EDUCARE PER COSTRUIRE. CICLO DI INCONTRI PROMOSSO DALLA COMPAGNIA DELLE OPERE

La situazione debitoria dei Paesi poveri e il futuro dell’ONU

Venerdì 27, ore 11.30

Relatori:

Paolo Fulci,
Ambasciatore, Rappresentante Permanente d’Italia presso le Nazioni Unite

S. Ecc. Mons. Achille Nicora,
Pontificio Consiglio per l’Interpretazione dei Testi Legislativi

Fulci: Secondo il fondo per la popolazione delle Nazioni Unite, il 12 ottobre 1999 la popolazione del mondo raggiungerà la soglia di sei miliardi di persone: poco più di un miliardo nell’emisfero settentrionale, cinque miliardi nei paesi in via di sviluppo. Da qui a cinquant’anni la popolazione del Nord del mondo resterà uguale mentre quella del Sud dovrebbe quasi raddoppiare. Un altro dato: un miliardo e trecentomila persone vivono attualmente in condizioni che possiamo definire di povertà abbiente, vale dire devono mantenersi con un reddito inferiore a un dollaro al giorno; quasi tutti abitano al Sud del mondo. I quindici individui più ricchi al mondo possiedono beni il cui valore supera il prodotto interno annuo lordo dell’intera Africa al Sud del Sahara.

La domanda che sorge a questo punto è: fino a quando e quanto potrà allargarsi la forbice tra ricchezza più sfrenata e povertà più abbiente? Alla fine l’agio e l’opulenza dei pochi rischiano di essere travolti dal furore di dieci miliardi di gente infinitamente povera e reietta.

La situazione ricorda l’epoca della caduta dell’Impero romano. Tra i fattori principali di questo declino vi fu il fatto che un certo punto le masse misere ai confini dell’Impero cominciarono a spostarsi verso la capitale Roma, centro dell’opulenza. All’inizio furono assorbiti, alla fine finirono col soverchiare tutto e fu l’inizio della barbarie del Medioevo. La storia ha corsi e ricorsi, non dovremmo dimenticarlo. In questo senso la lotta alla povertà non è soltanto un imperativo morale, non dobbiamo solo seguire gli insegnamenti della Chiesa quando ci dice che bisogna aiutare i derelitti, ma è nostro interesse che i nostri figli non vengano travolti dalla marea della miseria.

Il segretario delle Nazioni Unite Kofi Hannan, nel suo intervento introduttivo al segmento ad alto livello delle Nazioni Unite che ho avuto il privilegio di presiedere per conto dell’Italia, lo scorso giugno ha detto con grande semplicità che la battaglia alla povertà si può e si deve fare e occorrono delle risorse. Ha anche quantificato queste risorse, ha parlato della necessità di disporre di 40 miliardi di dollari in più all’anno per poter cominciare a debellare seriamente la povertà; questa cifra, per dare un’idea, corrisponde all’ammontare della spesa che l’intera Europa spende soltanto per fumare, è 1/10 dei profitti dei traffici illeciti di stupefacenti, è inferiore a quello che i paesi di sviluppo spendono attualmente per le loro guerre, per le loro spese militari: ordini di grandezza che fanno pensare e fanno forse sperare.

La povertà è caratterizzata non solo da penuria di redditi e di consumi, ma soprattutto da insufficiente alimentazione, da salute precaria, da mancanza di istruzione, da vulnerabilità economica e da marginalizzazione sociale. L’aspetto più drammatico della povertà sta proprio nella concatenazione di questi fattori che determinano un circolo vizioso alimentandosi a vicenda. È impossibile uscirne facendo leva solo su risposte isolate e settoriali, è necessario quindi incrementare iniziative concrete coordinate, per aggredire alla base la spirale involutiva, ed invertire la tendenza. Il filo conduttore di queste iniziative viene sempre più individuato nella valorizzazione della capacità potenziale dei poveri, perché essi stessi siano i promotori e i veicoli di processi di auto emancipazione: la carità non aiuta, al contrario spesso è fonte di ulteriori pigrizia. Dobbiamo insegnare ai poveri a pescare il salmone, non basta dargli il salmone!

