Martedì 26 Agosto, ore 17

CODICI E TAMBURI: TRACCE DI CIVILTA’

Partecipano:

Adrian Ines Chavez,

docente di Storia della Pedagogia, Geografia e Storia universale. Fondatore dell'Accademia di lingua Maya Kichè, studioso di lingue indigene, traduttore del Pop-Wu, il manoscritto sacro degli antichi Ki-chès, Maya.

Leo Moulin,

storico, docente di Lettere e Filosofia presso l'Università di Bruxelles; esperto in Scienze Sociali presso l'UNESCO.

Vittorio Franchini,

etnomusicologo, giornalista, critico musicale, scrittore.

Tre personaggi raccontano come in modi, tempi e luoghi diversi e lontani tra loro, la comunicazione nata dall'esperienza umana abbia costruito cultura e civiltà. Il professor Adrian Ines Chavez è il primo indio del Guatemala che sia riuscito, superando i grandi ostacoli frapposti all'educazione degli "indicanas", a laurearsi. E assurto a fama internazionale di studioso dedicando la sua vita alla difficile ricostruzione e traduzione critica del libro sacro dei Maya, il Pop Wu, l'unica opera di letteratura pre-colombiana giunta a noi per intero, in una scorretta edizione castigliana. Il professor Leo Moulin, belga, che ha condotto numerose ed approfondite ricerche sul monachesimo, racconta come, nel Medioevo, le forme di comunicazione che veicolano civiltà nascano dalla grande tradizione della Chiesa. Vittorio Franchini, italiano, brillante giornalista, attento conoscitore e studioso delle culture africane, racconta la vita e le tradizioni della cultura orale del Dogon, popolazione presso la quale ha vissuto a lungo.

A.I. Chavez:

