Sabato 26 agosto

"AGRICOLTURA: UN BENE PER L'UOMO DEL TERZO MILLENNIO"

Partecipano:

Prof. Dario Casati,

Docente dell'Istituto di Economia Politica Agraria di Milano;

On. Filippo Maria Pandolfi,

Ministro dell'Agricoltura;

On. Arcangelo Lobianco,

Presidente Nazionale della "Confederazione dei Coltivatori Diretti";

Carlo Lingua, Delegato Nazionale del Movimento Giovanile "Coltivatori Diretti".

Moderatore:

Dott. Alberto Piatti.

A. Piatti:

La vostra presenza premia le speranze mie personali e degli amici della cooperativa agricola che in collaborazione con il Meeting di Rimini hanno voluto inserire, nell'ambito della tematica svolta quest'anno, un incontro che ha per tema specifico l'agricoltura. L’agricoltura è forse l'espressione più sintetica e immediata del lavoro umano che ha un nesso diretto con il proprio destino, è soggetto della propria produttività. A questo dibattito interverranno: il ministro Pandolfi, titolare del dicastero dell'agricoltura; l'onorevole Lobianco, presidente nazionale della "Confederazione dei Coltivatori Diretti" che è l'organizzazione professionale che raggruppa la stragrande maggioranza dei coltivatori diretti italiani; il professore Dario Casati, docente dell'istituto di economia politica agraria di Milano, e l'amico Carlo Lingua, delegato nazionale del movimento giovanile della "Coltivatori Diretti". Quando pensammo alla possibilità di intervenire su un tema specifico, come quello sull'agricoltura, al Meeting di Rimini, la prima osservazione fu che l'eterogeneità del pubblico del Meeting, in cui l'estrazione rurale è sicuramente una minoranza, richiedeva una modalità di intervento adeguata; quindi vorremmo parlare di agricoltura non addentrandoci nelle tematiche specifiche, ma vogliamo parlare di agricoltura in termini propositivi descrivendo cosa è l'agricoltura in Italia nel 1983. Vorremmo che tutti conoscessero, anche i cittadini, che cosa è l'agricoltura in Italia oggi, e che valori economici, politici, sociali, culturale e umani essa può proporre all'uomo del terzo millennio. È una proposta, quindi, a chi di agricoltura sa poco o conosce l'agricoltura solo in funzione di ciò che mangia quando si siede a tavola. La modalità con cui vogliamo dialogare oggi sarà questa: il prof. Casati ci accompagnerà nel mondo della realtà agricola italiana con un excursus storico degli ultimi decenni, dopo di che io mi permetterò di interloquire, con gli amici presenti a questo tavolo, facendo emergere una serie di domande raccolte nella realtà agricola italiana che noi come cooperativa ci troviamo ad affrontare.

