Il "Soviet" sanitario:
alla ricerca di una alternativa

Martedì 24, ore 15.00

Relatori:

Angelo Carenzi,
Direttore Generale Ospedale
San Gerardo di Monza

Piero Micossi,
Direttore Istituti Clinici di
San Donato

Giancarlo Cesana,
Consiglio Nazionale di Comunione e Liberazione

Carenzi: Mi sono prefissato il compito di cercare di fornire elementi utili per giudicare la cosiddetta riforma Ter, la riforma del ministro Bindi, perché non esiste libertà senza giudizio. Siamo di fronte ad un fatto che interessa gli addetti ai lavori, ma che, riguardando anche il modo con cui verrà organizzato il Sistema Sanitario Nazionale, coinvolge direttamente anche tutti i cittadini: è il modo in cui lo Stato e tutte le altre realtà collegate metteranno a disposizione strumenti per garantire la salute. Non esaurirò tutti i punti della riforma, ma cercherò di presentare alcune tematiche importanti.

I presupposti che caratterizzano l’offerta di servizi in sanità, ciò che viene messo a disposizione per garantire la salute, sono fondamentali per valutare l’offerta stessa. Nel 1978 (anno della riforma 833) lo Stato doveva garantire tutto a tutti; le risorse a disposizione per realizzare questo progetto dovevano, quindi, essere teoricamente infinite. Presa coscienza che con questo modello si rischiava il tracollo, nel 1992, viene fatta una legge delega, la 502, che introduce un nuovo concetto: lo Stato garantisce i livelli uniformi di assistenza. Vengono per la prima volta predefinite le risorse finanziarie e a queste risorse finanziarie deve corrispondere un’offerta di servizi su tutto il territorio nazionale tali da garantire una risposta adeguata al bisogno. Il meccanismo innovativo dal punto di vista anche culturale è quello dell’efficienza. Nel 1999, il 18 giugno, viene varata la cosiddetta "riforma ter". Non si capisce bene quali siano state le esigenze che abbiano portato a questa terza riforma in così breve tempo dalla 502, perché la possibilità di giudicare i risultati di un fatto importante come una riforma sanitaria richiede perlomeno 10 anni di esperienza.

Le novità, dal punto di vista dell’offerta, sono abbastanza rilevanti: non si parla più di livelli uniformi di assistenza, ma di livelli essenziali e uniformi di assistenza. Il Sistema Sanitario Nazionale tutela la salute dei cittadini, ma eroga soltanto prestazioni che saranno definite efficaci, appropriate e con un rapporto costi/benefici favorevoli, cioè con una valutazione anche dal punto di vista economico. Non soltanto le risorse finanziarie sono predefinite, ma viene anche predefinito il volume di prestazioni sanitarie che ciascuna regione dovrà erogare in regime di Sistema Sanitario Nazionale. La prospettiva derivante da una posizione di questo tipo non è più quella della razionalizzazione dei servizi, ma si introduce un concetto di razionamento; di fatto ci troveremo ad affrontare una minor disponibilità, in termini qualitativi e quantitativi, di prestazioni erogabili nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale. Questa legge introduce anche un altro fatto anomalo, i cosiddetti "fondi integrativi", che vengono ad aggiungersi in maniera decisamente poco chiara. Se sono definite le prestazioni essenziali e appropriate non si capisce perché si debba prevedere che dei fondi integrativi vengano ad aggiungersi per garantire delle prestazioni che non siano essenziali o che non siano appropriate. Il timore è che possano essere a supporto per l’insufficienza della qualità e della quantità di prestazioni che il Sistema Sanitario Nazionale andrà ad erogare: una spesa aggiuntiva per i cittadini, per garantire un certo livello di prestazioni.

Rimane aperta la questione se sia possibile il razionamento. Presentando questa riforma le forze politiche che l’hanno sostenuta hanno sottolineato l’importanza della solidarietà e dell’universalismo come cardini fondamentali. Come è possibile coniugare solidarietà e razionamento?