Onorevole assemblea scientifica, rispettabile uditorio, debbo spiegare perché sono stato un poco in silenzio. Il comportamento dei nostri antenati era questo: invocare il creatore sempre prima di cominciare qualsiasi attività umana. Prima di cominciare un viaggio, prima di estirpare un albero, prima di aprire il seno della terra per seminare e per produrre gli alimenti, prima di raccogliere il raccolto maturato grazie all'aiuto divino. Questo è il costume religioso. Ho invocato il Creatore perché mi aiutasse a dire le mie parole in modo onesto. (…) Debbo anche spiegare perché mi presento vestito con il costume tradizionale dei miei antichi. Era consuetudine vestirsi con l'abito cerimoniale per un avvenimento solenne e straordinario come è quello che stiamo vivendo oggi. Per me questo avvenimento ha un grande rilievo dal punto di vista umano e morale. Perché esiste una preoccupazione profonda negli organizzatori dei Meeting: la preoccupazione che l'uomo ritorni alla sua condizione più propriamente umana, perché nel mondo attuale l'uomo si sta allontanando dall'uomo, perché non c'è comunicazione diretta, non si riesce più a comunicare spirito con spirito, anima con anima: perché nella conversazione parlano anche gli occhi, i due fari dell'anima, ed anche il gesto è una espressione diretta dello spirito che si sta perdendo nel nostro tempo. Sì, abbiamo queste capacità artificiali di comunicazione, ma c'è qualche cosa che non soddisfa completamente questa esigenza della comunicazione diretta, umana. Io vorrei che tutto il popolo guatemalteco vedesse quello che vedo io oggi, udisse quello che sto udendo. Perché sto lavorando per il mio paese, per il Guatemala. Porto qui, cari italiani, un messaggio millenario. Io pensavo si trattasse di un messaggio di 8-10 mila anni fa, ma grazie alla notizia stupenda diffusa da una rivista scientifica di Londra, ho potuto capire che l'uomo giunse in America per la prima volta trenta-trentaduemila anni prima di Cristo. Una data fantastica. La notizia che io voglio portare qui, proviene da quell'epoca. Perché si può affermare questo soltanto adesso? Perché non si è mai data importanza ad un libro importantissimo, millenario, il Pop-Wu, non Popol Wu, come disgraziatamente è stato divulgato. Significa "libro del tempo": poema mitico e storico, è un libro di grande bellezza. Gli antichi Maya pensavano che l'universo fosse una piramide molto grande, che il creatore si trovasse sulla cima e che l'umanità stesse alla base. Oggi sappiamo che l'universo è una enorme sfera infinita il cui centro è in tutti i luoghi, e la cui superficie non sta in nessun luogo. I templi rappresentano l'universo e per questo hanno una forma piramidale, dall'America del Nord all'America del Sud. Il libro è molto antico: a pagina 71 dice: "Siamo venuti qui in America quando eravamo ancora vestiti di pelli". Quando cominciarono a costruire i loro primi strumenti di pietra, erano già uomini intelligenti, saggi, lavoravano i cibi, gli alimenti, non su un piano orizzontale, perché la donna in questo modo avrebbe dovuto faticare molto, ma inclinato. Dice sempre nella stessa pagina: "quando il popolo gli chiese il fuoco, nella pianta dei suoi sandali sfregò un elemento e si produsse la scintilla, il fuoco". Non sappiamo su che cosa sfregò il sandalo, ma certo è una menzogna che il fuoco l'abbiamo inventato sfregando dei bastoncini. Soltanto battendo un elemento naturale come il quarzo, si può produrre il fuoco. Questo è documento storico. Un altro passaggio stupefacente: "venne una enorme trementina dal cielo". Io stesso restai incredulo dinanzi a questa affermazione, no, sono sciocchezze, dissi, come è possibile che dal cielo piova trementina, forse ci sono pini, forse ci sono boschi in cielo, perché possa cadere resina sulla terra? Abbandonai il libro per molto tempo, senza tradurlo, (ho lavorato vent'anni a tradurlo, prendendolo e lasciandolo). lo sono stato professore di Cosmografia in un istituto superiore e improvvisamente mi ricordai che pianeti vivi hanno un fuoco al loro centro che si chiama magma, è la pietra liquefatta, il basalto, la pietra verde che al calore diventa liquida, grazie all'intervento della mano del divino creatore, che soltanto può convertire in liquido le rocce, tre milioni di gradi di calore per liquefare la pietra. A poco a poco mi sovvenni del sistema solare, del fatto che fra Marte e Giove esistono dei corpi che girano all'impazzata, senza un moto preciso, ordinato, dei corpi che descrivono orbite complicate, corpi di diverse dimensioni, da trecento Km a tre Km di diametro, pezzi di roccia, gli asteroidi. Nel codice di Dresda, in Germania, si dice: "distruzione del mondo attraverso l'acqua"; ma non fu acqua quella che cadde, perché allora gli antichi artisti Maya avrebbero dipinto linee rette, a indicare la pioggia. Invece si nota una sostanza dotata di spessore, magma: era lava ciò che cadeva dal cielo, non trementina, ma una sostanza simile. Vi fu un'esplosione, la distruzione di un pianeta, fra Marte e Giove, il cui magma cadde sulla terra. Dei pezzi volarono per lo spazio, e alcuni caddero sulla luna; è per questo che la luna presenta delle linee circolari: qualcosa cadde sulla luna provocando un'onda circolare, come, quando noi gettiamo una pietra nell'acqua, si producono delle onde che si allargano vieppiù, ma nel mezzo si alza una piccola piramide. Evidentemente caddero pezzi di questo pianeta sulla luna. Allora vuol dire che questo è il più antico tra tutti i libri che esistono. Adesso probabilmente ci saranno degli uomini di scienza che impugneranno opinioni come questa. Anticamente non si attribuiva nessun valore a questo libro, ma improvvisamente ci si è accorti che conteneva cose estremamente importanti. Perché si è fatto il Meeting? Per ricercare la verità. In chimica, in fisica, in storia, in geografia, nelle scienze fisiche, si cerca la verità. (…) Un altro passaggio dice: "Alcuni se ne andarono verso il tramonto, verso l'oriente, verso il levante". La storia indiana, e così pure la tradizione sanscrita, parlando degli antenati, i primitivi, dicono che provenivano da ponente attraverso il fiume Indo; e ciò coincide con quanto sostiene il Pop-Wu. La tradizione cinese, che ha una vita di tre-quattromila anni prima di Cristo, dice: "i nostri antenati discesero dal tetto del cielo". Gli antichi cinesi chiamavano "tetto del cielo" il Tibet. Questo coincide con la scoperta di due antropologi francesi in Brasile, che trovarono in questo punto tracce di trentaduemila anni prima di Cristo, prima dell'ultima Glaciazione. Allora lo stretto di Bering restò allo scoperto, e poterono passare le genti dal Nord America, dal Canada. (…) Un altro lku, aforisma giapponese, dice: "molti allora vennero qui": alcuni giunsero in Messico, altri in Centro America, altri in Venezuela, altri in Brasile. Il momento in cui si disperse l'umanità... nel mondo risale a cinquantamila anni fa. Vuol dire che i popoli d'Europa e d'America ebbero un'origine comune. (…)

