"Ho visto un re. Ma chi parla di me?" Che TV per i senza potere?

In collaborazione con Club Santa Chiara

 

 

Martedì 25, ore 18.30

-----------------------------------------------------------------

Relatori:

Alan Friedman, Giornalista e Conduttore televisivo

Maurizio Carlotti, Amministratore Delegato Mediaset

Roberto Zaccaria, Presidente RAI

Gad Lerner, Inviato de "La Stampa" e Conduttore televisivo

 

Friedman: Il futuro della televisione non è soltanto una questione di tecnologia: la tecnologia è sicuramente importante, stiamo assistendo a un momento di svolta tecnologica che riguarderà anche i consumatori. Da Natale, ad esempio, sarà in vendita il televisore con Internet. Comunuqe, il futuro della televisione non si gioca tanto sulla televisione digitale o satellitare, è invece piuttosto una questione di scelta e di concorrenza per i consumatori. La vera domanda sul futuro della televisione è quella che si trova nel titolo di questo incontro: chi cura l’interesse dei più deboli? chi cura gli interessi dello spettatore svantaggiato? dove troveremo spazio, dalla televisione generalista alla televisione tematica, per gli interessi di nicchia? e quale è il ruolo del servizio pubblico in questo momento di svolta?

Carlotti: Il tema di oggi credo sia fortemente insidiato dai dubbi che tutti noi che lavoriamo professionalmente nella televisione avvertiamo, trovandoci in una fase di trapasso. I problemi italiani non sono da questo punto di vista molto diversi da quelli che si vivono per la televisione pubblica e privata in altri paesi d’Europa. Prima di sviluppare la mia tesi su questi problemi, porrò due premesse.

La prima premessa parte dal fatto che la televisione è sicuramente al centro di questa rivoluzione tecnologica che conosciamo come rivoluzione digitale, processo per il quale apparati con i quali siamo ormai in confidenza, come il telefono, o la televisione stessa, o il personal computer, tendono a convergere in un unico strumento che con tutta probabilità sarà uno schermo televisivo e assomiglierà perciò a un televisore. Questo nuovo centauro tecnologico non potrà essere sic et simpliciter televisione, perché continuerà a esserci una grande differenza tra i diversi contenuti che verranno veicolati da questo schermo. Per questo, ed è il contenuto di questa prima premessa, non bisogna confondere televisione con televisore, inteso come questa nuova dimensione dello schermo televisivo attraverso il quale si realizzerà la convergenza digitale.

La seconda premessa - fatta dal mio punto di vista, quello di un’impresa che opera nel mercato - è che l’impresa non è l’unica maniera di organizzare risorse economiche, tecnologiche e umane intorno ad alcuni obiettivi e per il raggiungimento di alcuni fini: ci sono altre forme di organizzazione che adempiono ai medesimi o similari obiettivi, forme quali l’associazionismo, i club, le fondazioni, le cooperative. L’impresa ha il suo tratto caratteristico nell’operare in un mercato con un obiettivo principale che è l’utile economico, obiettivo che non esaurisce tutte le sue funzioni ma certamente ne rappresenta la principale. Questo punto di vista condiziona la mia analisi, che evidentemente è l’analisi di un operatore che opera per raggiungere un obiettivo prima che altri.