L’altro elemento che volevo affrontare sono le caratteristiche con cui lo Stato gestisce il Sistema Sanitario Nazionale. La parola d’ordine, nel 1978, figlio del ’68, era la partecipazione a tutti i livelli. Questa era l’unica metodologia che culturalmente veniva riconosciuta come garante della capacità da parte dei cittadini di garantirsi i loro beni primari. Il ruolo preponderante era quello dei comuni, che nominavano le assemblee, le assemblee nominavano i Comitati di gestione, la gestione degli ospedali e delle USSL. Questa gestione di tipo politico ha introdotto nella sanità logiche non sanitarie. La legge 502 fa piazza pulita di tutto questo. La parola d’ordine è aziendalizzazione; il ruolo preponderante passa alle regioni, come previsto dalla Costituzione, che nominano i Direttori generali. La caratteristica che viene introdotta è una gestione delle Azienda Sanitarie di tipo tecnico-manageriale. Nel decreto 229, la riforma ter, la parola d’ordine fondamentale è programmazione. Torna il ruolo preponderante dello Stato che entra nei particolari della programmazione locale; per esempio i comuni controllano di nuovo le Aziende Sanitarie, limitando l’autonomia delle regioni. La conseguenza di una gestione di tipo amministrativo non consentirà prospettiva imprenditoriale: il responsabile di una Azienda Sanitaria è fondamentalmente chiamato a gestire un volume di prestazioni predefinito nell’ambito delle risorse che ha a disposizione.

Il terzo punto della riforma che intendo presentare riguarda i medici. Nel 1997, con due decreti legislativi, è stato affrontato il problema, sostanzialmente corretto, di andare a porre dei vincoli per evitare comportamenti anomali o poco corretti da parte dei medici: far concorrenza al proprio datore di lavoro, o permettere agli istituti privati di utilizzare part-time la professionalità di medici che lavorano nel pubblico senza doversi accollare costi fissi come lo stipendio di medici. Interessante il fatto che non sono stati ritenuti sufficienti tali decreti, così nella riforma viene introdotto il concetto dell’esclusività: un dipendente pubblico, in particolare chi è entrato dal 31 dicembre 1998, non può avere altro rapporto con il Sistema Sanitario complessivo che non una appartenenza esclusiva ad esso. Non c’è più possibilità, come nella situazione precedente, di cambiare la scelta. Si vuole chiudere l’anello andando a influire in maniera pesante sul medico in modo tale che il progetto complessivo, che è un progetto di gestione da parte dello Stato di tutto il percorso della realizzazione del Sistema Sanitario, coinvolga forzatamente anche il medico, che ne è un attore fondamentale. In altre parole si vuole ribadire che l’appartenenza allo Stato è un fatto di fondamentale importanza per la realizzazione del progetto complessivo: addirittura, lo Stato si pone come garanzia dell’eticità del comportamento. Non conta o non è importante, a questi fini, la capacità professionale, la dedizione, le modalità con cui il medico vive il suo rapporto con il paziente, è lo stato giuridico di appartenenza allo Stato l’elemento fondamentale che permette la progressione di carriera.

Infine è importante occuparsi del centralismo. Un elemento che caratterizza in maniera molto forte questa riforma è che si ritorna ad un centralismo di tipo statalista che mai c’era stato nelle precedenti riforme. L’articolo1 ripropone, in maniera chiara e forte, il concetto dell’assoluto monopolio dello Stato in termini di gestione del sistema salute: "La tutela della salute, come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività, è garantita nel rispetto della dignità e della libertà della persona, attraverso il Sistema Sanitario Nazionale, quale complesso delle funzioni e delle attività assistenziali dei servizi sanitari regionali e delle altre funzioni e attività svolte dagli enti ed istituzioni di livello nazionale".

Il secondo articolo dà l’idea di come si entri addirittura nei particolari: "Il Piano Sanitario Nazionale non è un atto di programmazione strategica, definisce i livelli essenziali di assistenza, definisce i progetti-obiettivo, definisce le esigenze relative alla formazione di base e agli indirizzi relativi alla formazione continua del personale, nonché al fabbisogno e alla valorizzazione delle risorse umane. Definisce le linee guida e i relativi percorsi diagnostici terapeutici. I criteri e gli indicatori per la verifica dei livelli di assistenza assicurati in rapporto a quelli previsti". Viene da chiedersi qual è il ruolo del medico in tutto questo; qual è il ruolo delle società scientifiche; viene da chiedersi perché abbiamo così tranquillamente perso questo diritto di essere interlocutori fondamentali, per esempio nella definizione dei percorsi diagnostico-terapeutici.

"La regione disciplina altresì l’articolazione del territorio regionale in unità sanitarie locali le quali assicurano, attraverso servizi direttamente gestiti, l’assistenza sanitaria collettiva in ambiente di vita e di lavoro, l’assistenza distrettuale e l’assistenza ospedaliera". La legge ammette che sia la regione a disciplinare, ma disciplinare cose che sono state decise dallo Stato. La legge 31 della riforma lombarda è decisamente distrutta da questo articolo; la Lombardia aveva infatti scelto di separare l’attività degli ospedali da quella delle ASL.

