo, che in una favela di 400.000 abitanti, uniche in tutta la città, si interessano dei sordomuti. Ho incontrato tre settimane fa un giovane a Santiago del Cile, che strappa dalle prigioni cilene i minori, colpevoli dei reati più gravi, dallo stupro all’uccisione del proprio padre o della propria madre, e insegna loro un mestiere. Ho visto questi ragazzi, adolescenti, lavorare con passione e con gioia; prossimamente questo giovane cileno, con i suoi amici, aprirà una casa simile anche per le ragazze che toglierà dal carcere per essere più donne e più umane; ci sono a Quito, per esempio, le figlie di Maria Ausiliatrice, che raccolgono i bambini dai marciapiedi, dove sono facilmente tentati da tutti e li aiutano a darsi un minimo di alfabetizzazione e un minimo di dignità, e, sempre a Quito, ho incontrato un prete italiano di Cuneo, don Pio Boschirotto, che ogni sera ospita gli indios appena arrivati in città dal contado, spinti dalla disperazione. La sua "Ospederia da tola" diventa il luogo dove trovano, con pochissimi soldi, una mensa, una doccia, qualche medicina, che li può aiutare ad imparare qualche piccolo mestiere e un tetto dove passare la notte. Ci sono, ancora, gli operatori del F.E.P.P. — Fondo Equatoriano Populorum Progressio — che, attraverso una operazione di tipo fondo-rotativo, riscatta le terre dei latifondisti e le consegna agli indios, aiutandoli a ritornare dalla città alle loro campagne e a coltivarle per viverci e per poterle pagare poi, dopo alcuni anni, a prezzi agevolati.

Quello che la Chiesa fa è ancora poco, ma, da un punto di vista qualitativo, non è poco. Se non ci fossero tanti italiani laici, volontari, missionari, suore, religiosi, che cosa mancherebbe a queste tremende situazioni? La Chiesa, attraverso l’opera di queste persone, è una stupenda presenza di Cristo che conforta e che invita a sperare, lenendo tante ferite umane e sociali in megalopoli che di umano hanno ben poco, ma che sono abitate da sorelle e da fratelli nostri. La Chiesa è una testimonianza e uno stimolo a fare, per chi, dal di fuori, guarda simili realtà, di fronte alle quali è peccato rimanere indifferenti; la Chiesa con queste presenze dimostra che il vangelo è ancora il sale della terra, luce del mondo e che Cristo, vivo perché è risorto, è capace ancora di costruire convivenze meno disumane, perché Lui è la perenne città posta sul monte e aperta a tutti.

Da Rold: Quando si parla di queste grandi città, di queste mostruose comunità che sono ormai in quasi tutto il Terzo Mondo, gli occidentali usano spesso il metro della loro cultura; le giudicano come un fatto di urbanizzazione inevitabile. In realtà, credo che il Terzo Mondo, l’Africa, i grandi Paesi dell’Est, del Sudamerica, oggi soffrano di una cultura che è stata loro in qualche modo imposta dagli occidentali. Quello che è sotto gli occhi di tutti non è una forma di urbanizzazione, è la tragica caricatura di una urbanizzazione occidentale: questo è il fatto drammatico ed ancora più drammatico è che, quando poi gli occidentali parlano dei rimedi riescono, di solito, dare una sola risposta: non fare più figli, controllare le nascite. E’ la risposta più schematica e assurda, perché non risolve nulla. Il problema allora, credo sia proprio quello suggeritomi tempo fa da una parola brasiliana, portoghese: "compartiar" "condividere" realmente, concretamente. Anna Michelini, suo marito, gli altri che lì vivono, al di là di analisi, di discorsi e di grandi sistemi, sono gli unici che concretamente operano.