Fatte queste due premesse cerco di delineare brevemente la tesi che vorrei sostenere: la principale conseguenza della rivoluzione digitale e della compressione digitale è che ci sarà un’enorme possibilità di moltiplicazione di soggetti emissori. ‘Compressione’ significa che nello spettro radioelettrico, nell’aria, oggi c’è una determinata possibilità di trasmettere dei segnali televisivi; con la trasformazione digitale la medesima ampiezza di banda permetterà l’emissione di molti più programmi televisivi. Questa stessa tecnologia digitale si può applicare al cavo telefonico attraverso il satellite o attraverso le antenne che sono in questo momento sui tetti delle nostre case. La possibilità di avere molti più canali sta già determinando un notevole numero di offerte televisive: sono talmente variegate le possibilità che preferisco parlare di nuove forme di televisione, alle quali aggiungerei gli altri servizi più o meno interattivi a cui mi riferivo in precedenza quando dicevo che non bisogna confondere televisore e televisione. Ma anche rimanendo nel campo della televisione, è fuor di dubbio che ci sarà una moltiplicazione di offerte. La caratteristica principale di queste offerte è che saranno fondamentalmente offerte a pagamento; la novità è che le nuove forme di televisione introducono una nuova apertura nella struttura economica della televisione, una nuova forma di finanziamento della programmazione della televisione: le risorse che le famiglie saranno disposte a spendere per potersi abbonare a questi servizi. La possibilità di avere un numero molto maggiore di offerte televisive determina la conseguenza fondamentale da analizzare: è finita l’era della televisione.

La televisione in Europa è nata dopo la fine della seconda guerra mondiale ed è stata per un trentennio, a seconda dei paesi, un monopolio pubblico. Con l’arrivo della televisione commerciale abbiamo avuto la percezione che qualcosa stesse cambiando, ma ci siamo limitati a constatare che invece che esserci uno o due canali o tre, erano quattro, cinque, dieci, quindici, venti, ed è passato di secondo grado un aspetto che invece è molto più rilevante, ovvero che si affacciava una nuova forma di televisione distinta dal servizio pubblico televisivo. Nascevano delle imprese che avevano l’obiettivo di stare sul mercato e di vendere, non tanto di adempiere una missione diretta di servizio pubblico, ma di adempiere ad un servizio a tutte le imprese che si annunciano vendendo la pubblicità, l’unica risorsa economica con la quale potevano sostenersi. Questa distinzione non è stata sufficientemente né presentata e né delineata.

Oggi con l’apparizione di nuove ulteriori forme di televisione che saranno sostanzialmente a pagamento, risulterà finalmente chiaro che la televisione non esiste più, ma che esistono tre distinte forme di televisione: la televisione di servizio pubblico, la televisione commerciale e la televisione a pagamento. L’importanza di accettare e definire con precisione la differenza è fondamentale perché il sistema abbia armonia e possa perciò soddisfare anche le esigenze di quei ceti meno protetti che oggi giustamente reclamano una rappresentazione che non hanno. Dal punto di vista della struttura economica, il cliente di una televisione di servizio pubblico, di una televisione commerciale o di una televisione a pagamento, sono totalmente distinti. La televisione di servizio pubblico ha infatti per cliente principale la collettività nazionale, che attraverso le proprie imposte - in Italia il canone - paga parte importante di costi di questa televisione. Il cliente di una televisione commerciale sono invece le imprese che investono i loro quattrini nel comprare la pubblicità; i clienti delle nuove forme di televisione, infine, saranno le famiglie che decideranno di acquistare i servizi o i programmi che queste nuove televisioni offriranno.

Queste tre forme distinte di televisione vendono dunque tre cose diverse: la televisione di servizio pubblico vende un complesso di programmazione che dovrebbe corrispondere principalmente a esigenze di servizio pubblico; le televisioni commerciali vendono contatti pubblicitari alle imprese; le televisioni a pagamento venderanno servizi o programmi alle famiglie. Tre forme così distinte, profondamente distinte di televisione non dovrebbero competere tra di loro, ma dovrebbero competere dentro ciascun modello là dove competizione ci sia, perché nell’ambito del servizio pubblico ad esempio non c’è motivo per cui ci debbano essere due enti di servizio pubblico che competono tra di loro per erogare un servizio pubblico. Certo è invece che nell’ambito della televisione commerciale e delle nuove forme di televisione la concorrenza migliora il prodotto e abbassa il costo.