L'invasore spagnolo ha infangato, denigrato tutto ciò che ha trovato in America; questo non serve, ha detto, questo è del demonio, gli indiani sono selvaggi, vivono nudi, mangiano le persone, sono traditori, sleali, viziosi. Per questo non si tiene in considerazione ciò che ha prodotto il continente americano. Adesso stiamo alzando la voce, rivendicando le nostre tradizioni, la nostra storia affinché si ristabilisca la verità. Questo è il nostro compito, non si tratta di una reazione violenta, non si tratta di coltivare odio, ma di cercare la verità per coltivare l'armonia, per produrre la pace fra gli uomini, perché abbia termine la discriminazione.

L. Moulin:

(…) La comunicazione nel Medioevo

Il Medioevo non è stato sprovvisto di mezzi di informazione e comunicazione. Questi grandi secoli luminosi e vibranti ne abbondano. Elenchiamoli brevemente: la predicazione, la Messa, la statuaria delle chiese, l'insegnamento delle Università, la vita monastica, la traditio, le liturgie, la vita quotidiana.

La predicazione nel Medioevo

Le cronache ci parlano di moltitudini che ascoltano con le lacrime agli occhi e spesso singhiozzando, la parola degli oratori, spesso vendicativa, minacciosa, apocalittica. Ci si può chiedere in quale lingua predicassero questi monaci venuti dall'Irlanda o dall'Inghilterra. I cronisti ci dicono che folle stupite ascoltavano San Bernardo che non comprendevano, e ascoltavano con difficoltà colui che traduceva le sue parole: mistero del carisma e mistero della calda comunicazione attraverso la Parola che annuncia la Parola.