D. Casati:

Se noi oggi vogliamo cogliere il senso profondo di ciò che avviene nel settore agricolo, ci troviamo di fronte ad un compito che è nello stesso tempo estremamente impegnativo ma anche affascinante. La nostra, oggi, è una società complessa, articolata, non è più una società rurale. L'Italia è un paese che di recente ha raggiunto un elevato livello di industrializzazione partendo da quello che era, un paese agricolo. Allora questo cambiamento, che è avvenuto prevalentemente nel corso di questi ultimi decenni, è un cambiamento che ha lasciato riflessi di grande rilievo sull'attività agricola, riflessi che spaziano dal campo economico a quello sociale. Che cosa è oggi agricoltura? Forse deluderò anche qualcuno di voi, ma l'agricoltura oggi non è quell'ecologismo da strapazzo, non è un sociologismo facile, non è semplicemente il sognare di vivere nel verde o il ripescare pratiche culturali che fanno impressione. Che cosa è invece in positivo l'attività agricola? L'attività agricola è un'attività dura, faticosa, concreta, che giorno dopo giorno, ora dopo ora in una lunga giornata lavorativa, comporta l'attenzione e l'applicazione di capacità tecniche via via crescenti. Noi oggi dobbiamo pensare all'attività agricola come ad un'attività in cui la tecnologia, cioè l’apporto delle scienze applicate alla produzione dei beni agricoli, ha un rilievo molto importante. Però al centro di questa attività che è venuta modificandosi profondamente nel tempo, sta sempre l'uomo. Al di là dei fenomeni più appariscenti la nostra agricoltura, a partire dalla seconda guerra mondiale è stata sottoposta ad un processo di ammodernamento senza precedenti. Il volto dell'agricoltura si è modificato profondamente: da un lato lo sviluppo economico complessivo del paese ha interessato e influenzato nel bene e nel male la dinamica agricola; dall'altro tendenze spontanee già presenti si sono venute affermando e consolidando. Credo che sia necessario fare un piccolo confronto con la situazione di questi ultimi trenta, quaranta anni, per capire il senso dell'agricoltura di oggi, per cogliere il peso e il ruolo dell'uomo nell'agricoltura di oggi. L'aspetto più appariscente del cambiamento che è avvenuto è quello dell'enorme sviluppo dei consumi alimentari. Ad esempio un italiano che nel '50 mangiava 6 Kg di carne bovina oggi ne mangia 25 Kg. In più gli italiani sono aumentati di 10 milioni di persone: 10 milioni in più che mangiano molto di più di quello che mangiavano 30 anni fa. L'agricoltura come ha reagito? Con uno sforzo produttivo incredibile; la produzione di grano per ettaro, alla fine della guerra negli anni '50, media nazionale era 17 q. ad ettaro, oggi siamo a 35-38 q. di media. Il grano duro da 10 in media un po' di più di 20 q.; il mais da 18 a 70-80 q. per ettaro; il pomodoro da 150 a 380-400 q. per ettaro; il latte da 2.000-2.200 litri di media nazionale ad oltre 3.000 litri, ma con medie che vanno nella padana sul 5.000-6.000 litri. Facendo un po' i conti e trasformando tutto in valori, naturalmente opportunamente deflazionati, la produzione lorda vendibile dell'agricoltura in lire è passata da 2.300 miliardi del '50 a 7.300 dell'80, cioè si è più che triplicata; quindi si è fatto uno sforzo produttivo enorme. Come è stato realizzato questo enorme cambiamento produttivo? Innanzitutto con un maggior impiego di mezzi tecnici, cioè di concimi, di antiparassitari e naturalmente di macchine. Anche qui vi darò qualche cifra: le trattrici nel '51 erano 81.000 in Italia, nel '82 erano 1.150.000, cioè si sono moltiplicate per 15 volte; i cavalli del parco macchine agricole, contando non solo quelle delle trattrici ma quelle di tutte le altre macchine, sono passati da 2,7 milioni a 80 milioni, cioè si sono moltiplicate per 40 volte circa. E direi che questo è un primo dato estremamente significativo dello sforzo che l'agricoltura italiana ha compiuto per rispondere alle esigenze del consumatore. Altro dato: le modifiche intervenute nelle strutture agrarie, cioè nel numero delle aziende agricole e nella loro dimensione. Le aziende agricole nel '61 erano 4.200.000, sono scese nel '70 a 3.600.000 e sarebbero, secondo i primi dati del censimento dell'82 3.200.000; però questo dato inganna perché comprende anche piccoli appezzamenti, piccole aziende che, come vedremo, non sono vere e proprie aziende agricole, ma che entrano a fare numero. La dimensione media di queste aziende è cresciuta, ed è oggi mediamente in Italia sui 7 ettari, quando nei paesi della comunità europea, che sono il nostro costante riferimento, va invece su valori molto più elevati, attorno ai 15 ettari 20, 25 fino ai 60 dell'Inghilterra. C'è stato un grande apporto della tecnologia: le sementi, la genetica, l'uso di nuovi prodotti agricoli. Ma poi c'è stato al centro di tutto, l'uomo. Abbiamo letto dappertutto che c'è stato, in questi 30-40 anni, questo grande e imponente e, per certi aspetti anche drammatico, fenomeno dell'esodo agricolo. Se vi dico la cifra, probabilmente vi impressionate: all'inizio degli anni '50 lavoravano in agricoltura 8.600.000 persone, oggi siamo a 2.500.000, quindi il numero dei lavoratori agricoli si è ridotto a meno di un terzo di quelli che era 30 anni fa. Il risultato di questo fatto è che la produttività, cioè la quantità di prodotti che ognuno di questi lavoratori agricoli produce, è aumentata in maniera sbalorditiva. Se poniamo uguale a 100 il quantitativo prodotto all'inizio degli anni 50, vediamo che per i cereali ogni coltivatore produce oggi 5 volte tanto; per i prodotti ortofrutticoli ha moltiplicato per 10 la sua produttività; per la carne, ma naturalmente c'è stata molta più spinta