Il miracolo dell’unità. Testimonianze dal Messico

Domenica 23, ore 15

Relatori:

Amedeo Orlandini

Jorge Luis Navarro Campos

Daniel Aguilar

Giuseppe Zaffaroni

Moderatore:

Giorgio Vittadini

 

Vittadini: Anche quest’anno il Meeting propone un ciclo di incontri sul tema: "Fare il cristianesimo". Ci conforta in questa scelta il messaggio che ci ha inviato Sua Eminenza il cardinal Sodano, il quale plaude al fatto che nel sottotitolo del Meeting sia messa a tema la nuova evangelizzazione. Ci interessa descrivere la vita della Chiesa non come un fatto del passato, ma come un fatto di oggi.

Che in America ci sia oggi l’annuncio del cristianesimo, la vita della Chiesa come una liberazione per il popolo, per la gente comune, che per l’uomo del 1992 l’incontro del Cristianesimo e la vita della Chiesa rappresenti una speranza, una possibilità di vita, qualcosa che libera il corpo e lo spirito: questo è quello che vorremmo descrivere in questi incontri. Come per molti di noi in Italia così in America, in situazioni completamente diverse, in connessione con chi andò per la prima volta nel 1492, ma oggi. E questo non con conferenze, ma con racconti di Chiesa viva, vissuta.

Amedeo Orlandini, originario di Reggio Emilia, è docente di scuola media superiore a Città del Messico.

Orlandini: Vivo a Città del Messico con altri due amici italiani, Bruno Genati e Stefano Lavaggi e insegno filosofia nelle scuole medie superiori. Prima sono stato a Coazza Coalcos, una città posta sul Golfo del Messico, ricca soprattutto di giacimenti di petrolio.

Più che una città, è un insieme di città. Per la sua dimensione ha dei problemi grandissimi di rapporto, di collegamento, di violenza, di inquinamento. In questa situazione è nato un inizio di amicizia.

Perché è nato? Prima di tutto ci siamo guardati in faccia tra di noi: eravamo lì e abbiamo capito immediatamente che non era tanto una questione di progetto (anche il fatto di stare a Città del Messico non è dovuto ad un calcolo o ad una strategia, ma al fatto che ci hanno chiamato alcuni vescovi), ma che tutto dipendeva dalla stima e dall’unità tra di noi e dal ricordare ciò che abbiamo incontrato dentro la situazione che vivevamo: io insegno alle scuole medie superiori, Stefano lavora nella Dante Alighieri, un’associazione di cultura italiana, e Bruno dà corsi di italiano alla Dante Alighieri. Ricordarci questo, vivere questa compagnia, ha fatto immediatamente percepire alla gente che incontravo un accento diverso. Una delle cose difficili che vive la persona a Città del Messico è proprio l’isolamento, la sradicamento. La maggior parte della gente di Città del Messico è gente che viene dalla campagna inseguendo un miraggio oppure fuggendo dalle campagne dove non c’è assolutamente niente. I giovani e le persone un po’ più sveglie, quelle che hanno un po’ più di inquietudine, fuggono in città in cerca di qualcosa di diverso, però quando sono lì perdono tutti i contatti, le radici.

Le persone che abbiamo incontrato a scuola o nelle parrocchie hanno percepito un’amicizia tra di noi e l’offerta gratuita di un’amicizia a loro. Si sono compromessi in questa amicizia che viveva tra di noi proprio perché hanno visto qualcosa che non pensavano possibile, un’amicizia gratuita, disinteressata, e un’amicizia che non si limitava solo ad alcune cose, ma a tutta la vita, a tutta la situazione. Questo ha fatto aggregare alcune persone adulte, famiglie ed anche universitari. Così abbiamo iniziato alcune opere. All’università è nato un centro, Encuentro, per cercare di rispondere ai bisogni dei ragazzi. L’università autonoma di Mexico con 250.000 studenti è l’università più importante del Messico. Ovviamente diventa impossibile conoscersi, gli orari sono diversi e trovarsi è molto difficile. Un centro come quello che hanno iniziato i nostri ragazzi, è un aiuto tra di loro a tenersi presenti e anche ad offrire una compagnia, un aiuto nelle cose più banali, perché abbiamo cominciato con un centro di fotocopie, un computer per fare qualche tesi, qualche stampato; una cosa modesta che è già un segno molto importante. Perché c’è anche da dire un’altra cosa: la divisione che esiste fra la fede, più o meno cosciente, e i problemi della vita concreta, come fare una fotocopia, o problemi politici, educativi. In Messico si vede moltissimo questa divisione. Il tentativo dei cristiani di entrare e di prendersi cura dei problemi concreti della società e della gente è molte volte combattuto. Noi, nel piccolo numerico abbiamo cominciato non tanto a livello di analisi, di discorsi, ma a livello concreto, di opere, di una convivenza, abbiamo cominciato a vivere una vita che non escluda niente.