Devo dire che c’è un preciso collegamento di fondo tra lotta alla povertà, sviluppo e diritto umano, perché la povertà infligge ferite mortali alla nozione stessa di dignità umana, rappresenta la più nefasta e più crudele lesione dei diritti dell’uomo: questo perché non è sporadica, ma dura l’intero arco di una vita. Questo è l’orientamento ormai di tutti i membri dell’ONU, ricchi e poveri, del Nord e del Sud, dell’Est e dell’Ovest: basta con le diagnosi, abbiamo capito qual è la malattia, ora bisogna curarla. L’anno prossimo l’ONU terrà un’assemblea, definita l’assemblea del millennio, che si concluderà con l’incontro di capi di Stato e di governo dei 185 paesi membri; mi sto battendo, e con me tanti altri colleghi, affinché l’assemblea del millennio sia dedicata proprio alla lotta contro la povertà. L’importante è che si passi dalle parole ai fatti.

A Ginevra, recentemente, anziché fare il discorso di apertura di un’assemblea, mi sono ricordato dell’antico proverbio cinese che dice: "Spesso un’immagine dice più di diecimila parole". Così ho fatto proiettare un documentario prodotto dall’ONU in cui venivano rappresentate da un lato l’immagine di coloro che letteralmente morivano da fame, da edema da fame, e dall’altro lato la distruzione delle eccedenze agricole e soprattutto immagini dei ristoranti di Tokyo, Parigi, New York, Roma dove spesso i resti vengono gettati nella spazzatura. Sei minuti hanno avuto un effetto fulminante su tutti coloro che l’hanno visto, l’intero vertice delle Nazioni Unite, i ministri di 54 paesi, gli ambasciatori degli altri 130 paesi delle Nazioni Unite. In quell’occasione ho solo aggiunto che la povertà rimane la principale causa di morte, con il 40% dei decessi dovuto a malattie contagiose; spesso, in alcuni paesi africani, a causa dell’AIDS, la durata media della vita è ormai scesa a meno di quarant’anni.

Devo precisare che quello che ho raccontato è stato frutto di anni di lavoro con non pochi ostacoli. Quando nel 1993 pensai che era opportuno che l’Italia si presentasse al Consiglio di Sicurezza, perché è lì che un paese conta, da Roma mi risposero che la corruzione degli anni di Tangentopoli aveva fatto sì che gli aiuti ai paesi si interrompessero e che fosse impossibile ottenere credibilità in questo ambito. Nonostante questo, testardo come sono, mi sono assicurato uno per uno i voti dei rappresentanti dell’ONU e alla fine l’Italia riuscì a raccogliere, in un’elezione, più voti della Germania, e ad ottenere uno spazio all’ONU.

Questo mi incoraggiò per indirizzare la mia iniziativa verso azioni concrete come quelle contenute nella dichiarazione del Presidente di Ginevra; dieci punti concreti per sconfiggere la povertà. Tra questi la cancellazione del debito, il good governance, il giusto regime degli scambi internazionali, la produzione di cibo sufficiente, una maggiore cura delle risorse d’acqua.

Se un’economia deve decollare ci sono almeno due pilastri fondamentali: l’istruzione e la sanità. Le donne sono una risorsa, spesso sottovalutata per ragioni di discriminazione, che renderebbe possibile questo sviluppo. Il Ministro degli Affari Sociali dell’Egitto raccontava di aver concesso a tre donne, di un villaggio sperduto non lontano dal Cairo, l’ammontare rispettivamente di 700 dollari, 600 e 1000 dollari. Si trattava di donne poverissime alle quali non sarebbe stato permesso nemmeno di avvicinarsi ad una banca. A distanza di qualche tempo queste donne avevano già restituito la somma concessa in prestito: una aveva aperto un negozio di parrucchiere che consentiva ai poveri quella dignità che comunque gli appartiene; l’altra si era messa ad allevare un pesce strano egiziano e consentiva ai famigliari disoccupati di mantenersi ampiamente; l’ultima aveva aperto con successo una specie di Hamburger Stand. Quante volte i funzionari dell’ONU spendono decine di migliaia di dollari per fare visite ispettive che risultano solo in rapporti che nessuno legge; basterebbe darne una parte alle povere donne. Facendo questa politica, è ovvio, non sono diventato molto popolare con i funzionari dell’ONU.

Nicora: L’ottica con cui guardo al problema della povertà è quella che considera soprattutto una delle componenti del fenomeno: l’esistenza a carico di parecchi paesi del Sud del mondo di un forte onere debitorio verso i paesi del Nord del mondo, il cosiddetto debito estero. Vorrei considerare questo profilo in quattro rapidi passaggi: il fatto, il giudizio su di esso, le responsabilità dei cristiani e l’iniziativa che la CEI propone per concorrere a migliorare la situazione su questo fronte drammatico.