su questo settore, ha moltiplicato per 14 la sua produttività. Vediamo che il peso di questa trasformazione è andato a concentrarsi sull'uomo, sull'agricoltura. Ecco il problema centrale che è il problema umano, che è il problema del Meeting. La figura principale dell'agricoltura italiana oggi è questo imprenditore lavoratore, in parte fornitore dei capitali necessari che sono capitali crescenti proprio perché l'impiego dei mezzi tecnici è un impiego continuamente crescente. Accanto a questa sono rimasto figure come quella del proprietario imprenditore che però non lavora direttamente; oppure si sono aggiunte figure nuove come il lavoratore a tempo parziale; e si sono create forme associative nuove, diverse dalla cooperazione. Al centro di questo cambiamento della vita delle campagne sta un dato: cambia la famiglia agricola. Noi abbiamo negli occhi e anche nel cuore la famiglia agricola patriarcale dove c'era l'esperienza del vecchio, dell'anziano; c'era l'apporto di lavoro dei giovani, dei giovanissimi; c’era un nucleo produttivo e nelle stesso tempo di affetti e di rapporti familiari. Oggi questo tipo di famiglia cambia anche nell'agricoltura. Anche in essa si afferma la famiglia di poche persone; i giovani tendono ad andarsene per conto proprio, magari in certi casi vanno a formare un'azienda agricola, ma in proprio. Sono famiglie piccole. Abbiamo così tutta una serie di riflessi, anche sulla trasmissione delle conoscenze: non c’è più l'anziano che trasmette le conoscenze e che ti dice: "oggi devi arare, guarda devi sbrigarti a raccogliere, perché il tempo cambia, perché è il momento giusto". Cade questo aspetto o cade la forza lavoro della famiglia. Oggi la famiglia agricola è piccola ed ha bisogno di un ricorso sempre crescente alle macchine, a servizi esterni, al lavoro prestato in conto terzi. Credo che il nucleo centrale sia proprio questo: il cambiamento della famiglia. In questa famiglia, un tempo esclusivamente agricola, si inseriscono le persone e i redditi che prevengono da altri settori. Quindi l'agricoltura si trova economicamente più integrata nel resto dell'economia. Ma si viene a creare nella campagna, con questa riduzione della dimensione familiare, quello che lo chiamerei la nuova solitudine del produttore agricolo. Mi riferisco a quel tipo di scambio di lavoro e di aiuto che va sotto il nome di servizi sostitutivi: parlo di agricoltura di gruppo, di scambio di lavoro di meccanizzazione in comune, cioè di tutta una serie di attività, di maniere di essere e di lavorare in agricoltura che recuperano antichi valori e che consentono un adeguamento delle attività alle necessità del mondo d'oggi. Altro adeguamento è reso necessario dai rapporti con altri settori. Oggi l'agricoltura è fortemente interessata al rapporto da una parte con l’industria che le fornisce i mezzi di produzione e dall'altra parte grande commercio che compera i prodotti che vengono dalla terra. Anche qui c'è un cambiamento. Oggi non possiamo più pensare all'azienda che produce in sé tutto quello che è necessario, che si produce i mezzi di produzione che consuma; oggi non possiamo non pensare ad un'azienda che è fortemente connessa col mercato, sia dei mezzi di produzione che dei prodotti agricoli. A questo punto ci possiamo chiedere se sia necessaria a questo punto una politica agraria cioè una politica apposta per l'agricoltura. Che cosa ci dobbiamo aspettare per il futuro? Per il futuro noi abbiamo di fronte un paese che ha dei problemi, che sono ormai non soltanto di congiuntura, ma economica in cui il nostro paese si trova coinvolto. L'aggravarsi e il persistere della crisi, con tutto il problema che l'inflazione per esempio comporta per l'agricoltura di penalizzazione per la produzione agricola, distoglierà probabilmente risorse e attenzioni dal settore agricolo. D'altra parte ci possiamo legittimamente attendere che il peso dell'agricoltura, nel contesto dell'economia nazionale, tenda gradualmente a decrescere come accade in tutti i paesi industrializzati dell'occidente? Se questo è il quadro generale, che cosa possiamo pensare per lo sviluppo futuro della nostra agricoltura? Io credo che possiamo pensare innanzitutto che non si potrà più contare su aiuti e provvidenze per questo settore, soprattutto se pensate a come l'opinione pubblica, il contribuente, e non soltanto il contribuente italiano ma quello europeo, comincia a vedere di cattivo occhio il sostegno accordato a questo settore. Il contribuente dice: "In fondo a noi che cosa importa sostenere, vuoi con le tasse, vuoi con prezzi agricoli elevati, il settore agricolo? Comperiamo sui mercati mondiali; si compera a minor prezzo, si spende di meno e si ferma l'inflazione. Questa è una visione tragicamente miope, perché se la sola Italia, non dico tutta l'Europa, si approvvigionasse sui mercati mondiali, i prezzi dei mercati mondiali andrebbero alle stelle. Sarebbe impensabile. Il mercato mondiale dei prodotti agricoli è fatto da porzioni residue. Però nell'opinione pubblica, attraverso l'azione dei giornali, della televisione, questa idea si è andata affermando negli ultimi anni; inoltre le risorse servono per sostenere l'industria che vacilla, l'economia globale che sta male. Ma l'agricoltura, se anche si vedrà ridurre quell'occhio di favore che in certe situazioni, e giustificatamente, ha avuto, deve lo stesso continuare ad adempiere alle sue funzioni che sono funzioni elementari come la produzione degli alimenti, la tutela dell'ambiente. Parlavo prima di sociologismo ed ecologismo, ma la tutela vera dell'ambiente lo fa l'agricoltura, lo fanno gli agricoltori nel momento in cui continuano a coltivare il terreno.