Jorge Luis Navarro Campos è professore nell’Università Popolare Autonoma dello Stato di Puebla ove dirige la Scuola di Filosofia.

Campos: Mi chiamo Navarro. Ho 36 anni. Sono docente di filosofia, e attualmente direttore del dipartimento di filosofia all’università autonoma di Puebla. Sono sposato e padre di 3 figlie. Mi fa sempre piacere affermare questo perché, in un certo senso, l’incontro che ho avuto con il movimento mi ha consentito di amare di più il tesoro che per me rappresenta la mia famiglia. Come docente universitario, ho sempre avuto la preoccupazione di fare in modo che l’educazione che cercavo di proporre fosse contraddistinta dal messaggio cristiano. L’atmosfera universitaria nell’ateneo dove lavoro, e in generale, in seno agli atenei in Messico, è caratterizzato da un vuoto a livello della proposta culturale, da una ideologia pragmatica, dalla mancanza di significato quando gli allievi decidono di iniziare gli studi.

Quando ho incontrato il movimento ho scoperto una proposta diversa per vivere l’università, qualcosa che dava agli amici italiani che ho avuto la possibilità di conoscere un’allegria, una contentezza, una operosità che suscitava in me un forte interesse. Ho conosciuto il movimento quattro anni fa attraverso degli amici italiani che vivono a Città del Messico. Uno dei fattori che ha avuto molta rilevanza è stato il fatto che il movimento ha trasformato le convinzioni cristiane che io avevo prima. E’ nata un’intensità soprattutto perché ho avuto la possibilità di scoprire che senza un’amicizia che ti aiuti a vivere in ogni istante, il Cristianesimo diventa astratto. Tutto quello che io sapevo sulla Chiesa come comunione, è diventato per me una realtà viva in seno al movimento oltre al fatto che è una proposta concreta che potevo sperimentare con la semplicità di un’amicizia che si segue con serietà.

Al contempo la proposta del movimento è stata per me un incentivo per la mia persona e per il mio lavoro. Con alcuni docenti abbiamo iniziato a studiare i corsi di don Giussani: Il senso religioso e All’origine della pretesa cristiana. Man mano che si progrediva nello studio, nasceva un grande interesse fra di noi; in quelle parole nuove scoprivamo un entusiasmo diverso e una proposta di vita altrettanto nuova. Alcuni professori presentavano nelle loro lezioni le riflessioni che facevamo nei nostri incontri, nelle nostre analisi.

A livello personale il movimento mi ha aiutato come provocazione affinché i miei studi sulla filosofia prestassero maggiore attenzione a determinati argomenti al fine di considerare la globalità dei fattori che compongono la realtà. Il realismo di Giussani mi ha fatto scoprire un nuovo significato sia del mio lavoro, anche dello studio filosofico che io portavo avanti da molti anni. In modo particolare per me è stata una grande scoperta la lezione di Giussani intitolata: La presenza e l’utopia. Questo mi ha consentito di considerare che i problemi sociali e politici da un punto di vista cristiano non devono essere affrontati in modo utopistico. Il modo di recuperare la dignità dell’essere umano non è certamente proponendo obiettivi, ma vivendo il rapporto definito da Cristo.

Daniel Aguilar è studente di filosofia all’Università di Campeche.