La Messa

Ho visitato, l'anno scorso, nel "Forez" in Francia, delle chiesette romaniche dei X-XI secolo bisognava arrampicarsi per assistere alla Messa e il pendio era ripido. In inverno... in estate... immaginavo questo pugno di contadini irsuti, maleodoranti, ignoranti, spossati dal lavoro dei campi, che, una volta alla settimana si sforzavano di vivere e di pensare da cristiani per qualche istante: che, una volta alla settimana, intravedevano una scintilla, subito estinta, di vita spirituale. Un prete, un piccolo prete di campagna, non molto più istruito di loro, bene o male riusciva ad istruirli. Egli comunicava con tutto il cuore, essi ascoltavano, tormentavano il loro povero cervello per comprendere qualcosa. La liturgia veniva loro in aiuto. Permetteva ad ognuno di comprendere senza sapere ed essere istruito senza conoscere. Essa permette a coloro che comunicano di riconoscersi gli uni negli altri, senza mai essersi conosciuti. Comunicando, entrando in comunione con l'altro attraverso segni, simboli, riti lentamente messi a punto lungo i secoli (…). La statuaria primitiva e sontuosa, che ornava le chiese, aiutava i fedeli ad istruirsi, a comprendere ciò che la profonda ignoranza non sempre permetteva loro di afferrare. Questa Bibbia degli analfabeti, poteva essere letta da tutti, anche dalla madre "poverella e anziana" descritta dal poeta Villon (1431-1489), il "paradiso dipinto dove ci sono arpe e liuti" dove vengono accolti i beati, e l'inferno dove i malvagi vengono "bolliti". La magnificenza dei luoghi - quando c'era - parlava loro della grandezza di Dio; l'illuminazione sontuosa per l'epoca, nonostante la cera fosse rara e di conseguenza alquanto costosa, prefigurava la luce nella quale essi sarebbero vissuti un giorno, per l'eternità. Queste ed altre forme di linguaggio erano dunque mezzi di informazione, ma la cosa importante da constatare è che coloro che venivano formati ed informati in questa maniera aspiravano a questo tipo di insegnamento ed erano aperti al linguaggio di chi ne sapeva un po' più di loro, attenti ai Misteri, al Mistero, al Dio sconosciuto, alla percezione dell'aldilà. L'individualismo razionalistico non aveva ancora reso sterili gli uomini. Un'altra fonte di informazione nel Medioevo: i pellegrinaggi. A questi pellegrinaggi la Chiesa, e specialmente gli ordini religiosi, si sforzavano di dare consistenza costellando le strade che conducevano ai luoghi santi, di centri di accoglienza, di ostelli, di ospedali, di alberghi. Durante il suo lento cammino, il pellegrino veniva istruito, informato, illuminato. Gli si raccontavano le pie leggende locali, si illustrava loro il significato dei timpani della chiesa, si spiegavano le origini delle reliquie che arricchivano il luogo e lo rendevano famoso. Si recitavano alcune canzoni di gesta illustrando con una luce meravigliosa la strada da seguire. I religiosi, canonici regolari agostiniani, cistercensi, templari, ed altri specialisti dei "turismo sociale", spiegavano ai pellegrini le ragioni profonde delle loro fatiche e delle loro sofferenze; facendo ciò che oggi chiameremmo "animazione culturale". La comunicazione era un appuntamento, poiché non era affatto raro che il pellegrinaggio raggruppasse diverse centinaia di persone, annoverando nei suoi ranghi professionisti, delinquenti comuni che speravano di sfuggire in questo modo ai gendarmi, una o più donne di strada non del tutto pentite, ed anche - bisogna tener conto della debolezza umana - dei professionisti della strada che si impegnavano - in cambio di denaro contante - a fare il pellegrinaggio al posto dei cristiani più deboli o timorosi. L'esemplarità della vita monastica era un altro modo per educare ed informare le rudi masse dell'epoca. Come bisogna vivere per essere veri cristiani? A quali dure esigenze - sonno interrotto, austerità, obbedienza ("sine murmurazione", regola S. Benedicti, 35, 24), lavoro, silenzio - occorre piegarsi se si vuole vivere alla lettera l'insegnamento di Cristo? Vivendo, giorno dopo giorno, una vita conforme ai precetti loro trasmessi dal santo fondatore, i religiosi illustravano con insistenza l'essenza del messaggio cristiano così come loro lo vivevano. (…) Altro fattore di informazione e di diffusione, di conoscenza e di notizia: l'obbligo per i religiosi, canonici, monaci o mendicanti che fossero, - almeno due per monastero - di recarsi a piedi presso i luoghi dove si tenevano i Capitoli generali (è il momento di ricordare che la prima Assemblea internazionale europea è opera dell'Ordine di Citeaux, nel 1115, cioè un secolo prima della concessione della Magna Charta in Inghilterra). Lungo la strada essi raccoglievano il maggior numero possibile di informazioni sui frutti, i legumi, le piante medicinali e d'altro genere, e i rimedi, le ricette di ogni specie, i segreti e le astuzie di fabbricazione... di cui essi assicuravano la diffusione; comunicavano i risultati delle loro esperienze e dei loro esperimenti, trasmettevano l'essenza della saggezza acquisita durante gli anni e per le strade. E sicuramente raccontavano ad ogni tappa voci di guerre, di epidemie, di carestie che correvano lungo il cammino, notizie buone e cattive alla rinfusa, pettegolezzi riguardanti le famiglie principesche ed i vescovi, esattamente come la radio ai giorni nostri, e nessuno si stancava mai di ascoltarli. Non dimentichiamo la pratica dei "rotoli dei morti": all'interno degli ordini, l'annuncio della morte di un fratello veniva trasmesso in tutte le case, si dava ad un religioso l'incarico di portare la lettera di partecipazione, ogni caso presentava le condoglianze scrivendo qualche pensiero, più o meno stereotipato, qualche volta alcuni versi, elogiativi all'indirizzo del defunto (il che, tra l'altro permetteva di controllare l'andata e il ritorno del portatore di