A. Piatti:

Ringrazio il prof. Casati che ci ha dato un quadro sintetico illustrante la situazione agricola italiana. Gli spunti che il prof. Casati ci ha dato sono innumerevoli, ed è molto difficile scindere il momento propositivo dal momento rivendicativo, perché ad ogni buon conto la nostra agricoltura per poter continuare a produrre, deve vivere. La prima domanda che mi permetto di rivolgere al ministro è questa: abbiamo sentito parlare di agricoltura, di congiuntura economica. Nel contesto economico sociale italiano, che ruolo svolge e che potenzialità bisogna sviluppare per l'agricoltura anche alla luce delle sue precedenti esperienze governative?

F.M. Pandolfi:

Io sono rimasto molto preso dall'introduzione del prof. Casati; tanto più preso in quanto, essendo stato trapiantato dall'albero dell'industria a quello dell'agricoltura, ho bisogno di tenere la mente sveglia, gli occhi aperti e le orecchie attente. Per la verità questo quadro così sintetico ma incisivo e acuto, che ho avuto la fortuna come voi di ascoltare, mi ha fatto riflettere e mi consente di avere qualche spunto per rispondere alla tua domanda. Quale ruolo ha l'agricoltura? Primo punto: l'agricoltura non è attività residuale. È vero è diminuita: gli addetti all'agricoltura sono due milioni e mezzo e se li confrontiamo con gli 8.600.000 del '50 sono soltanto l'11,8% degli occupati, non sono più il 40 e forse anche 50% di 5 o 6 decenni fa nel nostro paese. Vuol dire forse che queste percentuali più ridotte confinano l'agricoltura ad un ruolo marginale e residuale? No. Per almeno 3 ragioni fondamentali: 1) l'agricoltura è profondamente saldata a tutti gli altri settori produttivi, molto più oggi di quanto non sia mai stato nel passato. Se nel passato si poteva pensare ad un'agricoltura come ad un mondo chiuso, a sé, autosufficiente, con pochi scambi con gli altri settori, oggi l'integrazione è fortissima in quanto la produzione richiede consumo di beni, e ha bisogno di trasformazioni industriali e poi di commercializzazione. Oggi sono forti i legami anche con il settore terziario e io penso che il titolo di questo nostro convegno, dentro a questo splendido Meeting di Rimini, deve farci riflettere. Qui siamo alle prese con un tema generale: "Uomini scimmie robot", ma siamo alle prese con "Agricoltura": un bene per l'uomo del terzo millennio. Vorrei farvi una domanda. Quante volte ricorre la parola in questo secondo titolo? Apparentemente ricorre una volta sola, in realtà ricorre due volte perché agricoltura non vuol dire natura, vuol dire uomo che lavora con la natura, si allea con la natura, adopera, ecco la parola robot la tecnica per trasformarla. Vi stavo dicendo della integrazione fondamentale che c'è tra il settore primario e gli altri; ebbene mi pare che il clima, il tema generale di questo nostro Meeting ci aiuti a capire come la tecnica è uno strumento, un attrezzo nelle mani di chi lavora nelle industrie, ma anche di chi lavora nell'agricoltura; è nelle mani di chi lavora nel terziario, nell'informatica, nella telematica, ma anche di chi sta nell'agricoltura. 2) C'è ancora una seconda ragione, ed è che l'esito dello sforzo del mondo agricolo influenza direttamente alcune grandezze macroeconomiche da cui dipende la fortuna economica del paese; ne cito una: la bilancia dei pagamenti. Siamo un paese deficitario. Tutti sanno che dopo deficit petrolifero, diciamo 25 mila miliardi all'anno di spese all'estero non compensate da altrettante vendite all'estero nel settore, viene il deficit agroalimentare. È immaginabile che un paese possa rischiare di compromettere il suo equilibrio dei conti con l'estero non soltanto per un'assenza di politica energetica, ma anche per un’assenza di politica agraria? Non è pensabile. Quindi anche su questa seconda frontiera il ruolo dell'agricoltura diventa un ruolo fondamentale. Ma per noi c'è un problema vitale, ed è l'equilibrio dei nostri conti con l'estero e l’agricoltura è al secondo posto su questa frontiera che dobbiamo presidiare se non vogliamo che i nostri conti saltino. 3) C'è poi una terza ragione: la crisi economica ha reso ancora più importante l'agricoltura; l'ha resa anche più sofferente, perché l'inflazione penalizza l'agricoltura più che ogni altro settore produttivo. Un'agricoltura più forte può dare la possibilità a questo paese di risolvere alcuni dei suoi problemi, resi oggi più acuti dalla crisi. Prendiamo il problema dell'occupazione. Vorrei dire qualche idea al di fuori del settore più propriamente agricolo, in senso stretto, e parlare anche di qualche progetto che si può sviluppare in Italia per l'occupazione giovanile, in un campo dove molte promesse o velleità sono state coltivate, ma poche cose sono state fatte. Mi riferisco al settore delle foreste, alla riforestazione dove i paesi civili hanno saputo inventare delle missioni di carattere nazionale, una specie di servizio civile per tutelare poi un bene, un capitale che, come è stato detto, tocca poi al mondo agricolo presidiare per tutti. Perché io mi sono parafrasato il titolo della nostra tavola rotonda in questo modo: c'è l'uomo che produce e l'agricoltura non produce soltanto cibo, ma difende l'ambiente di cui abbiamo estremamente bisogno come fruizione collettiva per un mondo civile, per un mondo umano.