Per quanto riguarda il debito estero, attualmente, si calcola che i paesi del sud del mondo hanno circa duemila miliardi di dollari di debito nei confronti dei paesi ricchi. Da dove viene questo debito in misura così pesante e clamorosa? Viene fondamentalmente da due elementi che si sono realizzati negli anni Settanta. All’inizio degli anni Settanta la crisi petrolifera, quando anche in Italia per qualche domenica fummo invitati a camminare a piedi, fece sì che i paesi produttori di petrolio versassero una grande quantità di petrodollari, provocando così una caduta dei tassi di interesse. A questo punto le grandi banche d’affari internazionali offrirono ai paesi in via di sviluppo, bisognosi di risorse per gli investimenti, possibilità molto agevolate con un tasso del 5% circa; questi paesi ritennero di avere convenienza a indebitarsi approfittando del basso livello dei tassi di interesse e dell’alta inflazione che in quel momento caratterizzava l’economia mondiale. Alla fine del 1979, a seguito di una nuova crisi e a un nuovo rialzo dei prezzi, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna ritennero di rispondere attraverso drastiche politiche monetaristiche. L’inflazione venne battuta contenendo l’offerta di moneta e quindi alzando di molto i tassi di interesse; da un anno all’altro i paesi debitori videro passare i tassi annuali medi dal 5% a misure superiori al 30%; in più soprattutto gli Stati Uniti puntarono a un forte apprezzamento del dollaro. La valuta americana raddoppiò il suo valore rispetto alla sterlina e al marco e lo quadruplicò rispetto alla lira; lo moltiplicò ancor di più rispetto alle valute deboli dei paesi in via di sviluppo. A questo punto l’effetto sui paesi del Sud del mondo, che avevano acceso debiti, fu micidiale; da una parte l’innalzamento degli interessi, dall’altra il fatto che i debiti andavano pagati in dollari provocò una situazione praticamente insostenibile. Il primo segno clamoroso della crisi avvenne nel 1982 quando il Messico dichiarò pubblicamente la propria impossibilità di onorare gli impegni finanziari assunti verso i paesi terzi. Da quel momento scoppiò la crisi del debito estero a livello internazionale; la crisi iniziata allora proseguì negli anni, continua a tutt’oggi, nonostante gli sforzi dei paesi sviluppati di continuare ad aiutare i paesi debitori. Alcuni paesi africani dell’area sub-sahariana, per esempio, spendono per onorare il credito circa quattro volte di più di quanto riescono a spendere per la sanità e per l’istruzione all’interno delle proprie comunità civili.

Il giudizio sulla situazione quindi è un giudizio preoccupato che deve essere comunque molto attento e rigoroso. In realtà, se vale quanto già detto, è da ritenere che nella sostanza il debito sia già stato largamente onorato da questi paesi; se i tassi di interesse fossero stati quelli originali e se il valore del dollaro non avesse avuto il balzo avanti che ha avuto, probabilmente si potrebbe dimostrare che nella sostanza il debito è già stato assolto.

In ogni caso ritorna una domanda. È legittimo far valere il principio della doverosità della restituzione dei crediti ricevuti quando il prezzo di questa riduzione fosse la perdita radicale delle possibilità di rispetto elementare della dignità delle singole persone e della speranza di sviluppo di sviluppo di popoli interi? Da questo punto di vista l’opinione pubblica mondiale più avvertita, l’attenzione del magistero della Chiesa cattolica e la sensibilità di molte forze operanti nel mondo cristiano si sono fatte più precise e rigorose. Quanto meno è cresciuta la consapevolezza che non si può lasciare che il fenomeno prosegua secondo la sua onda naturale; diviene urgentissimo fare qualcosa perché intervenendo in maniera radicale il fenomeno venga ricondotto quanto meno a misure tollerabili.

Con compiacimento è necessario sottolineare che grazie anche all’insistente azione svolta dal Santo Padre, dalle Conferenze Episcopali, da molti organismi missionari e organizzazioni non governative e all’influsso che questi interventi hanno avuto sull’opinione pubblica e sulle istituzioni mondiali, va crescendo in questi ultimissimi anni una più attenta sensibilità in proposito.

Il governo italiano, per esempio, nell’aprile scorso, ha dichiarato la propria intenzione di procedere all’eliminazione di circa 2.300 miliardi di crediti che esso vanta verso paesi poveri. Nello scorso mese di giugno, alla riunione tenuta dai G7 a Colonia, è stata dichiarata l’intenzione di procedere a una sostanziale cancellazione del debito estero sotto la forma della cancellazione dei crediti d’aiuto ancora pendenti su 40 paesi tra i più poveri del mondo, quei paesi nei quali il reddito medio annuo pro capite non raggiunge i 300 dollari. Sono due segnali da raccogliere con compiacimento perché sono l’indice del fatto che quando si vuole, si può; il problema è far crescere un senso collettivo di responsabilità che sappia passare nei modi dovuti dall’istanza etica alle coerenti scelte politiche, economiche, finanziarie.

