domenica 26 agosto, ore 19.00

LA RAI DEGLI ANNI ‘90

Partecipa:

Gianni Pasquarelli

Direttore Generale della RAI

Modera:

Stefano Andreani

S. Andreani:

Buonasera a tutti. Apriamo quest’incontro ringraziando tutti i presenti, e in modo particolare il Direttore Generale della RAI, che ha voluto essere ospite del Meeting, Gianni Pasquarelli, giornalista professionista, è stato Direttore de Il Popolo e vice Direttore Generale della RAI nella quale ha lavorato per molti anni come commentatore economico e sindacale. Come amministratore delegato della SIPRA prima, e della Società Autostrade poi, ha avuto indiscutibili successi manageriali. Cattolico, Democratico cristiano, politicamente vicino all’area di maggioranza del partito, da alcuni mesi, e precisamente dal febbraio di quest’anno, Pasquarelli è tornato alla RAI come Direttore Generale dopo 15 anni d’assenza. Nei giorni precedenti la sua designazione da parte dell’IRI, i giornali avevano intensificato le critiche all’azienda: un indebitamento di circa 1.200 miliardi, nomine e promozioni a raffica, decine di migliaia di collaboratori, insomma una gestione che dalla quasi totalità della stampa nazionale veniva definita fallimentare. Si è scritto anche più volte sui giornali di una fondata riluttanza di Pasquarelli ad accettare l’incarico, eppure in pochi mesi il Direttore Generale ha ottenuto un discreto numero di risultati positivi: si è circondato di uno staff universalmente apprezzato, ha raggiunto un accordo per le trasmissioni calcistiche tra la RAI e la FININVEST, ha predisposto un piano per la radiofonia, ha discusso e messo a punto con il sindacato la carta dei diritti e doveri dei giornalisti dell’azienda. Sotto la sua direzione è stato approvato il piano quadriennale dal Consiglio di Amministrazione, e sono state decise le nomine dei vice Direttori Generali e dei Direttori delle testate televisive. Dopo questa brevissima scheda do la parola al Direttore Generale Pasquarelli per una breve esposizione.