A. Piatti:

Ringraziamo l'on. Pandolfi, passiamo ora ad un altro aspetto della vicenda on. Lobianco, lei presiede la più grossa organizzazione professionale in agricoltura. Quali sono i valori umani e socio-culturali che l'agricoltura italiana, la sua organizzazione propone all'uomo della società post-industriale, apparentemente sempre più staccato dal processo produttivo?

A. Lobianco:

L'idea di questa tavola rotonda è venuta al seguito del fatto che alcuni amici del movimento hanno assistito ad un nostro convegno nel novembre scorso che aveva per titolo: "Agricoltura e mondo rurale negli anni '80 per un progetto di società"; e fu veramente qualcosa che meravigliò gli amici del movimento. Un tema, che poteva apparire economico, invece era posto come base di un progetto di società in cui noi del mondo agricolo, di cui siamo una parte preminente, intendiamo essere presenti non come destinatari, ma come protagonisti della vicenda. Questo incontro a seguito di quell'esperienza, è venuto proprio per poter avere noi stessi la possibilità di parlare, di spiegarci, di essere a contatto con chi rappresenta l'insieme di questa società dalla quale noi vogliamo contribuire a modificare alcune sue componenti. Questo è un mondo che non si è chiuso in se stesso, né è un mondo che si aspetta molto dagli altri. Quando parlo di mondo è un insieme di componenti socio-economiche che, per la verità, nel passato è stato isolato. A me è piaciuta la frase del prof. Casati della "nuova solitudine"; perché noi corriamo veramente il rischio che nel momento del passaggio dalla società industriale a quella post-industriale noi temiamo, non in termini egoistici ma proprio in termini di solidarietà, che gli stessi problemi, che hanno assillato il mondo agricolo in termini sociali, economici e politici, possono assillare anche quella società industriale che è passata sulla nostra testa in questi anni. Cioè noi temiamo i problemi irrisolti del rapporto di interdipendenza e quelli non risolti anche della famiglia, che non più quella agricola, ma è quella rurale inserita nel contesto sociale generale non soltanto del nostro paese. Posso dire qualcosa anche per i nostri amici che hanno fruito dagli anni '50 in poi del cattivo uso che si è fatto del mondo agricolo in termini sociali, in termini economici. Noi ci chiediamo come la tecnologia possa far trovare nelle stesse condizioni anche i lavoratori, gli operai delle industrie che hanno fruito della possibilità residuale, che hanno posto in angolo i settori agricoli e i suoi addetti in questi anni. Mi spiego subito è vero, come hanno detto Casati e Pandolfi, che siamo diminuiti in termini di numero, di addetti, però subito hanno aggiunto che in termini di apporto economico ed intersettoriale non è diminuito il contributo del settore agricolo, così come è diminuito, invece, l'apporto in termini di valori del mondo agricolo alla società che oggi stiamo vivendo. Quando oggi si parla di crisi dello stato del benessere, ci si dice che, in effetti, questa crisi è proprio per l'instabilità di questa società, perché essa si è sviluppata in termini di disuguaglianza, in termini residuali per il settore agricolo o per alcune zone. Questo ha portato la crisi dello stato del benessere che oggi già prepara la crisi della società industriale. Mi chiedo se la società post-industriale porterà una riduzione degli addetti, quindi degli operai dipendenti; questi in termini di riduzione di apporto che avranno all'economia e alla società, in che stato si troveranno se oggi non daremo una risposta ai problemi del settore agricolo? Ci troveremo fra qualche anno ad avere gli stessi problemi per i settori dei lavoratori industriali, che oggi abbiamo per il settore agricolo. Perché la risposta data in questi anni non è stata una risposta concreta, ma squilibrata. Perché ci siamo posti il problema del progetto di società. Perché abbiamo capito da parte nostra di aver sbagliato nel passato a chiuderci in noi stessi pensando di poter risolvere i problemi in termini corporativi, settoriali. Crediamo che aprendoci alla società, riprendendo i contatti con il mondo del lavoro nel suo complesso, possiamo superare anche l'handicap che abbiamo avuto in questi anni quando non c'è stato solo lo sviluppo industriale, ma una maggiore attenzione verso il lavoro dipendente a scapito del lavoro autonomo nel suo complesso; e oggi questo lo paghiamo anche a livello politico oltre che elettorale, non solo in termini di partito, ma anche di prospettive di società. Noi come lavoratori autonomi agricoli abbiamo riscattato la vecchia borghesia rurale, il vecchio capitalismo rurale che era fatto di potenza, di prevalenza del capitale sull'uomo; noi abbiamo sostituito la potenza del capitale con la potenza dell'uomo e della sua famiglia, quindi del nuovo imprenditore che, attraverso il suo lavoro, la sua presenza, la sua attività, la sua intelligenza, con la collaborazione della sua intera famiglia, si è sostituito al capitale, alla potenza del capitale. Temiamo, oggi, che dopo questo salto di qualità che ha sostituito al capitale l'imprenditore agricolo, possiamo invece avere la caduta del capitalismo: con i grandi giganti della distribuzione, della commercializzazione che diventano più importanti dei produttori, come è avvenuto anche in termini internazionali fra le società che sono già post-industriali e quelle che sono invece in sviluppo. Questo è il nostro timore. Ecco perché la nostra volontà di aprirci, di poter cavalcare i cambiamenti della società che non significa più la nostra ideologia, il nostro credo, ma significa l'interpretazione di questi cambiamenti e il voler recuperare bella società, nell'economia, il posto che ci compete e che ci è stato invece levato e per il quale siamo stati sostituiti. Qual è la risposta? Troppo nel passato si è dato spazio a qualcosa che veniva concesso, come qualcosa che veniva elargito, che si dava per evitare che l'uomo scappasse dalla montagna. In alcuni salotti le signore parlano della crisi dell'agricoltura in termini ecologici, altre volte in difesa dell'ambiente, però non si dice quante centinaia di migliaia di ettari produttivi sono stati sottratti dal '51 al settore agricolo. Ecco perché vogliamo questi contatti: per riprendere il nostro posto nella società anche in una società come questa che pensa alla crisi, a quello che avverrà nei prossimi anni, agli scontri delle potenze internazionali. Che parte avremo noi? Ecco l’importanza del Meeting; è attraverso anche questi contributi che possiamo dare un nuovo indirizzo allo sviluppo della società e dell'economia, in modo che anche il vecchio contadino non sia più come era considerato, ma sia l'uomo che ha preso il suo posto nella società, nell'imprenditoria, nell’economia. Questo è quello che noi dobbiamo fare. La mia risposta alla domanda è che quando si parla di agricoltura, a qualcuno è sembrato di tornare indietro. No, noi abbiamo sempre voluto che il ministero fosse l'espressione, in termini di politica generale, non degli interessi corporativi, ma degli interessi alimentari, degli approvvigionamenti, dello sviluppo dell'economia complessiva del paese.