"Deve restare saldo il principio, importantissimo nella filosofia sociale, secondo il quale siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ne deriverebbe infatti un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società, poiché oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le assemblee del corpo sociale, non già distruggerle e assorbirle. Di conseguenza è necessario che l’autorità suprema dello Stato rimetta ad associazioni minori e inferiori il disbrigo degli affari e delle cure di minore momento, per poter eseguire con più libertà e con più forza ed efficacia, le parti che a lei spettano, di direzione, cioè di vigilanza, di incitamento, di repressione a seconda dei casi e delle necessità. Gli uomini di governo sono quindi esortati a persuadersi che quanto più perfettamente sarà mantenuto l’ordine gerarchico tra le diverse associazioni, conforme al principio della funzione suppletiva dell’attività sociale, tanto più forte riuscirà l’autorità e la potenza sociale e perciò anche più felice e più prospera la condizione dello Stato stesso". Questo è il punto sulla sussidiarietà ripreso dall’enciclica Quadragesimo anno.

E da ultimo, un intervento autorevole come quello di don Luigi Giussani, ripropone il termine della responsabilità personale derivante da una affermazione di riconoscimento di libertà e di creatività della persona. Tale responsabilità trova un potenziamento nell’appartenenza a realtà sociali in grado di dare una risposta al bisogno che sia anche culturalmente qualificato. Il primato della società di fronte allo Stato va inteso come tessuto creato da rapporti dinamici tra movimenti che, creando opere e aggregazioni, costituiscono comunità intermedie e quindi esprimono la libertà delle persone potenziata dalla forma associativa. Da questo punto di vista il governo di una società non può non avere come sua prima preoccupazione quella di favorire e valorizzare ciò che nasce dal cuore dell’uomo, prendendo consistenza in forme associative.

Il Ministro, subito dopo il varo da parte del governo di questa legge, ha affermato che solo i cattolici in Italia hanno fatto grandi riforme. Questa purtroppo non è una grande riforma, anzi è elemento di preoccupazione, e comunque al proprio interno non ha niente della cultura cattolica.

Micossi: Carenzi ci ha riassunto il contenuto della riforma, mi permetto di aggiungere ancora alcune considerazioni. La riforma toglie potere alle regioni e lo trasferisce nuovamente allo Stato, quindi è centralista. Dice che tutto il servizio va organizzato con le sole risorse pubbliche e quindi rinuncia al contributo economico, imprenditoriale e anche creativo della società. Dice che la cura dei cittadini viene decisa con atti di Stato, il Piano Sanitario, che definisce modalità e contenuto del trattamento mediante leggi; è la prima volta che qualcuno si propone di definire il contenuto dell’atto medico mediante norme di legge. Il razionamento che lo Stato effettuerà ha la pretesa di decidere il bene dei cittadini vietando loro di chiedere ed ottenere prestazioni non previste.

Lo Stato incolpa gli stessi medici di aver contribuito a determinare una situazione considerata intollerabile. Essi hanno certamente delle colpe, ma le professioni sono accantonate e possono essere trattate in questo modo solo in Italia. Per quanto riguarda la questione della riunificazione nello Stato di tutte le funzioni non si tiene conto che nel nostro Paese si è data poca attenzione alle questioni istituzionali, eppure il nostro sistema di assistenza, IPAB, ospedali della carità, grandi policlinici universitari, istituti scientifici, è nato per l’esercizio della responsabilità sociale delle comunità e della società e non per un’azione legislativa.

Lo Stato, che aveva il dovere di garantirne la vita e l’autonomia, se ne è invece impadronito ed impadronendosene ha impoverito la linfa vitale che veniva dalla responsabilità e che nasceva nella società, nel cuore degli uomini. Un caso eclatante è la disposizione in materia di donazione degli organi, stabilita con l’illusione di risolvere il problema: ciò che prima era un atto d’amore è stato regolato da una legge per la quale, se il paziente non si oppone, automaticamente può essere privato degli organi che diventano così patrimonio dello Stato.