notizie) (…). Se guardiamo più in alto abbiamo l'insegnamento delle Università, luoghi privilegiati della comunicazione e del dialogo (e delle querele), creazione tipica di questi secoli che alcuni chiamano oscuri. Nel 1602 il numero delle Università era di 102 e al di fuori dell'area cristiana non esistevano affatto. Infine, all'altro lato della catena di informazione e di comunicazione, troviamo la Traditio, cioè la trasmissione dei valori antichi, dialetti, credenze, canzoni, usi e costumi, rituali alimentari, proverbi, liturgie socioculturali di ogni tipo, frutti elaborati lentamente da una cultura contadina e montanara, marinara, artigiana o forestiera. Questa tradizione trascina un gran numero di pregiudizi e di superstizioni, una quantità di terror panico, di credenze ingenue ai miracoli, ai quali si mescolava una aspirazione al meraviglioso non cristiano, sempre presente, e la certezza che la magia e la stregoneria giocavano il loro ruolo nel gran teatro del mondo. Nell'insieme era un'informazione rudimentale (…). E’ incredibile che una società che ha visto nascere dei geni della comunicazione come Dante o J.S. Bach, Michelangelo e mille altri, si sia lasciata disorientare al punto di accettare per più di tre decenni una tesi tanto condannata dai fatti e dalle esperienze, come la dottrina sartriana della incomunicabilità e della solitudine esistenziale. Si può parlare di solitudine e, quindi, di assenza di comunicazione solo quando ci si rinchiude, volontariamente, in una volontà altezzosa (o disperata) di essere soli di fronte a se stessi, in una pretesa libertà radicale che altro non è, in realtà, che una cieca sottomissione a forme di schiavitù consentita, di sottomissione alle pulsioni della paura e dell'istinto. "La soddisfazione dei loro desideri serve a loro come legge: considerano santo tutto ciò che pensano o che decidono, e ciò che non piace a loro, dicono che è vietato... Sempre erranti, mai stabili..." Non vado oltre: avrete indubbiamente riconosciuto la descrizione che, più di 15 secoli fa, San Benedetto ha fatto di un certo tipo di monaci che rifiutavano la grande scuola dell'esperienza. "L’inferno sono gli altri", così ha scritto Sartre che ha lottato durante tutta la sua vita (sempre contro corrente) perché la giustizia fosse resa agli altri. Questa è una curiosa contraddizione, ma soprattutto una strana affermazione che nessuno dei grandi Santi che hanno plasmato gli uomini, molto più e molto meglio di quanto non abbia mai fatto J.P. Sartre, ha mai formulato. Ma il fatto che l'autore de La Nausea abbia potuto portare avanti questa affermazione merita una riflessione. Come è potuto arrivare a questo punto di disperazione e tuttavia di rivolta radicale? Il terribile dramma di Sartre trova una spiegazione nella sua autobiografia, La Parole, dove si trasmette l'idea di un mondo senza un punto di riferimento trascendentale; senza punto di aggancio nell'Assoluto, i valori come la gioia, la forza e la fecondità dell'Europa sbandano e si trasformano in tossine, cioè in veleni. L'individualismo si trasforma in anarchia, il sentimento di uguaglianza in egualitarismo, la scienza in scientismo. Il legittimo diritto alla felicità si corrompe in edonismo. I processi di secolarizzazione estendono la loro azione fino al campo dell'umano che ne muore. Il secolo scorso, con Feuerbach, ha condannato tutto ciò che gli appariva come la prima e più grave di tutte le alienazioni, e cioè l'alienazione religiosa. L'uomo ha voluto essere simile agli dei che conoscono il Bene e il Male, cioè decidere, come loro, ciò che è bene e ciò che è male. Il risultato, lo conosciamo bene, è la società attuale, è l'uomo disorientato, destrutturato, disarmato di oggi, aperto alle avventure mortali della droga e delle sette. Incapace di esprimersi, di dialogare, di comunicare, vive la sua solitudine in seno alla vita tumultuosa e frenetica delle grandi città (…). Ma non è tutto: in balia di se stesso, l'uomo di oggi è più credulo o, almeno, credulo quanto il suo antenato del Medioevo. E’ sprovvisto di spirito critico perché crede che sia sufficiente vivere in seno a una Società critica (nel pieno senso del termine), per avere le capacità necessarie per acquisirlo. Infatti è rimpinzato di informazioni, ma è incapace di digerirle, in altre parole di selezionarle per integrarle in una visione costruita e solidamente fissata del Mondo, dell'Uomo, della Città, secondo una scala di valori stabile e ben definita che darebbe loro tutto il significato; è ignorante quanto gli uomini d'allora. Poiché lo scopo della comunicazione, quali che siano i mezzi che essa intende utilizzare, è un uomo, più esattamente una persona (che non è una cosa data, ma creata) che conosce il senso del suo destino ed è capace di assumerlo. In altre parole, l'informazione non è fine a se stessa, deve aiutare alla formazione, altrimenti perde qualsiasi ragione d'essere. (…) I processi di socializzazione agiscono a stadi diversi: l'educazione familiare si colloca ad un altro livello rispetto all'indottrinamento ideologico, l'insegnamento religioso su un altro piano rispetto all'iniziazione civica. Possono entrare in conflitto; meglio ancora, è attraverso la forza delle cose che entrano in conflitto. E’ il caso della fedeltà alla patria e di taluni impegni (per esempio 'tu non ucciderai') ed esigenze di civismo (il servizio militare ecc.). Tutti questi fatti creano delle spiagge di libertà per l'individuo. Non si tratta e non si tratterà mai della libertà totale, astratta, ideale dei 1789 - che non è mai esistita e che non esisterà mai - né della libertà sovrumana di Nietzsche, né di quella di Sartre. E’ una serie di libertà che l'Uomo deve difendere e proteggere e utilizzare nella sua completezza se vuole vivere in piena dignità di essere comunicante e in comunione.