A. Piatti:

Abbiamo visto come l'organizzazione della "coltivatori diretti" vuole essere propositiva e vuole collocate giustamente l'agricoltura nell'economia del nostro paese. Vorrei chiedere all'amico Lingua, che è coltivatore diretto, di descriverci sinteticamente la giornata tipo del giovane in agricoltura e motivarci il suo impegno nell'organizzazione professionale e la sua volontà di essere propositivo per il nostro paese.

C. Lingua:

Descrivere la giornata tipo di un giovane coltivatore diretto in generale non mi è estremamente difficile proprio perché riesco ancora abbastanza a fare il coltivatore diretto anche se sotto impegnato all'esterno della mia azienda. Ritornerò poi su questo proprio per spiegare che cosa vuol dire per noi giovani fare i coltivatori. La mia azienda è a carattere zootecnico e frutticolo; ho quasi 15 ettari di terra, 50 capi di bestiame in produzione bovini da latte, 356 tori da ingrasso e 5 ettari di mele. Nella mia famiglia siamo io, mia madre, mio padre e mia sorella che è l'elemento più attivo, e la persona che mi permette di poter esercitare questo mandato che ho ricevuto due anni fa. Nella ripartizione dei compiti che noi abbiamo all'interno della nostra famiglia abbiamo una serie di specializzazioni. Io mi occupo in modo particolare degli animali, mentre mia sorella in modo particolare di tutti i lavori che debbono essere fatti con le macchine; mio padre integra tutto quello che noi non riusciamo a fare, perché ci sono una serie di tempi che noi giovani in linea di massima, preferiamo occupare non solo all'interno dell'azienda, ma anche all'esterno. Queste scelte che noi facciamo purtroppo in linea di massima, e dico in linea di massima perché uno dei problemi maggiori che abbiamo come giovani è proprio quello di riuscire a trovare una dimensione, un ruolo preciso all'interno dell'azienda, all'interno della famiglia, dove tutte le nostre capacità possono essere espresse; capacità di persone che si affacciano a questo lavoro, magari sbagliando, magari tentando di portare qualcosa di nuovo, tentando di fare qualcosa di diverso, ma che provano. Uno dei problemi che noi abbiamo ancora è quello dei rapporti che ci sono all'interno della famiglia. Comunque fare il coltivatore negli anni '80 per noi giovani vuol dire, essere in grado di saper gestire i fattori produttivi all'interno dell'azienda agricola; vuol dire essere presenti nelle strutture socio-economiche, ad esempio cooperative, associazione produttori e nelle strutture socio-amministrative: i Comuni, le Comunità montane e in tutti quegli spazi dove ormai è indispensabile che ci sia la presenza dei coltivatori. Forse qualcuno può anche ritenere che per tradizione noi non abbiamo mai partecipato troppo al sociale, ma dopo le parole che ha detto l'on. Lobianco è chiaro che l'impegno di noi coltivatori, l'impegno della nostra organizzazione va in questa direzione, verso il sociale: perché l'agricoltura non è e non deve restare solo per chi la lavora, m è un settore che può dare molto a tutti gli altri settori, che può dare molto al sociale. Però c'è una serie di problemi. Prima il prof. Casati nella sua introduzione diceva: "molti sono costretti a dover lavorare senza avere mai la possibilità di essere sostituiti" e questa è ancora una realtà molto concreta. Chi ha aziende, che sono soprattutto di carattere zootecnico, ha la difficoltà a potersi assentare da queste per poter partecipare alla vita sociale. Allora lo ritengo che sia un dovere da parte di tutti fare in modo che tutte le componenti di questa società abbiano la possibilità di potersi esprimere, di poter partecipare alla vita sociale del paese. Ritorno un passo indietro. Quando attraverso l'esodo milioni di giovani se ne sono andati dal settore agricolo e si è iniziato ad utilizzare la meccanizzazione, i concimi, i fertilizzanti, tutti quei prodotti che provenivano dall’industria, dalle braccia di molti coltivatori che erano andati in quei settori, (e questo è stato un aspetto positivo senza dubbio perché la meccanizzazione e i prodotti hanno contribuito ad aumentare il reddito del coltivatore, cioè ad una crescita sul piano economico del coltivatore) tutto questo ha messo però in crisi la nostra identità, hanno messo in difficoltà il nostro essere noi stessi, perché purtroppo in questo processo il coltivatore di nuovo è stato tralasciato e ci si è preoccupati di fare le macchine per l'agricoltura senza pensare che chi poi le doveva usare erano i coltivatori. Anche in riferimento a quanto diceva Lobianco, noi non ci vogliamo di nuovo trovare di fronte ad un nuovo capitalismo, a qualcosa di nuovo che ci mette in difficoltà, in crisi. Quando noi riusciremo, e sono convinto che siamo sulla strada giusta, ad unire, a mischiare i valori della civiltà contadina con i valori economici, senz'altro avremo maggiori risultati. Ormai i tempi sono maturi perché il settore agricolo esprima la sua cultura nella società. La capacità di una nuova armonia fra professionalità e valori consente meglio di affrontare il dialogo con il mondo extragricolo. Noi siamo disponibili, abbiamo bisogno di confrontarci, di discutere con le altre componenti della società, ma sono convinto che anche esse trarrebbero degli utili vantaggi da un confronto con la gente del mondo agricolo. E il territorio potrebbe essere il punto di aggancio con la cultura, se così si può chiamare, industriale. Abbiamo visto l'inquinamento. Prima si è parlato di ecologia, ora va di moda l'ecologia, addirittura dire che noi roviniamo l'ambiente perché usiamo gli antiparassitari. La denuncia è stata fatta al mondo industriale, come principale responsabile del degrado. Ma forse questo non è frutto degli errori dell’industria; forse è peggio, è il frutto dell'applicazione rigida dei principi che guidano le imprese industriali. Principi che sono fondati sul primato del profitto e dell’attribuzione del costo solo a ciò che costa all'imprenditore, escludendo il costo che invece paga la società, la collettività. E ovviamente noi, in prima persona ci siamo resi conto che è sbagliato, che bisogna cambiare i criteri economici, attraverso una modifica dei codici culturali che hanno portato a ragionare in questo modo, inserendo nella cultura di ogni uomo il bene della cosa degli altri e il bene che ancora di più è di tutti. La proposta che può scaturire dal mondo agricolo è quella di una nuova economia che non contrapponga l'economia al sociale. Vi vorrei leggere quanto io ho trovato scritto riportato sull’ "Osservatore Romano" il giorno dopo la giornata del ringraziamento celebrata con una messa del Papa nel 1980 e il commento, che era il giudizio di un economista. Diceva queste testuali parole: "nell'attività agricola c’è implicato di più che la produzione di un reddito o la diminuzione dei costi: c'è l'intera relazione fra uomo e natura ad essere coinvolto l'intero stile di vita di una società, la salute, la felicità e l'armonia dell'uomo come la bellezza del suo habitat. Se gli esperti lasciano fuori dalle loro considerazioni tutte queste cose lasciano fuori l'uomo; anche se i nostri esperti cercano davvero di farcelo entrare, a evento avvenuto, chiedendo che la comunità paghi le conseguenze sociali della loro politica". Ed è con queste parole, secondo me, che si ha la chiave di lettura di che cosa vuol dire oggi lavorare in agricoltura. Scegliere questo settore veramente una scelta di vita. Nell'introduzione il prof. Casati diceva: è un lavoro concreto, è un lavoro veramente duro, un lavoro che in alcuni casi non si vede il termine della giornata, che esclude noi da alcune cose di cui avremmo bisogno: come un periodo di riposo, come la possibilità di poterci aggiornare anche se stiamo lavorando perché tutte queste cose possano essere fatte da noi giovani coltivatori. Ed è con questo che eludo, dicendo: noi siamo rimasti in agricoltura all'incirca in 424 mila. Se il tema di questo dibattito: "Agricoltura: un bene per l'uomo del terzo millennio", se vogliamo che ci siano ancora nel terzo millennio dei coltivatori, che ci siano ancora questi giovani che diano la possibilità ai loro figli di poter dire: questo è un lavoro dove l'uomo è soggetto, è attivo e si realizza, dobbiamo però mettere in condizione oggi i giovani e tutta la categoria dei coltivatori, di poter svolgere questo ruolo anche sociale di poter realizzare la loro scelta di vita.

A. Piatti:

L’ultima parte dell’intervento di lingua apre un grosso spunto di discussione circa il giudizio sulla tecnologia applicata all'agricoltura e sul sapere scientifico. Vorrei però fare una domanda flash al prof. Casati, all'on. Lobianco e al ministro. Carlo, parlando, ha descritto la sua impresa familiare che sicuramente è uno dei cardini dell'economia agricola italiana; esiste la figura dell'imprenditore puro che pur riveste la sua importanza, ma sicuramente l'impresa familiare è uno dei punti cardini. Al prof. Casati e all'on. Lobianco chiederei brevissimamente di dirci qualcosa sull'impresa familiare. Al ministero Pandolfi chiederei come intende favorire, se ritiene valida ancora questa forma economica, l'impresa familiare?