Aguilar: L’incontro col movimento è avvenuto per me cinque anni fa, quando stavo preparando la maturità. Abito a Campeche, una città stupenda, ma povera, molto diversa da Città del Messico. E’ una città abituata a vivere nella povertà, quindi non v’è nulla che spinga ad uscire da questo circolo. Per un ragazzo comune come me, all’epoca in cui stavo preparando la maturità, non c’era problema di cultura, di ricchezza: un ragazzo a quel punto non è interessato a queste cose. Quando ho incontrato un docente di latino, mi sono reso conto che la vita come lui me la presentava, sembrava molto più emozionante di come io stavo vivendo. L’incontro con questa persona mi ha aperto altri orizzonti, la strada dell’amicizia con altre persone e questa amicizia ha cominciato ad orientare la mia vita in modo completo. Due anni fa io volevo allontanarmi dalla città ed andare ha studiare a Guadalajara, che è la seconda città per importanza nel Messico, ma non mi hanno accettato. Allora sono dovuto rimaner dov’ero. Ma io ho chiesto a questa persona, a questo volto, dov’era necessario che io andassi e mi ha detto che avrei potuto iniziare la scuola di psicologia dove insegna un nostro amico.

Essere in una compagnia significa che uno sottopone al giudizio tutto ciò che fa, tutto ciò che dice; tante cose sono magari elementi trascurabili, marginali. E uno mette in gioco le cose che farà; ad esempio uno può giocare a pallacanestro, andare a cena, andare ad una festa, andare a fare la stessa cosa che faceva prima ma adesso accompagnato da questa emozione.

Grazie a questo seme sono nate varie cose: quattro centri per fare fotocopie, in cui io lavoro direttamente, dove trentacinque ragazzi ricevono un salario, in un modo o in un altro; poi vi è un centro dove vivono studenti universitari che provengono da zone esterne alla città, dove mangiano, giocano, vanno con gli altri colleghi a studiare. In realtà è un luogo di incontro anche per noi. Il terzo centro è poi una libreria; si trova in un centro commerciale, un luogo bello vicino all’università. Tutto questo, ripeto, nasce perché dietro ci sono dei volti, ci sono delle facce. E’ da questo che nasce una preghiera vera, quando uno chiede veramente di essere a contatto con questo volto, e questo succede solo perché nel suo cuore nasce un’emozione più grande di tutto quello che si percepisce all’esterno.

Giuseppe Zaffaroni è nato a Gerenzano (Varese) nel 1957, si è laureato in filosofia all’Università Cattolica di Milano nel 1982. Dal 1987 è professore supplente di Logica nella facoltà di Humanidades dell’Università Autonoma di Campeche (Messico). Dal maggio ‘89 è coordinatore del progetto AVSI in Campeche per la realizzazione di un pensionato per studenti universitari di disagiate condizioni economiche e centro di servizi sociosanitari per giovani della città.

Zaffaroni: Vivo a Campeche dal 1987. Ci sono arrivato con amici dell’Associazione Memores Domini, Giampiero e Daniele.

Campeche è una città di 250.000 abitanti distribuiti in un centro storico di tipo coloniale, nei pochi centri residenziali ricchi di ville e poi nei grandi quartieri popolari costruiti dal governo, spianando con il cemento centinaia di metri e costruendo in serie queste casettine a pian terreno, che sembrano fatte di cartone e che sono infuocate dal sole, perché il clima di Campeche è un clima caldo, di tipo tropicale. Sparpagliate sulle colline si trovano i barrios più poveri dove le case sono veramente fatte di legno e di cartone, dove ancora un bambino può morire per una semplice diarrea, dove non si saprà mai veramente quanti sono i morti per il colera.

Siamo arrivati in questa città per rispondere all’invito di un vescovo e questo è importante perché non ci siamo andati per un calcolo o una previsione; anzi forse con un calcolo o una strategia, probabilmente l’ultimo posto dove saremmo arrivati è appunto Campeche. Ci siamo arrivati tra l’altro in condizioni non ottimali dal punto di vista di chi scrive la teoria delle missioni, perché non conoscevamo quasi nulla del posto né la lingua, in quanto la nostra partenza è stata improvvisa, senza sapere neanche bene dove avremmo lavorato perché sapevamo solo genericamente che il vescovo ci aveva invitati per insegnare in una facoltà umanistica.