V. Franchini:

Alaman sonà! Dio vi benedica! Dio vi porti. Salute a voi che avete sete! Sete di acqua per purificarvi, sete di sapere per avvicinarvi al cielo! Salute di fatica, salute di sole, salute di piogge gravide di semi. Che il Nommo mi spinga ad amarvi! Che il Nommo mi fulmini, in questo stesso istante, se penserò mai male di voi, voi che certo non siete nati soli, figli delle stelle!!! Non meravigliatevi, vi prego, di questo saluto eccessivo in un paese come il nostro nel quale ci si sbriga con un ciao. E’ il saluto dei Dogon e proprio delle tradizioni Dogon intendo parlarvi. Si tratta di un piccolo popolo, non più di due o trecentomila persone che vive nel Mali, isolato da una parte dal Sahara e dall'altra da una faglia rocciosa alta da duecento a quattrocento metri e lungo circa duecento chilometri, un caos di rocce grigio-rosa ribollenti di sole. Un mondo straordinariamente lontano dal nostro, che si dice disceso da creature aliene venute da Sirio B, che parla di un Dio-pesce e che pure formula pensieri assai vicini ai nostri e che fa dire ad un suo Dio, il settimo Nommo: "Ku ma innè dega de bebadu" ovvero: "La mia testa è caduta per salvare gli uomini". Ho scelto il popolo Dogon perché vede nella parola il suo momento più alto, più spiritualmente illuminante, punto di contatto fra il divino e l'umano ed è, appunto, la parola, il tema di questo nostro incontro (…). Cercherò di illustrare alcuni aspetti del pensiero simbolico Dogon, con la speranza di districarmi nel complesso viluppo di una religione che collega direttamente i Dogon ad una stella nana bianca, Sirio B, assolutamente invisibile ad occhio nudo e che loro conoscono nei minimi dettagli. In quanto a noi, o alla nostra scienza, Sirio B ha storia recente. La presenza dell'oscura compagna di Sirio è stata, infatti, ipotizzata soltanto nel 1844 da Willhem Bassel con uno studio portato avanti, venti anni più tardi, da Alvan Graham Ciark e concluso nel 1922 da Walter Sidney Adams. (…) Chi ha fornito loro le informazioni? Gli dei venuti dalle stelle, rispondono con semplicità, divinità un po' pesce un po' uomo arrivate da Sirio B, figli di Amma, padre di ogni cosa. Nommo si chiamano questi dei e sono otto e sono giunti a bordo di un'arca atterrata con grande fracasso presso il lago Debo. E disegnano il veicolo come i nostri bambini schizzano per gioco un disco volante. E attraverso quel frastuono la parola fu scagliata nelle quattro direzioni. Che cosa c'è di vero in questa storia? (...) Dall'Egitto o dalla Libia i Dogon di oggi sarebbero stati costretti ad emigrare verso il sud. E un viaggio del genere lascia sempre tracce profonde (…). Trovo altri appunti sul viaggio. L'interlocutore è Kodio, hogon del villaggio di Ammani: - Kodio, parlami delle origini. Da dove arrivano i Dogon? - - Il Nommo arrivato con l'arca, proveniva dalle stelle. Aveva attraversato i cieli, era volato su altri mondi. Veniva in particolare da una costellazione dove c'è una grande stella brillante, la più fulgida di tutto il cielo notturno, attorno alla quale ruotano altre stelle e fra queste una piccola stella. In quella stella è l'inizio. Su quella stella è nata la parola che poi Amma ha mandato a noi attraverso il Nommo, lungo le strade misteriose dei cielo. - - Questo avveniva qui, con l'arrivo dell'arca. Ma prima? Prima di andare per la savana alla ricerca di una terra (anche per loro la terra promessa?) dove stabilirvi, in chi credevate? Kodio, chi era dio prima dell'arca? - - Prima dell'arca era il caos, la confusione. Tutto ciò che sta alle spalle dell'uomo non è di facile comprensione. Prima era il silenzio. Camminavamo nel buio delle caverne del sapere con la speranza di trovare una luce e una parola. Anche perciò non è possibile ricordare un passato tanto lontano. Tieni presente che prima dell'avvento dei Nommo i Dogon non avevano la parola. Come potevano, quindi, trasmettersi delle idee? Bisogna avere fede, credere nelle cose che ci sono state tramandate, vivere sicuri di essere una parte di un tutto, come il seme di un baobab incapsulato nella dolce farina del frutto. Po tolo è la chiave del mistero. La stella che non si vede con gli occhi ma con il cuore