Se si accetta questo, interrogarsi sul futuro della televisione diventa più semplice. Anzitutto, le televisioni di servizio pubblico - o almeno gli enti pubblici che erogano o dovrebbero erogare direttamente tale servizio - dovrebbero rivedere profondamente la loro strategia, i loro obiettivi, la loro missione, dovrebbero quantomeno separare le loro funzioni di servizio pubblico dalle loro strutture che vogliano competere con altre imprese che fanno la televisione commerciale o la televisione a pagamento. Le risorse di carattere pubblico, come il canone, che vengono destinate dai cittadini agli enti pubblici di televisione, dovrebbero essere strettamente limitate alla realizzazione di questo servizio pubblico. Il futuro per la televisione commerciale è sicuramente più complesso. La televisione commerciale infatti è una televisione che deve rivolgersi ad un grande pubblico, perché ha un’unica possibilità di finanziare la sua attività: la pubblicità. Per poter vendere la pubblicità la televisione commerciale deve avere un grande consenso presso l’ascolto, il che non è necessario a priori affinché una televisione pubblica possa offrire un buon servizio pubblico, così come non è necessario per una televisione a pagamento. Una televisione a pagamento non ha bisogno di una grande audience, ha invece bisogno di un pubblico grande o piccolo che sia però disposto a pagare quanto sia sufficiente perché quel canale si possa mantenere.

Un’ultima considerazione: il nostro vero termine di paragone sarà un mercato globale multimediale. Per poter stare in un mercato bisogna accettarne le regole; i soggetti che operano sul mercato sono imprese e se sono imprese globali, non possono essere enti nazionali. Per questo un ente come la RAI, che è fondamentalmente pubblico, che non è un’impresa o comunque non è solamente un’impresa, che è uno strumento caratteristico nazionale, ha e avrà maggiori problemi di un’impresa nel trovare le sue alleanze.

Zaccaria: In un dibattito come quello di oggi, è importante evitare di cadere in una sorta di rituale prestabilito, che è di fatto lo scontro tra televisione pubblica e privata: non perché questo è un finto problema, ma perché il tema della televisione del futuro impone di guardare a questi temi con un’ottica meno legata a quello che abbiamo alle spalle e più legata alla capacità di cogliere quello che sta per succedere. Dobbiamo invece, man mano che i problemi legati a questo futuro diventano concreti, cercare di affrontarlo con una domanda semplice.

La televisione è il re, come recita il titolo, la televisione è assimilata ad una sorta di potere assoluto; la preoccupazione è se questo potere assoluto sarà sufficientemente illuminato da poter concedere un qualche spazio a qualcuno oltre a sé. La domanda semplice che oggi noi dobbiamo porci, proprio di fronte alla televisione del futuro, è la domanda di sempre: la televisione è potere o la televisione è libertà? Se noi facessimo questa domanda così semplice, non avremmo tutti la stessa risposta: perché? Perché se noi andiamo a guardare nella Costituzione, il problema della televisione è trattato in un articolo che dice che tutti hanno la libertà di manifestare il proprio pensiero, con la parola, lo scritto e con qualsiasi altro mezzo. È una libertà di tutti: 57 milioni di persone hanno questa libertà, se si va in Europa ancora di più. Ma le libertà hanno una caratteristica fondamentale: devono svilupparsi in misura ampia, non devono invadere le libertà altrui. Di conseguenza, non bisogna porre limiti alle libertà. Per il potere invece la logica è opposta: il potere va limitato, non deve essere oligarchico, non deve essere assoluto.

Cosa trasforma la libertà in potere? Il fatto che storicamente una certa libertà, come quella della quale stiamo parlando, ad un certo momento viene esercitata da imprese e non più soltanto da singoli soggetti. Le imprese,queste strutture complesse e di grandi dimensioni spesso e sempre di più sovranazionali, hanno fatturati di centinaia di migliaia di miliardi: l’esercizio di questa libertà da parte di soggetti così forti è l’elemento che trasforma la libertà in potere, e che fa sì che i limiti non debbano essere pochi o eccezionali, ma debbano essere tanti, rispetto a cui che il potere va limitato. L’impresa di grandi dimensioni che esercita la libertà, esercita di fatto un potere, e come tale va limitata.