Siamo andati allora con una sola certezza, la certezza che la compagnia viva che avevamo incontrato e che era stata capace di riconciliare le nostre vite era anche ciò che le persone che lì andavamo ad incontrare aspettavano e desideravano incontrare: l’unica certezza era che Cristo è la risposta alla mia vita e la risposta alla vita di tutti gli uomini. Questo taglia alla radice il problema dell’inculturazione. Io ne sentivo parlare prima e non capivo molto, adesso che sono lì da cinque anni capisco ancora meno perché l’unica cosa reale è che se uno ha questa certezza che l’intelligenza e il cuore dell’uomo sono fatti per riconoscere e amare Cristo, se quindi non presuppone una frattura, una mancanza di connessione fra quello che l’uomo è e desidera e l’annuncio cristiano, il problema dell’inculturazione diventa una cosa molto semplice. E infatti, che cosa potevamo dire o che cosa potevamo fare ai ragazzi che abbiamo cominciato ad incontrare ad esempio sul lungomare (dove lì si riuniscono i ragazzi della società bene seduti su grandi macchine americane tirando notte, sorseggiando una birra o aspettando di andare alla discoteca o di rimorchiare una ragazza, annoiati e sperando di uscire da Campeche un giorno andando a studiare a Monterey, a Guadalajara o andandosene negli Stati Uniti) o che cosa potevamo dire al ragazzino che studia sperando con il titolo di riuscire a fare un passo avanti rispetto alla realtà sociale in cui vive o al ragazzino che, sempre sperando di venirne fuori, fa il galoppino nel partito ufficiale? La possibilità non era quella di fare discorsi, anche perché all’inizio non riuscivamo quasi a parlare, ma è stato evidente che l’unica questione era che lì ci fosse un uomo per cui Cristo è vero, non uno che lo dica, ma un uomo per il quale Cristo è presente e lo riconosce in un’unità di volti. E’ stato curioso sentire queste prime domande che si diffondevano e che ancora ci sono nella città: "Ma chi sono questi?", perché la cosa più evidente è che non si può inquadrare in uno schema nè religioso, né politico, né sociale il tipo di compagnia che noi al principio abbiamo incominciato a vivere con chi incontravamo e soprattutto con gli studenti con cui vivevamo. Il nostro lavoro al principio è stato quasi solo quello di entrare in classe e di insegnare come potevamo. La cosa più impressionante per me è stato riconoscere dopo poco che vivere la missione era proprio servire questo accadimento imprevisto, questa amicizia imprevista, seguire quello che stava succedendo e seguire soprattutto lo sguardo di gente che avendo fatto un incontro, è dominata più dallo stupore, dalla riconoscenza che da qualsiasi altro tipo di sentimento e che riconosce di essere letteralmente stata salvata dall’autodistruzione, salvata non nel senso di una promessa futura, ma salvata come possibilità di vivere nel presente.

Questo tipo di compagnia che è cominciata è realmente l’avvenimento sociale nuovo dentro la realtà di Campeche. La Chiesa messicana si preoccupa molto del problema sociale però immediatamente pensa che far crescere la rilevanza sociale della Chiesa in Messico sia sviluppare discorsi sulla politica, fare messaggi per invitare la gente a votare, fare documenti dove tratteggiano la figura del governatore ideale. Questo è triste perché non ci si accorge che la realtà sociale nuova è questo avvenimento anomalo, strano, che accade e si ripete dentro la realtà per la grazia di Cristo.