G. Pasquarelli:

Intanto devo ringraziare il mio amico Andreani perché gli ha fatto velo l’amicizia e quindi è stato troppo generoso nei miei confronti, mi auguro che nelle domande sia più cattivello e provocatorio. Detto questo vorrei dire un grazie schietto a tutti i cari giovani amici di CL, perché intanto mi hanno voluto invitare a fare quattro chiacchiere sui problemi non facili della radio e della televisione, ma soprattutto perché, stando in mezzo a loro, si fa un bagno di cose pulite, per bene, di cose che danno senso ad una vita. Credo che per noi anziani questi bagni siano particolarmente salutari e che dovremmo farne di più. Parlare di televisione oggi è estremamente facile anche perché i problemi di attualità sul tappeto sono tanti e tanto importanti. La nuova legge sull’emittenza è ancora fresca di inchiostro, abbiamo la prospettiva del 2000, abbiamo la topografia del potere editoriale in Italia anch’essa degna di stimolante riflessione. Ebbene mi sono detto: "Io voglio fare con i cari giovani amici di Comunione e Liberazione un altro discorso, generale, ma non generico, discorso che certo ha anche degli agganci con l’attualità ma che inviti un po’ tutti noi a riflettere intorno alla natura di quest’azienda che produce informazione, che produce commenti, che produce spettacolo, che produce cultura". La RAI è un’azienda come tutte le altre che producono lavapiatti, automobili e così via, o è un’azienda sostanzialmente diversa, qualitativamente diversa? Alcuni studiosi, volendo definire la società nella quale viviamo, parlano di una società informatica, di una società dell’informazione e aggiungono che l’informazione è la prima delle materie prime dell’epoca in cui viviamo. Anche io la penso così e proverò a fare un esempio. Nel secolo scorso e nei primi decenni di questo nostro, i minerali di ferro e il carbone sono state le materie prime per eccellenza tanto è che per il loro possesso questa vecchia Europa ha scatenato un paio di guerre mondiali. Ebbene io sono convinto che oggi non muoveremmo nemmeno dieci carri armati per appropriarci di una miniera di carbone o di minerali di ferro. Possedere un gran flusso di informazioni fa essere ricchi e potenti. Forse in questo senso si può parlare dell’informazione come della prima fra le materie prime oggi necessarie. Se così stanno le cose, ne discende che l’azienda produttrice di informazioni, commenti, cultura e spettacolo finisce per essere specialissima e su di essa si appunta non a caso l’attenzione interessata della classe politica, sia di quella di Governo sia di quella di opposizione. L’industria dell’etere, dunque, non è un’industria come tutte le altre. Le notizie, l’uso stesso della parola e del linguaggio nascono molto prima dell’industria perché la parola e il linguaggio sono lo strumento della civilizzazione degli uomini. Dietro l’informazione, dietro la notizia, dietro l’evento c’è la vita dell’umanità, c’è la storia dell’umanità, c’è il dramma esistenziale degli uomini, c’è il consenso o il dissenso politico, c’è il tipo di struttura politica della società. Proviamo a spingere ancora oltre il discorso. Si sente ripetere spesso che lo stato democratico deve garantire il pluralismo dell’informazione. una frase tanto rituale, tanto liturgica da apparire. ovvia e scontata. Io non la penso così. E’ il pluralismo a rendere democratico uno stato e non lo stato a fare pluralismo, anche perché potrebbero esserci interessi non sempre in sintonia con l’interesse superiore della collettività. Quando le opinioni si restringono, si aggrinziscono, si pilotano, si strumentalizzano, si appiattiscono o quando le notizie si manipolano dietro c’è uno stato sempre meno democratico, sempre meno partecipato, sempre meno consensuale e sempre più oligarchico, chiuso e settario. La merce informazione, la merce opinione, la merce commento non può essere soltanto una merce qualsiasi fabbricata da un’industria qualsiasi e governata dalle leggi talvolta anarchiche del mercato. Uno studioso canadese, Mc Luahn, ritiene che il potere stia nella proprietà della radio e della televisione. Se così fosse, non ritenete voi che un potere concentrato nelle mani di pochi, un potere oligarchico potrebbe esautorare la democraticità dello stato e il pluralismo sociale? E non credete invece che il pluralismo, cioè il possesso dei media da parte di tanta gente sia esso medesimo una garanzia di democraticità, di partecipazione del cittadino al governo di se stesso e della cosa pubblica? C’è chi sostiene che il potere della televisione consisterebbe non solo nel condizionamento dell’opinione pubblica, ma in qualcosa di ben più grande: la capacità di fabbricare la storia. L’affermazione è ardita ed io proverò a chiarirla con un esempio. Negli anni ‘70, la liturgia televisiva quotidiana portava nelle case americane gli orrori e le atrocità della guerra in Vietnam. Ebbene, è stato quantificato statisticamente che il ritiro militare degli Stati Uniti da quel paese è stato provocato per il 70% dall’impatto della televisione sulla psicologia del popolo americano. In questo senso la televisione non fa solo cronaca, ma fa o farebbe anche storia. Se i mass media, dunque, sono ciò che ho cercato di dire, se possono condizionare tanto incisivamente la società, il modo di vivere, di pensare, di sentire della gente, se possono concentrare nelle mani di pochi tanto potere di condizionamento, se essi, oltre che registrare la cronaca, fanno anche la storia, se essi sono la prima delle materie prime dell’epoca in cui viviamo, se, infine, essi hanno a che fare con la natura democratica dello stato, essi non possono essere considerati un’industria qualsiasi, né una merce qualsiasi. Devono obbedire a delle regole precise, delle regole nelle quali tutti si devono riconoscere; ecco perché, e concludo, secondo me, è meglio avere una legge, che disciplina le emissioni radio televisive, ancorché difettosa, ancorché migliorabile, rispetto al caos, al far-west dell’etere. Grazie.

S. Andreani:

Ringraziamo intanto subito il Direttore Generale per questa sua esposizione. Io inizierei con una domanda sul bilancio dell’azienda. Come intende affrontare la difficile situazione finanziaria della RAI il cui indebitamento raggiunge punte di 1.200 miliardi? E’ vero che intende tagliare soprattutto nelle spese eccessive delle reti televisive? In questo caso, lo spettacolo non verrebbe ad essere minimizzato, diminuito, rispetto alle esigenze del grande pubblico? In sostanza, il Direttore Generale preferisce una RAI in pareggio con basso ascolto o una RAI indebitata con un alto ascolto?

G. Pasquarelli:

Domande cattivelle, ma alle quali debbo rispondere. Dico subito che fra un’azienda indebitata, anche se in modo preoccupante e una RAI che registri una caduta in verticale dell’ascolto, io preferisco la RAI indebitata. Certo, l’indebitamento è consistente, ma da questo punto di vista l’economia aziendale della RAI ha una fisionomia schizofrenica. Un’azienda ha un conto economico vulnerabile, ma ha uno stato patrimoniale molto robusto. Questo ci dovrebbe consentire di alienare alcuni cespiti patrimoniali, in modo che l’indebitamento complessivo possa essere ridotto e possano quindi essere ridotti gli oneri finanziari relativi. Per quanto riguarda i tagli ai programmi, io ho dato la precedenza ai tagli che riguardano settori di spesa indirettamente produttivi. Farò un esempio: mentre il budget ‘90 ha registrato cifre sostanzialmente uguali rispetto all’89 per quanto riguarda le spese generali e la parte tecnica, il budget dei programmi ha registrato un incremento superiore di due punti al tasso di slittamento della moneta. Questo perché sono profondamente convinto che una RAI senza ascolto è una RAI morta, mentre una RAI indebitata è una RAI delicata, con qualche problema, ma risanabile perché lo stato patrimoniale della azienda è molto robusto.