Cosa succede, in questo rapporto tra libertà e potere, dei consumatori? Sono soggetti che hanno questa libertà ma che di fatto non esercitano: certo, esercitano la libertà di parlare, magari di televisione, con l’amico, in famiglia, di tenere una conversazione con un gruppo di persone, ma non esercitano quella libertà di cui parla l’articolo 21, il contribuire a formare le opinioni, e che si collega con l’articolo sui partiti. Eppure, esiste tra le righe e lo ha richiamato la Corte costituzionale, un diritto del cittadino all’informazione: questo è il lato fondamentale che apre e imposta il discorso sulla televisione di oggi e del futuro. Il diritto del cittadino non tanto ad essere parte attiva in un processo informativo che gestiscono le grandi imprese, ma il diritto di parlare in prima persona, di pretendere che l’informazione rispetti certi obblighi.

Ci sono infine due osservazioni sugli strumenti per capire il futuro verso il quale andiamo incontro. Fino a che la televisione è qualcosa che si fa con mezzi di queste dimensioni di potere, la televisione sarà monarca assoluto; e le prospettive che noi abbiamo di fronte ci fanno apparire una monarchia ancora più forte. Quando si parla di questi grandi gruppi del settore che operano nella televisione e nella telecomunicazione, si parla di gruppi che hanno dimensioni di fatturato dell’ordine non di centinaia di miliardi, ma di ventimila miliardi; naturalmente più si allarga lo scenario più entrano in gioco soggetti di questo tipo. Di fronte a questa impostazione il dibattito sul duopolio interno, RAI-Mediaset, è provinciale ed anacronistico; se entrano in campo colossi di questa portata è molto difficile pensare che ci sia spazio per la dimensione di libertà.

L’altro strumento sono le norme a tutela del pluralismo, della concorrenza vera, fatta tra più soggetti: la liberalizzazione se porta al dominio di alcuni grandissimi è una parola pericolosa. Perché la liberalizzazione sia tale, bisogna che si possano sviluppare numerose e varie iniziative, bisogna fare in modo che quei cittadini che non esercitano il lato attivo della libertà possano avere almeno la libertà di scegliere. È molto importante che questo processo verso la televisione del futuro sia fatto da molte televisioni, da molti giornali: bisogna che non ci sia solo l’apparenza dei molti ma che ci sia la sostanza dei molti e bisogna quindi che ci siano degli equilibratori del sistema. Il primo grande equilibratore sono le regole antitrust, antimonopolio, anticoncentrazione, che devono essere applicate; il secondo è che ci siano soggetti come i grandi servizi pubblici che devono essere imprese e che devono essere concorrenti, devono avere capacità competitiva, ma devono anche avere dei valori di fondo, sostenuti da un contratto, magari da un canone. Perché ci siano dei valori che siano realizzati, ci deve essere un contratto di servizio che ha questa funzione, altrimenti i valori sono solo opinabili.

Lerner: Chi può fare questa televisione dei senza potere, chi può rappresentare i senza potere? Credo che dobbiamo anzitutto assumere, come premessa, che la televisione dei senza potere non è la televisione senza soldi, non è la televisione della generosità dei giornalisti, dei registi, dei cantanti, dei conduttori dai piedi scalzi. Il punto di equilibrio per affrontare questo problema è proprio la domanda che anche Zaccaria ha posto: la televisione è più libertà o più potere? Ho trovato la risposta su una pubblicità della ABC, grande network privato degli Stati Uniti: "Prima della televisione ci sono state due guerre mondiali, dopo la televisione nessuna. Firmato ABC". L’ho trovato molto bello, anche se è sicuramente molto discutibile, perché sappiamo quante guerre, benché non abbiano la dimensione del conflitto mondiale, siano in corso e siano raccontate dalla televisione. In ogni caso è vero, anche dal punto di vista della questione fondamentale ed elementare della pace e della guerra, della vita e della morte, che il sopraggiungere dell’era della televisione, con tutti i suoi handicap e le sue controindicazioni, abbia costituito un grande vantaggio. Il fatto che la maggior parte dei conflitti del nostro pianeta siano in qualche modo coperti dall’informazione, in particolare dalla informazione per immagini, è un punto a favore della televisione ed è un punto che trattiene l’esplodere ulteriore e più generale dei conflitti.