La riforma Bindi non è emendabile, ma deve essere abrogata anche per un’altra serie di motivi. Innanzitutto, si può documentare che il denaro disponibile, nei paesi industrializzati, come quota assegnata alla spese di ogni cittadino, è inferiore a quella che i cittadini stessi sono disposti a spendere; è evidente che si rivendica un’opzione di scelta e di libertà che non è contenuta solo nelle scelte che fa lo Stato. L’Italia è il paese dove si spende di più di qualsiasi altro paese industrializzato, il 22,3% delle risorse per acquistare servizi; in un sistema in cui la quota di denaro che i cittadini si devono levare di tasca è molto alta, è evidente che l’accesso a determinate prestazioni e servizi non è garantita a tutti i ceti sociali. Il CENSIS ha fatto tra l’altro sapere che, per il Mezzogiorno d’Italia si spende di più per acquistare prestazioni per l’elevata complessità e tecnologia, mentre nel Nord le persone comprano con il denaro che si levano di tasca prestazioni a bassa tecnologia e a bassa complessità. La proposta alternativa è fondata sull’universalismo, sull’aumento della protezione per i deboli, ma anche sulla valorizzazione del mercato e sulla libertà di scelta dei cittadini. In tutto il mondo sono le associazioni scientifiche, gli ordini professionali, le associazioni professionali ad essere responsabili della qualità delle cure. In Italia c’è stata una perdita di fiducia del mondo professionale, ma occorre recuperare la responsabilità di questo mondo, perché non venga sostituita con l’amministrazione burocratica delle cure. È necessario operare avendo nell’occhio la separazione dei ruoli: una pubblica amministrazione che svolge tutti i compiti alla fine non è capace di difendere gli interessi dei cittadini. Non si capisce come mai è possibile pensare di risolvere il problema della sanità ricostituendo il monopolio di Stato, quando nella scuola, nelle poste e nelle ferrovie si è andati in una direzione decisamente contraria.

Nel riordino del 1992-93, la riforma Garavaglia, nata già con Donat Cattin, aveva pensato di togliere l’erogazione delle prestazioni dal complesso della pubblica amministrazione, così da consentire al cittadino-paziente di scegliere. Si privilegiava la scelta del cittadino come modo per spingere le organizzazioni sanitarie a lavorare meglio. Il decreto Bindi, invece, riporta nello Stato tutte le funzioni e anzi diminuisce l’autonomia delle regioni e restituisce al Ministero della Sanità funzioni addirittura di amministrazione diretta: l’accreditamento, i criteri di qualità, la definizione dei protocolli di cura. Il cittadino non ha più voce e non ha alternativa, non ha né voce né uscita dal sistema.

L’alternativa non è quella del capitalismo e del mercato libero, dove il più forte vince e il più debole soccombe, ma il "quasi mercato": la competizione è realizzata consentendo al cittadino di scegliere ed è il cittadino titolare di un diritto di spesa che gli consente di esprimere opzioni e preferenze.

I dati CENSIS del giugno 1999 dicono che in Italia il 65% dei cittadini si dichiara insoddisfatto del proprio sistema o molto insoddisfatto. In tutti gli altri paesi europei, con l’esclusione del Regno Unito, abbiamo una prevalenza di cittadini che esprime un giudizio positivo sul proprio servizio; non è difficile intuire quali sono le caratteristiche dei sistemi sanitari più apprezzati.

Una proposta interessante per garantire universalità e sussidiarietà potrebbe ricalcare il modello olandese: un sistema di fondi espressione della collettività e della società, non opera con scopo di lucro, con struttura assicurativa. Tutti i cittadini devono aderire almeno ad un fondo, e aderendo al fondo, trasferiscono ad esso la propria quota, anche a sostegno di coloro che non dispongono di reddito.

Cesana: Ci sono tre problemi da affrontare concretamente per metterci in moto verso una realizzazione di proposte come quella fatta da Micossi.

Prima di tutto c’è un problema concettuale. Sembra che la tutela della salute sia un diritto che ha come unico limite le risorse economiche. L’Organizzazione Mondiale della Sanità stessa afferma questo; eppure anche l’elettricità o l’acqua sono un diritto, riguardano la salute, ma non sono trattati nello stesso modo.

C’è poi un problema di ordine amministrativo. Nessuno vuole escludere lo Stato, anzi allo Stato si dà un ruolo fondamentale, di impostazione, programmazione, ma il problema amministrativo dello Stato è una questione molto seria. Basti pensare, che, per quanto riguarda acquisti rilevanti che vengono fatti dall’amministrazione pubblica, i passaggi mediamente necessari sono 24, nell’amministrazione privata sono tre. Questa differenza di resa fa dire che non si può continuare ad andare avanti con questi handicap.

Esiste, infine, un problema professionale. La categoria medica è in crisi come il caso Di Bella ha dimostrato in maniera impressionante: il massimo dei nostri scienziati, mentre veniva combattuto dai medici, veniva appoggiato dal popolo. Siamo l’unico paese dove le linee guida vengono tendenzialmente stabilite per legge; non esiste nessun altro paese al mondo come l’Italia, con la regione Lombardia in testa, in cui si stabilisce la normativa pubblica su tutto. Dovrebbero essere invece i professionisti o gli esperti a stabilire queste cose, consentendo così anche la riconquista di un prestigio e di una responsabilità professionale che oggi non ci sono.