e con la fiducia. Noi sappiamo che esiste e che passa sulle nostre teste a periodi fissi e ci protegge. E’ la terra di Dio e a lei dobbiamo tutto. - Che fare davanti alla fede? Il ricercatore cosa può rimuovere dall'animo di un uomo che crede? Nulla, penso, se non l'immensità di un sentimento che colma quell'uomo in ogni suo momento. (...) Altre cose misteriose appartengono alla cultura Dogon: il Togu-na, per esempio, letteralmente 'riparo-madre', ma anche ‘casa della parola’, dato che vi si riuniscono gli uomini per prendere tutte le decisioni importanti o 'casa delle stelle', come l'ho ribattezzato io, quando un togu-na mi è apparso dalla piana del Seno, alto sul villaggio, quasi fosse davvero un veicolo spaziale pronto ad involarsi. Il Togu-na ha cento e cento simboli, dai pilastri che possono essere sette, perchè sette sono i numeri della donna più quelli dell'uomo, quattro per la donna, tre per il suo compagno, oppure otto perchè otto sono i Nommo e gli antenati e su ogni pilastro sono tutti i simboli della vita Dogon: nay, la lucertola, segno della circoncisione, una lucertola nera e bianca, come nera e bianca è la coperta dei morti, e nay vuol dire anche quattro, numero della donna, e anche sole che è anch'esso femminile, oppure lo scorpione che indica l'escissione, ovvero il momento in cui la donna si libera dalla sua parte maschile, e le impronte del primo Nommo, quando scendendo dall'arca indicò agli uomini la via da seguire, e la luna, le stelle: un fitto intrico di simboli, insomma, che sicuramente nessuno più sa leggere correttamente. Oppure il significato della tessitura, importante per ciò che se ne ricava ma soprattutto perchè tessere è come parlare, ancora l'invenzione della morte: "Gli uomini - raccontava Kodio - un tempo erano immortali così come gli dei li avevano concepiti. Un uomo arrivato alla fine dei suoi giorni si mutava in serpente e continuava a vivere e ad osservare il suo villaggio, purché non si inserisse negli affari degli dei e, soprattutto, evitasse di parlare. Ma un giorno uno di questi uomini-serpenti, erano migliaia annidati fra le rocce della falaise, incontrò un gruppo di giovani che ballavano adorni delle fibre rosse che il Nommo aveva dato alla Terra per purificarla del suo peccato (si era unita incestuosamente con il figlio, lo sciacallo), per proteggerla e per renderla fertile. L'uomo-serpente non sapeva che le fibre, erano diventate un ornamento maschile, anche se la cosa non era stata ufficialmente sancita dalla comunità. Sopraffatto dall'ira, offeso per quell'atto che riteneva blasfemo, l'uomo-serpente si era messo davanti ai giovani e li aveva redarguiti. E per essere inteso aveva parlato in Dogon, venendo meno alla promessa fatta. Era bastato quell'errore per costringere lui e tutta l'umanità alla morte". Il racconto era oscuro, ma di più Kodio non sapeva spiegare. Segno che molte cose misteriose per noi lo sono ormai anche per loro che non conoscono più il significato di certi rituali, di certi gesti, perfino di certe parole. La tradizione orale si fa risalire fino ad un massimo di cinque-seicento anni: quante cose possono mutare in un lasso di tempo così lungo? Anche fra i Dogon, come avviene quasi sempre in Africa, la tradizione viene mantenuta viva attraverso canali diversi: quelli ufficiali, affidati per lo più all'hogon al quale spetta la memoria di taluni testi che deve saper ripetere parola per parola. Si tratta di testi legati alla religione. Vengono ripetuti senza mai tradirne i particolari, anche quando le parole non hanno più senso e ne è garante un piccolo consiglio di saggi che ascolta e, in qualche caso, interviene e corregge. E’ in questi testi che ricorrono più spesso le parole ormai uscite dal gergo abituale. Ma tutti le ripetono senza porsi problemi di interpretazione. Sanno che così erano e così dovranno essere. Altre notizie vengono invece tramandate attraverso un collettivo che si esprime, quindi, a più voci, magari per categorie: i fabbri, i musicisti, i cacciatori ecc. Anche questo collettivo ha funzioni ufficiali, ma non è strettamente tenuto alla ripetizione di un racconto con parole, per così dire, sacre. Chi parla può usare espressioni