S. Andreani:

(…). Si continua a dipingere il giornalista RAI, in generale, come un giornalista lottizzato, come un giornalista appartenente a un partito politico o a una corrente di partito e non viene messa in gran rilievo la professionalità che invece esiste all’interno dell’azienda. Perché, generalmente, un giornalista della carta stampata viene considerato di più dal punto di vista professionale rispetto al giornalista RAI? Che cosa intende fare il Direttore Generale per tutelare la professionalità dei giornalisti all’interno dell’azienda rispetto all’esterno?

G. Pasquarelli:

Se affermassi che nella RAI la politica e i partiti non mettono lo zampino e forse qualche volta anche una zampata, racconterei una sonora bugia e io le bugie non voglio dirle. Quindi il mondo della politica è presente in RAI. Detto questo però, pur nell’ambito di questa presenza, che io ritengo fisiologica a meno che non assuma carattere di prepotenza (prepotenza che peraltro non ho mai riscontrato) noi, e quando dico noi intendo il sottoscritto ma anche il Consiglio d’Amministrazione, abbiamo fatto di tutto per individuare i criteri di professionalità. Le nomine che sono state fatte (certo in questo mondo si può fare tutto meglio, ma si può fare anche tutto peggio) io credo che sostanzialmente rispondano ad un sano criterio di professionalità. Secondo me, il giornalista radio televisivo della RAI è più libero, ma deve essere anche più responsabile. Perché più libero? Pensate ad un giornalista della carta stampata. In Italia il potere editoriale è patologicamente concentrato e il giornalista della carta stampata scrive in un giornale dietro al quale c’è una proprietà economica e finanziaria. Ora, fino a quando le notizie, i commenti, non battono il muso, se così posso esprimermi, con gli interessi dei proprietari, egli è libero. Nel momento in cui le sue idee invece facessero a pugni con quegli interessi, la linea editoriale del giornale deve adattarsi alle esigenze dell’editore. I giornalisti della RAI sono più liberi perché non hanno un padrone con interessi economici, ma debbono essere più responsabili perché il nostro datore di lavoro siete voi che pagate il canone. Dal momento che il canone è una tassa, noi dobbiamo garantire che l’informazione sia pluralistica, veritiera, completa. Ecco perché noi abbiamo non solo un codice deontologico, quale quello che hanno tutti i giornalisti in Italia, ma ne abbiamo uno particolarissimo del quale il Direttore Generale è responsabile perché deve garantire di fronte al Parlamento, di fronte alla Commissione parlamentare, di fronte allo stesso Consiglio d’Amministrazione, l’imparzialità e la completezza dell’informazione.

Domanda:

Negli anni passati ho avuto l’impressione che l’informazione religiosa, attraverso la televisione, subisse una riduzione di tipo sentimentale, tanto che, ad esempio, sembrava che il pensiero del Papa anziché essere consequenziale e solido, fosse riducibile ad alcuni appelli riferiti a valori che comunque tutti riconoscono. Volevo chiederle se questa mia impressione è reale, se, secondo lei, è dovuta semplicemente al problema di mediare alle grande masse dei contenuti religiosi in un’epoca secolarizzata, o se invece è effettivamente possibile migliorare questo servizio in futuro. Grazie.

G. Pasquarelli:

Io la ringrazio moltissimo per questa domanda interessante e stimolante, anche perché la sento dentro. Quello che lei ha detto è vero. Prima che le ideologie facessero la fine che stanno facendo, prima che le utopie morissero o stessero morendo, come pare che accada, anche a nel mondo della RAI la presenza cattolica, la presenza della ispirazione cristiana era giudicata dai più, talvolta anche dai cattolici stessi, quasi la presenza di una sub cultura da ghettizzare, forse il portato di un vecchio potere, forse l’ultima manifestazione di una decadenza inesorabile. Nel mondo cattolico si aveva la sensazione di essere portatori di una hanno dimostrato che la cultura perdente. I fatti di questi ultimi mesi, dell’anno scorso hanno dimostrato che la nostra è una cultura vincente. La storia di questi tempi ci ha fatto toccare con mano che i nostri valori sono storicamente vincenti, quindi anche la televisione deve un po’ riconquistare l’ispirazione cristiana, non in chiave integralista, fondamentalista, ma riconquistando la consapevolezza di portare idee vincenti, idee che hanno il vento in poppa. Ecco, questo dobbiamo farlo. E se faremo questo, io sono convinto che anche quella sensazione giusta che tu hai provato potrà venire meno.

Prosegue il dibattito