Lo sviluppo delle opere è avvenuto a partire da questa compagnia. Il pensionato per studenti fuori sede che abbiamo realizzato con l’AVSI è nato, per esempio, per dar casa a due ragazzi. Lo spunto per partire è sempre stato dato da un bisogno immediato, concreto, bisogni che lì sono anche molto evidenti, che a volte la gente non vede. Una grazia dell’esperienza che abbiamo incontrato è proprio la possibilità di accorgersi di quello che c’è, della realtà con i suoi bisogni. Così sono nati i centri di fotocopie che hanno dimostrato tra l’altro una capacità di conquista anche economica del mercato abbattendo i prezzi e costituendo un servizio reale per gli studenti. Voi avete sentito parlare molto di queste fotocopie. Il libro arriva raramente e con prezzi molto alti, per cui lo strumento normale con cui gli studenti studiano sono le fotocopie. Da qui lo sviluppo anche della libreria come possibilità di portare un servizio più vicino agli studenti e soprattutto una possibilità per i nostri ragazzi di lavorare e quindi di mantenersi negli studi: praticamente nessuno può andare all’università senza lavorare. E la ragione per cui i ragazzi fanno questo è evidente in un episodio che voglio raccontare. José Francisco è il ragazzo che, appena laureato in scienze politiche, si era reso disponibile a fare il responsabile della nuova libreria. Pochi giorni prima che si aprisse, gli hanno offerto un lavoro da 1.200.000 pesos, mentre noi potevamo solo offrirgli 800.000 pesos. Lui è di una famiglia poverissima, non ha neanche l’acqua in casa, il papà deve mantenere la figlia di un fratello che se ne è andato abbandonando la famiglia; insomma c’era una situazione di bisogno. E allora io non ero per niente tranquillo quando ho saputo che lui ha continuato a rimanere dell’idea di rimanere a lavorare con noi nella libreria. Pensavo che potesse sentirsi obbligato e allora insistevo che lui decidesse il contrario, ma niente. Alla fine gli ho chiesto perché volesse farlo, creandosi un sacco di problemi. Mi ha risposto: "Io voglio rimanere con voi a fare questo lavoro perché voglio arrivare un giorno a veder quello che vedete voi e che io ancora non vedo".

L’altra esperienza interessante per noi e che è un frutto bello dell’esperienza incominciata in questi anni, sono le caritative, perché è il fiorire di un atteggiamento nuovo in una realtà in cui ciascuno cerca di salvarsi da solo. La caritativa è cominciata in un quartiere molto povero, dove facciamo ripetizione ai bambini delle elementari e delle medie, è tutta sostenuta da persone del posto e soprattutto da alcuni adulti che si sono presi questa responsabilità. E il senso di questa responsabilità comune e della voglia che gli amici che abbiamo incontrato hanno di imparare e di seguire, si vede nel modo con cui studiano e lavorano sulla scuola di comunità. Marilù, una signora di lì, tutte le volte che dico qualcosa che non è chiaro, o sembra contradittorio con quello che si è detto l’altra volta, mi ferma e si arrabbia e vuol capire, perché ogni cosa che ha imparato lì ha significato qualcosa che ha dovuto cambiare nella sua vita, totalmente lontana in principio, dal cristianesimo, e allora lei reagisce su ogni cosa che si dice e che magari non è chiara, perché sente che è in gioco continuamente la sua vita. Quando sono partito per una responsabili, è arrivata al pullman portandomi due scatole di biscotti perché sa che son goloso e per dirmi: "Prendi bene tutti gli appunti, e poi mi raccomando, se non capisci domanda".

L’ultima osservazione è questa: l’ambiente non è particolarmente ostile; quei ragazzi non hanno pregiudizi ideologici particolari anche se in tutti l’unico vero pericolo e l’unica vera resistenza è che la società in cui vivono ha seminato nel loro cuore e nella loro intelligenza un filo di scetticismo e quindi l’unica paura, e l’obiezione che in fondo hanno è che si possa trattare di un’illusione, di un discorso così come sono tutti discorsi quelli che incontrano.

L’unica cosa che veramente spazza via tutto è vedere una faccia e vedere una vita. La resistenza ultima è un’obiezione soprattutto di fronte alle forme concrete che ha preso la vita della nostra comunità cristiana: cosa c’entrate voi che venite qui per il cristianesimo e fate le fotocopie e fate i libri ecc., e lo scandalo tra l’affermazione che quello che dà consistenza a tutte le cose può essere presente nella storia in forme fragili e limitate, ma è bello che al fondo questa stessa obiezione sia quella che per secoli hanno fatto all’apparizione della Vergine di Guadalupe che sta al principio del cristianesimo in Messico, l’obiezione addirittura alla proclamazione di beatificazione di Juan Diego, la persona a cui è apparsa la Vergine, l’obiezione fatta anche negli stessi ambienti ecclesiali, lo scandalo del fatto che il mistero si possa rivelare in forme così precise e così scandalosamente banali, come apparire ad un indio, come lasciare la propria impronta in una tilma. E’ lo stesso scandalo all’idea che Cristo possa essere presente e lasciare la sua impronta in ragazzi che lavorano in un centro per fotocopie.