ore 15.00

OMAGGIO A HENRI CARTIER-BRESSON

PRESENTAZIONE DELLA MOSTRA

PARTECIPA: GIOVANNI CHIARAMONTE Fotografo

MODERA: PAOLO PASINI

 

P. PASINE Buona sera, benvenuti al Meeting e benvenuti alla presentazione della mostra "Omaggio a Henri Cartier-Bresson", una mostra di fotografie e disegni di questo artista francese.La figura di Cartier Bresson è abbastanza complessa: è un artista che comincia pingendo poi passa al cinema, alla fotografia e in seguito smette nuovamente di fotografare per tornare a dedicarsi al disegno ed alla pittura. E’ qui con noi Giovanni Chíaramonte, un amico del Meeting, un fotografo che già ha avuto modo di esporre le sue opere più volte qui al Meeting. Cura tutta la parte fotografica, le edizioni e le opere che trattano di fotografia per la casa editrice Jaca Book, credo perciò che davvero sia la persona più indicata ad introdurci all'opera di Cartier-Bresson.

G. CHIARAMONTE: C'è un'immagíne che mi ha molto colpito vedendo la mostra e che penso colpirà voi se andrete a vederla o se l'avete già vista. C'è una figura di donna abbandonata, distesa. Dietro ad essa c'è un velo nero, una quinta che cinge questo abbandono. Decentrata sulla sinistra, una scala a chiocciola ci porta all'esterno verso il fuori del quadro. L'esperienza costante che caratterizza l'opera di Cartier-Bresson, uno dei più grandi artisti di questo secolo, consiste nel fatto che il vedere, la visione, nasce da un abbandono, non da una volontà di ossesso. Labbandono che fa sì che l'altro entri in noi, a costo di una nostra morte, di un nostro silenzio, di un nostro abbandono. Noi possiamo vedere solo quando la nostra mente è sgombra dai pensieri, dalle preoccupazioni. Noi vediamo, giorno per giorno, per grazia, al di là di questo abbandono, di questa accettazione del mistero, una scala che ci congiunge verso un altrove che è, come nel quadro di Cartier-Bresson, al di là del limite. E’ molto importante che nella grande mostra del Meeting siano rappresentati questi quadri che sono le prime opere di Cartier-Bresson. In Italia, per una serie di vicende storiche, egli è sempre stato considerato poco più che un artigiano. Vigeva ancora, e víge tutt'oggi, la convinzione che, siccome i fotografi lavorano con una macchina, non possono essere artisti. Cartier-Bresson sfata questo mito. Il problema è l'immagine, ovvero la consapevolezza che noi abbiamo del mondo. La realtà ontologica del mondo è immagine. Noi siamo immagine. Noi diventiamo ciò che vediamo. Da ciò la straordinaria importanza del lavoro di Cartier-Bresson, proprio perché ogni fotografo vede il mondo, produce immagini non solo per sé, ma per gli altri. Ognuno di voi, meglio di noi, cambia ontologicamente, fisicamente, a seconda di ciò che vede. Ma come dice lo stesso Cartier-Bresson nei suoi scritti, è la scelta che contraddisfingue il fotografo. Abbiamo sotto mano, anche per l'opera dei reporter televisivi, immagine del mondo in guerra. Noi sappiamo che da quando esiste la fotografia e da quando esiste la televisione innumerevoli omicidi sono stati compiuti perché era presente il fotografo testimone. Qui sta la responsabilità decisiva. Devo essere capace di decifrare il destino ultimo del gesto che fisso per sempre nella pellicola. Se io fotografo l'atto della guerra, devo essere consapevole che dentro quell'atto c'è il destino omicida dell'uomo che si sceglie e sceglie per sé la guerra. Se nella mia fotografia io riproduco solo la parte esterna, apparente,"mondana" della realtà, ripeto lo stesso gesto che vedo compiere e quel gesto si ripercuote in tutte le persone che osservano quella fotografia. Questa è la grande, tragica responsabilità di ogni fotografo: la scelta. La macchina fotografica è fatta di un obiettivo che mi trascrive lo spazio e mi dà un'immagine speculare della realtà, ma c'è anche l'otturatore, un congegno che mi fissa un attimo del tempo. Io scelgo sempre un punto dello spazio e del tempo. Posso scegliere in base ad una mia alienazione, ad una mia fantasia, ad una mia proiezione, ma sempre quella scelta è destino, è decisione, che dipende dalla decisione ultima che io ho assunto per la mia vita. Qui non si può barare; il fotografo è immerso nella realtà, nel tempo, nello spazio fisico. Il regista ha altre grandi difficoltà, ma può ricostruire in studio, nel set il tempo e lo spazio che più gli aggradano. Il fotografo è dentro la realtà, opera con i volti viventi del popolo, della gente. Come lui si muove, così il mondo reagisce a lui; come il fotografo getta l'occhio sugli altri, così gli altri rispondono. Cartier-Bresson è un uomo che si offre abbandonato al mondo. Scatta la fotografia quando la realtà, il complesso della realtà svela il suo mistero, il suo desiderio ultimo. Questo è possibile solo a partire dall'esperienza della contemplazione. Giustamente Zavoli, nella presentazione della mostra dell'11 agosto, parlava di Cartier-Bresson come di un esempio tipico dell'ammiratore. Tutti quelli che come Cartier-Bresson credono nel tempo istantaneo ci mostrano che il tempo che diviene è fatto da un Eterno che è al di là. Questo è contemplare. Nel mondo antico, nel mondo pagano, c'era una maledizione per chi contemplava il mondo reale, quella espressa dal mito di Medusa: chi guarda in faccia la realtà diventa di pietra. In tutte le arti precristiane è espressamente vietata l'immagine che imita specularmente la realtà: arte islamica, arte ebraica, buddismo, induismo. La fotografia, il cinema, la televisione sono potuti nascere in occidente non perché noi siamo dei geni, ma perché in noi è potuta crescere una categoria esistenziale concreta del tempo istantaneo: noi, avendo il dono di Cristo morto e risorto, possiamo vedere il mondo alla luce della Resurrezione, e allora il tempo concreto, il concretissimo spazio della mia vita, diventa eterno perché vive di questo Altro al di là del quadro, è stata data Certamente Cartier-Bresson, da vero fotografo sa che la macchina che gli non è indifferente, racchiude un destino. Sa che fotografare il mondo è certamente fotografare la morte. Nel mondo esiste la morte e la morte è presente nelle sue fotografie e nei suoi disegni, ma con una certezza: che nell'uomo, in chi fa la foto e in chi la vede, vive un destino unico. E più forte di ogni morte, di ogni disperazione vive la necessità' della memoria, del tempo istantaneo, quindi la speranza cosciente o inconscia della Resurrezíone. Nessuno può fotografare senza questa fede. Cartier-Bresson, pur contemplando la morte, non è mai corresponsabile dello stesso gesto che la morte procura. Si mette a lato, si confronta col mistero e con quella scala, quel desiderio di eternità che è indelebilmente scritto nella nostra immagine. E per tutta la vita è andato alla ricerca dell'immagine eterna che dentro di noi vive.

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