sue, purché le notizie siano esatte. E del rispetto della verità si occupano tutti i partecipanti al collettivo che ascoltano, controllano e impediscono distorsioni. Infine esiste una tradizione che potremmo definire popolare: il griot, il cantastorie, che in qualche occasione è anche un po' stregone e un po' sacerdote, oltre che musicista, racconta o canta accompagnandosi con uno strumento che può essere un semplice tamburo oppure un balà, o una sanza o una citara. Narra storie di re, di esseri misteriosi, leggende su come il mondo nacque da un tamburo o come l'uomo diventò violento, ed ha la possibilità di arricchire a suo piacere la narrazione. E’ un uomo di spettacolo e deve esibirsi davanti ad un pubblico che già conosce le sue storie. Spetta a lui dare momenti di suspense, evidenziare un aspetto trascurato, dare mordente, al fine di rendere più intenso il racconto e di incatenare l'attenzione di chi ascolta. (…) Ecco come si esprimeva Yuma, una donna Dogon, sottoposta alle mie domande. Leggo dal mio diario: "Io non so cosa ti abbiano detto gli anziani. Le donne non devono ascoltare i discorsi che gli uomini fanno nella casa della parola, ma certo Kodio ti avrà raccontato del nostro inizio: il Dio, la terra, il loro matrimonio funestato dal figlio unico, il figlio sbagliato, lo sciacallo che poi si è coricato con la madre compiendo un atto cattivo, vietato dalla legge degli dei ma anche da quella degli uomini. Da allora la donna ha un debito che deve pagare con il suo sangue. Quando si bagna di sangue cattivo non può vivere con gli altri, deve stare sola o con le donne. E’ il Nommo che sta nel fegato di ognuno di noi che spinge fuori il sangue. Così un fatto cattivo diventa buono. Chissà cosa ti raccontano gli anziani nel Togu-na. Hanno il senso della tragedia, loro. Tutto è magico, tutto è legato ad una misteriosa catena che tiene insieme l'universo. Basta spezzare un anello per cadere nel caos. Poi gli anelli si rompono e non accade niente. Credo che le leggi siano diventate vecchie come gli anziani. Non per mancare di rispetto. Si sa che le donne sono linguacciute ma davvero i maschi fanno sempre dei drammi per nulla. Credono che il mondo sia rimasto come nel primo giorno. Le cose cambiano, invece, e le regole si intrecciano ad altre regole e ognuno si fa le sue, anche se in pubblico seguiamo sempre quelle dettate dagli anziani. Ma i giovani non credono più a tante cose". (…) Un'ultimissima riflessione: l'uomo ha bisogno di comunicare. Con se stesso, con i suoi simili, con qualcosa, entità misteriosa, superuomo o Dio, al quale affidarsi, qualcosa in cui credere, qualcosa di esterno a lui ma a lui strettamente vincolato, capace di affrontare quegli interrogativi dinanzi ai quali l'uomo, che pure è capace di porli, non sa trovare le risposte. Fra i Dogon c'è un padre supremo che nel villaggio è rappresentato dal baobab, l’albero del quale si utilizza ogni cosa: i semi dei frutti, la polpa bianca che fornisce una farina dolce, le foglie che offrono all'alimentazione calcio e vitamine di cui è carente, le radici usate come combustibile, le fibre per la costruzione di molti oggetti e delle stesse abitazioni. E ci sono divinità inferiori che fanno da tramite e che portano all'uomo la parola. Ma scoperta la parola, l'uomo si accorge anche di averla avuta sempre vicina: la parola è nelle mani del tessitore, in quelle del fabbro che forgia il ferro, in quelle del musicista che pizzica o percuote uno strumento. E’, insomma, un dono di Dio ma implicito nell'umanità. Dio con la parola raggiunge i suoi figli e questi, grazie alla parola si rivolgono a lui con la preghiera, ma al limite anche con l'invettiva, e si forma un cerchio che si chiude attorno al mondo e attraverso il quale fluisce ogni cosa ed ogni cosa si dispone secondo un ordine voluto insieme da Dio, dalla natura e dall'uomo. (…) Ma spetta all'uomo, e soltanto a lui, fare un buon uso delle cose che Dio ha offerto. Spetta a lui, insomma, scegliere il messaggio che spinga altri verso la pace oppure verso la violenza, dato che entrambe fanno parte del cerchio e condividono in ugual misura la vita di questo strano, fantastico animale che chiamiamo uomo.