La responsabilità dei cristiani di fronte a questo fatto del debito estero, soprattutto nel quadro del Giubileo, segue l’indicazione del Papa che ha insistito sul fatto che questo appuntamento del Duemila non poteva ridursi a un evento puramente celebrativo, ma doveva tradursi in coerenza con la grande tradizione ebraico-cristiana in un complesso di atteggiamenti e di gesti che fossero sul piano soggettivo il segno di una autentica conversione di vita, sul piano oggettivo il tentativo di realizzare forme storicamente visibili di riscatto e di liberazione. Nel libro del Levitico il grande momento del Giubileo era stato ipotizzato idealisticamente proprio in questi termini: doveva essere il momento in cui ciascuno ritornava nella condizione originaria, veniva liberato dal peso opprimente dei debiti che non poteva pagare, oppure doveva essere liberato dalla condizione di schiavitù che spesso era già stata l’esito dei debiti non pagati. In questo modo si auspicava che ciascuno, ogni cinquant’anni, potesse ricominciare da capo, ripartendo di nuovo nel gioco libero della propria responsabilità e dei propri talenti, costruendo nella comunità un destino più umano, nel segno della libertà dei figli di Dio e della fraternità dell’unica famiglia da essi costituita.

È parso dunque opportuno alla Conferenza Episcopale Italiana proporre, alle Chiese che sono in Italia, di mettere al cuore della celebrazione giubilare un aspetto molto concreto: una campagna per la riduzione del debito estero dei paesi più poveri. Questa campagna vorrebbe incentrarsi su tre elementi fondamentali: diffondere l’informazione su questi problemi, proporre ai cristiani un ripensamento degli stili di vita, fare un gesto preciso mirato alla questione del debito in senso tecnico. La proposta dal punto di vista tecnico sarebbe la seguente: un comitato ecclesiale rappresentativo delle realtà più attente a queste questioni proporrà una raccolta straordinaria di fondi. Si spera di raccogliere almeno cento miliardi. Con questa somma si dovrà operare una cosiddetta conversione del debito: comprare dal governo italiano, se si creano le condizioni di legittimità formale e se c’è il consenso, una parte dei crediti che esso vanta verso uno o due paesi tra quelli maggiormente indebitati. Comprando questa quota di credito noi cancelleremmo il debito di uno o due paesi del Sud del mondo a cui faremo riferimento.

Però, ecco qui il dato peculiare, vorremmo farlo chiedendo un impegno formale regolarmente sottoscritto dalle autorità governative, un impegno perché l’equivalente del debito che viene cancellato venga tradotto in moneta locale e assegnato a un fondo per lo sviluppo di quel paese. Dovremo quindi evitare che ciò che il paese viene a risparmiare trovandosi cancellata una quota di debito venga speso male, senza innescare autentiche politiche di sviluppo. Con la supervisione della Conferenza Episcopale locale e delle espressioni delle organizzazioni non governative il governo dovrà impiegare le risorse per finalizzare tre scopi decisivi: la formazione, l’agricoltura e la sanità.

Intendo fare infine due considerazioni finali. In Italia soffriamo di provincialismo, la nostra stessa cultura istituzionale di base, la formazione che noi riceviamo nelle nostre scuole, ignora largamente la dimensione dello sviluppo delle organizzazioni mondiale ed il costruirsi lento e faticoso delle strutture, degli strumenti per un nuovo ordine mondiale. In Italia a far notizia sulla stampa continuano ad essere le nostre eterne beghe interne. La stessa partecipazione elevata alle elezioni europee continua a rappresentare una sorta di miracolo perché, da un lato esprime l’intuizione e la condivisione di un certo valore di tendenza, ma dall’altro è priva della consapevolezza di quale sia il significato degli organismi europei stessi.

Nell’ottica del magistero ecclesiale gli organismi internazionali sono da guardare con apprezzamento e con fiducia; basterebbe ricordare il grande discorso di Paolo VI nel 1965, durante la prima visita di un Papa all’ONU, e quello di Giovanni Paolo II negli anni Ottanta. A fatica questi organismi riescono ad avere forme di sovranazionalità, spesso è determinante il ruolo del paese di origine, eppure si tratta di un’esperienza di grande confronto tra culture e sensibilità diverse. Purtroppo pochi cattolici si impegnano seriamente per influire e partecipare direttamente alle attività di realtà come l’ONU, salvo poi lamentarsi di certe politiche antinatalistiche e abortiste.