D. Casati:

Il giudizio sull'impresa familiare in agricoltura io lo do dal punto di vista economico. L'impresa familiare è, perdonate l'espressione, un'impresa cuscinetto, all'interno della quale in termini economici è possibile compensare l'andamento economico delle diverse fonti di reddito che confluiscono in questa impresa. Perché l'impresa familiare regge? Perché il coltivatore, la sua famiglia uniscono in un unico reddito familiare il provento della loro attività lavorativa agricola; eventualmente il provento derivante dall'impiego dei loro capitali è da quel processo di accumulazione di capitale che hanno fatto risparmiando. C'è un po' di confusione in termini economici tra quello che è famiglia e quello che è l’impresa; è famiglia che risparmia e col risparmio della famiglia si finanzia l'impresa; quindi è una forma di autofinanziamento, un po' impropria, se vogliamo, cioè non è l'impresa che si autofinanzia. Allora la possibilità di sopravvivenza di questa famiglia e di questa impresa, secondo me, deriva proprio dal fatto che il compenso che sussiste tra queste diverse voci che confluiscono tutte in un unico fonte di cespiti, consente di andare avanti. Si può anche dire che l'azienda familiare va avanti perché non fa bene i conti, in un certo senso, perché se dovesse valutare il proprio lavoro a tariffa sindacale non resterebbe compenso alcuno agli altri fattori della produzione che la famiglia ha immesso, cioè alla terra e al capitale proprio. Cioè se dovesse remunerare ai prezzi di mercato tutti i fattori, evidentemente ai prezzi di mercato attuale, non sussisterebbe. Allora bisogna dire che l'impresa familiare, riuscendo a compensare queste cose, riesce a fornire alla società un tipo di impresa che va avanti. C'è un aspetto non irrilevante che è quello legato al valore patrimoniale, nel caso di proprietà della terra; cioè la proprietà della una si rivaluta non per meriti propri ma perché c'è l'inflazione, perché la terra è limitata, ma in tempi di inflazione c'è anche il bene rifugio. Poi c'è anche un altro aspetto che è quello della pace nell’ambiente di lavoro, perché diceva prima Lingua: "Hanno dei problemi tra padre e madre, tra figlio e figlia e sono in 4 e c'è un legame, c'è una famiglia dentro". Pensate ai problemi in un ambiente di lavoro diverso invece di dover essere in 4 essere in 40, in 400, in 400.000 come è la Fiat. Voglio dire: il modo di lavorare è diverso proprio perché si lavora nella famiglia in proprio.

A. Lobianco:

Il prof. Casati ha cercato, e mi sono reso conto della difficoltà, di spiegare in termini economici. Io mi permetterò di spiegarvi in termini socio-politici, dal punto di vista sindacale come organizzazione. Direi innanzitutto che non vediamo più la differenza fra impresa familiare coltivatrice e quella capitalistica in termini conflittuali come c’era una volta. Negli anni '50 abbiamo combattuto il latifondo perché in quel momento abbiamo visto possibile, come cristiani proiettati nel sociale, che la terra non fosse e non poteva più essere fonte di rendita, ma fonte di reddito o di lavoro o di impresa. In questi termini oggi vi è una differenza che non è più quella fra impresa familiare coltivatrice e impresa capitalistica in termini di latifondo, di sfruttamento. C'è una differenza in questo senso che mentre l’impresa familiare coltivatrice, riesce oggi a sopperire ad alcune difficoltà della situazione, che non è solo quella economica congiunturale; la società invece, da qualche tempo, ha sempre meno possibilità di destinazione di risorse. Al vecchio capitale fondiario oggi si vanno sostituendo le grosse società. Per esempio le società assicuratrici stanno cercando di investire molte società industriali in termini di terre. Allora mi chiedo: se noi dobbiamo restringere la destinazione delle poche risorse disponibili nel nostro paese o anche in campo internazionale a chi ne ha bisogno, credo che sia più giusto destinarle al nucleo familiare, all'imprenditore che attraverso la sua famiglia riesce a sopperire alla mancanza di autofinanziamento proprio e al finanziamento pubblico con le poche risorse. Ecco perché la scelta nostra è una scelta sociale, cioè non destinata a chi debba trarre dalla terra fonte di rendita, ma a chi debba estrarre dalla terra fonte di reddito.

F.M. Pandolfi:

Io volevo rispondere alla domanda che mi è stata posta dal punto di vista molto pratico di alcune cose da fare, e faccio uno schizzo, un mini programma per sostegno dell'impresa familiare, partendo sia da quello che ha detto Lobianco, sia da quello che ha detto Casati. Prima cosa: siccome l'impresa familiare utilizza diversi fattori produttivi e uno di questi fattori è il capitale, mi pare che un primo obiettivo serio sia quello di assicurare migliori condizioni di credito di quelle che oggi non ci siano. Da parte mia metterò a profitto la mia precedente esperienza di ministro del tesoro per studiare qualche forma pratica e realistica per sviluppare un credito agrario che consenta l'accesso al denaro in maniera un po' più abbondante e a prezzo un po' più moderato. Mi pare che questo sia un punto fondamentale. Seconda cosa: in questo paese, soprattutto là dove ci sono tanti Comuni su aree ristrette, come capita nella mia Provincia, bisognerebbe smetterla con l'idea che ogni mini piano regolatore deve per forza sottrarre terra produttiva per metterci una ipotetica zona industriale che nessuno vedrà mai. Questo è molto importante, credo che si debba far leva sulla collaborazione delle Regioni che, come è noto, hanno un autorità fondamentale in materia di agricoltura; ma bisogna che questa autorità la esercitino in termini interdisciplinari, che ci sia cioè una certa direzione unica di carattere politico nel mettere insieme, ad esempio, urbanistica ed agricoltura. Una terza cosa che bisogna cercare di fare è il miglioramento delle condizioni generali esterne per l'impresa familiare. E vanno, da quelle che tu hai citato, per esempio i guasti dell'inquinamento delle acque, che poi vengono pagati dall'agricoltore, a tanti altri fattori indiretti che sono diseconomie che gravano e che vengono pagate dall'impresa familiare. Lasciatemi finire con un pensiero di grande ammirazione affettuosa per questo schizzo che ci ha fatto l'amico Lingua della vita di una famiglia che si trova ad essere anche impresa familiare. Anche se poi non fa perfettamente bene i conti, ma è forse questo gesto di coraggio del non far bene i conti che assicura vitalità ad un settore di cui abbiamo bisogno come il pane. E lo volevo dire anche perché ho visto il segno dei tempi nella tua descrizione, perché hai detto che tu ti occupi generalmente degli animali e tua sorella generalmente della macchine, e mi pare che sia un bellissimo riferimento al tema di questo Meeting: tu stai dalla parte delle scimmie e tua sorella dei robot non so chi abbia scelto la parte migliore.