Anche chi fra noi proviene da esperienze militanti e con forte valenza ideale, non considererebbe neppure concepibile fare il proprio mestiere senza averne ben chiara una utilità sociale tramite la quale rivolgersi ad un pubblico per trasformare la realtà. Per questo sono fiero che le mie trasmissioni rastrellino contratti di pubblicità e rendano profitto, possibilmente sconfiggendo trasmissioni di livello culturale inferiore. Anche chi, come me, proviene dal giornalismo povero, sa che oggi dobbiamo misurarci con la necessità che la televisione che rappresenta, e che anche per i senza potere deve reggersi sul mercato e quindi essere concorrenziale con le altre.

Il problema è come possa diventare anche conveniente rappresentare i senza potere: deve essere un business, e non dobbiamo scandalizzarcene. Nella particolare novità che Carlotti ha descritto, di frammentazione delle nostre società, dove è molto difficile individuare chi sono quelli che hanno potere e quelli che non ce l’hanno, chi sono i rappresentati e chi sono i sotto rappresentati, la divisione elementare poveri-ricchi esiste ma non basta più per ragionare e per rappresentare una società che la televisione stessa ha contribuito su scala planetaria a uniformare e omogenizzare in maniera quasi brutale. Un sociologo statunitense ha descritto, studiando in vitro il caso McDonald’s, il grande fast food, la "macdonaldizzazione" del pianeta, la tendenziale uniformazione di prodotti, di consumi, di mentalità, di oggetti, che sembra terribilmente renderci tutti uguali, tutti analoghi, tutti assimilabili. Contemporaneamente sappiamo bene che questa macdonaldizzazione, che riguarda anche la sfera religiosa, fa esplodere al proprio interno differenze e ricerche: ricerche di senso, di appartenenza, delle proprie origini, delle proprie identità. Anche quando ragioniamo semplicemente come tecnici dei mass media, dobbiamo fare i conti con mille minoranze; è molto difficile pensare di acchiappare tutti. Ci sono le mille identità che vogliono essere rappresentate, che pretendono giustamente di irrompere all’interno della televisione. Quando dunque parliamo dei senza potere, dobbiamo allargarne la cognizione, al di là della povertà o dell’handicap, quindi delle diverse forme di povertà materiale, fisica o spirituale, perché senza potere e sottorapresentate, sono, dentro al nostro sistema dei mass media, tante altre realtà. Pensiamo ad esempio all’importanza cruciale che si attribuisce nei nostri telegiornali alle trattative triangolari governo-confindustria-sindacati: ma se ci andiamo a domandare statisticamente quanti cittadini italiani sono materialmente coinvolti nell’applicazione di quegli accordi, ci rendiamo conto che c’è una enorme maggioranza che ne è tagliata fuori, perché lavora nel sommerso o in nuove forme di rapporto lavorativo non più di tipo tradizionale.

La televisione dei senza potere si può quindi fare, ma con i soldi. Credo che la si possa fare solo se c’è davvero concorrenza nel sistema televisivo. Lo stesso vale anche per la carta stampata. Ci sarà la corsa, in entrambi i settori, a cercare di conquistare questi nuovi pubblici e di saperli rappresentare. Altrimenti finché in Italia sopravviverà la condizione di duopolio che attualmente soffriamo, Rai-Mediaset, la concorrenza sarà fatta all’inverso, sarà una concorrenza ad assomigliarsi sempre di più.