A. Piatti:

Vorremmo un giudizio sintetico sull'applicazione dell'alta tecnologia in agricoltura. Abbiamo parlato di informatica, elettronica. Esistono situazioni come quelle che abbiamo visto quest'estate in gravissima siccità a fianco di possibilità di meccanizzare, computerizzare il lavoro di stalla. Come si salvaguarda la dimensione umana in questa agricoltura?

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D. Casati:

Io credo che l'apporto della tecnologia vada visto senza paura, cioè non siamo più nell'800 in cui c'era paura della macchina. La macchina non toglie possibilità di lavoro, toglie la fatica. Penso, ad esempio, a questi nuovi sistemi di alimentazione del bestiame computerizzato, in cui ogni animale ha la sua dieta. Qui si toglie all'allevatore la fatica di ricordare come dar da mangiare a 200 vacche. Da questo punto di vista la macchina va vista con una grande apertura perché l'importante è servirsi della macchina, non farsi strumentalizzare dalle esigenze della macchina; e così vale il discorso tecnologico per tutte le applicazioni in cui è possibile. C'è un problema emerso in tutti i discorsi, ed è quello della formazione in agricoltura e dell'assistenza tecnica, perché per dare la tecnologia, noi abbiamo bisogno che il coltivatore la possa padroneggiare. Penso ai paesi dell'Europa centro settentrionale dove esiste una formazione professionale per l'agricoltura che non è solo una formazione di secondo grado o di serie B, è un'informazione che forma imprenditori capaci. Credo che sia un problema da tener presente cioè: tecnologia, sì, ma bisogna poterla padroneggiare.

A. Lobianco:

Le cifre, che il prof. Casati ha dato prima, sulla riduzione degli addetti agricoli e sul suo prodotto, credo che siano la migliore risposta del mondo agricolo che ha di usare le macchine. D'altra parte basta andare negli opifici, nelle cantine sociali, nelle centrali cooperative dove ciò si può vedere, non solo nell'ambito dei servizi meccanografici delle contabilità, ma anche nell'attività stessa. La verità è un'altra invece, noi non temiamo le macchine, anzi vorremmo usarle e naturalmente non si vanno a spendere 50-60 milioni per un trattore come per una Ferrari, ma si spendono, perché lo si può utilizzare nell'attività d'impresa. Ciò che temiamo è la presunzione degli uomini che spesso non credono nella capacità dell'imprenditore agricolo di poter utilizzare le macchine; continuano ancora a vedere il contadino come colui che munge, non come colui che può gestire ed essere un uomo civile imprenditore. Vorrei concludere ricordando che alcuni mesi fa, si è svolto un convegno a Bari sugli anni '80. Il tema era: Chi guiderà lo sviluppo, il secondario o il terziario?" Di pari passo si era saltato il primario, quindi si parlava di telematica, di sviluppo, d'industria, di macchine, ma già si escludeva il settore agricolo dal poter utilizzare queste macchine.

F.M. Pandolfi:

Quando parliamo di macchine, più generalmente di tecnologia, come giustamente tu hai detto inizialmente, prima cosa: l'agricoltura ha bisogno intanto di ricerca e che quelli che la devono fare, anche nel nostro paese, la facciano, perché siamo ai confini un po' più internazionali dell'ibridazione, per esempio, siamo alla bioingegneria; in Israele hanno isolato il gene nel cromosoma della pianta di mandarino responsabile della formazione della camera d'aria tra la polpa e la corteccia; l'hanno trapiantato dentro il cromosoma della pianta dell'arancio in modo che fra qualche anno ci manderanno le loro arance che si sbucceranno altrettanto facilmente quanto i mandarini. Abbiamo bisogno di ricerca. Seconda cosa: abbiamo bisogno di macchine, comprese quelle dell'informatica, quelle della telematica, tutto quello che il terziario ci somministra, ma bisogna che il fattore uomo sia all'altezza della macchina. Quindi l'impegno per la formazione professionale specifica in agricoltura è un impegno vitale se non vogliamo usare a sproposito le macchine o compiere talvolta lo spreco di meccanizzare, quando poi non c'è una utilizzazione ottimale delle macchine che si impiantano. Terza ed ultima cosa, e questo lo dico a proposito delle centrali a carbone e nucleari: abbiamo bisogno di andare avanti in agricoltura anche sulle frontiere. Qui si parla di terzo millennio, cari amici, e guardate che il terzo millennio vedrà l'agricoltura nelle così dette produzioni alternative non destinate all'alimentazione umana o animale. E perché non pensare ad uno sviluppo? C'è chi dice addirittura che alla fine di questo millennio, cioè nel 2000 si possa arrivare già al 5% di una energia prodotta da biomassa. Adesso le biomasse si adoperano solo come processi di fermentazione o di classificazione dei sottoprodotti delle normali utilizzazioni dei prodotti agricoli, si può arrivare addirittura alla coltivazione di biomassa, per esempio, granoturco o colza. O perché non pensate a questi studi sperimentali che si stanno facendo adesso per produrre biomasse ai fini di produzione di energia: canne palustri giganti, qualche varietà di euforbie o altre cose di questo genere? Ecco quindi che le frontiere dell'agricoltura si identificano. Mi pare che sia un messaggio importante che può venire da questo Meeting con le stesse frontiere dell'avanzamento della conoscenza, della ricerca, della tecnologia dell'uomo. Lo sposalizio tra queste due cose mi pare che sia di buon auspicio per l'agricoltura italiana.