Nuove forme di lavoro

Con il contributo di Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Milano

Mercoledì 27, ore 11.30

Relatori: Carlo Pelanda, Sergio D’Antoni,

Marco Martini, Professore di Economia Segretario Generale della CISL

Ordinario di Statistica Economica Internazionale presso l’Università

presso l’Università degli Studi della Georgia

di Milano.

 

 

 

 

Martini: La prima domanda che sta sotto qualsiasi trattazione del tema dell’occupazione e soprattutto della nuova futura occupazione, è molto semplice: la disoccupazione che oggi noi registriamo in Italia e in molti paesi europei – 12% in Italia, in Francia, in Germania – è qualcosa di inevitabile o no? Le evidenze empiriche dimostrano che non è affatto inevitabile. Paesi come il Regno Unito o l’Irlanda hanno dimostrato in questi stessi anni – gli stessi anni che noi stiamo vivendo così faticosamente dal punto di vista dell’occupazione – e in condizioni simili che si può raggiungere un tasso di disoccupazione frizionale del 5%. La disoccupazione dunque non è inevitabile.

Come seconda domanda, occorre chiedersi qual è la vera natura della disoccupazione. Purtroppo tutto il nostro apparato mentale e statistico parte dal presupposto che la disoccupazione sia l’effetto degli andamenti congiunturali dell’economia, ovvero quelle oscillazioni irreversibili dei prezzi e delle quantità domandate che comportano inevitabilmente oscillazioni anche dell’occupazione. Su questo fattore – che indubbiamente è presente – si sono concentrati tutti gli sforzi della modellistica e dell’analisi, per cercare di capire come curare una disoccupazione congiunturale. Grazie a questi sforzi, siamo ormai abbastanza attrezzati per curare una disoccupazione di tipo congiunturale – le politiche macroeconomiche –, ma la mia convinzione, confermata dai dati, è che la natura del problema occupazionale e della disoccupazione non è innanzitutto congiunturale ma strutturale. I cambiamenti strutturali sono cambiamenti che, a differenza di quelli congiunturali, sono irreversibili: sono quei cambiamenti che avvengono nella struttura economica e dai quali non si torna indietro. I prezzi o le quantità domandate possono salire e scendere, ma certi assetti di tipo tecnologico, di tipo organizzativo – dunque strutturali – una volta che sono stati acquisiti dal sistema non permettono più di tornare indietro. Stiamo vivendo in una fase in cui le trasformazioni strutturali del sistema avvengono con una velocità che è pari a quella delle trasformazioni congiunturali, laddove invece un tempo avvenivano nel corso di generazioni, di quaranta anni (la durata media della attività lavorativa della persona). Siamo infatti abituati a pensare le trasformazioni strutturali come trasformazioni del lungo periodo: oggi invece questo lungo periodo è diventato di due, tre anni.

Le trasformazioni strutturali cambiano la faccia di un sistema economico, cambiano le strutture dell’organizzazione, il modo di lavorare: sono le trasformazioni per cui gli agricoltori sono diventati operai e gli operai sono diventati impiegati. Questo significa che i lavoratori, le imprese e i sistemi devono supportare una esperienza prima mai prima sperimentata dall’umanità. Oggi un cambiamento analogo a quello che in Italia c’è stato dall’Italia contadina all’Italia operaia, e dall’Italia operaia all’Italia dei colletti bianchi, avviene nell’arco della vita lavorativa del singolo lavoratore.

Consapevoli dunque che siamo nel periodo dei cambiamenti strutturali, proviamo a chiederci come sta cambiando il lavoro in Italia, quali sono le caratteristiche di questo cambiamento e quali sono le conseguenze sui lavoratori, sulle imprese, sulle rappresentanze sindacali. Intervistando quest’anno (con il finanziamento dell’Unioncamere, della Comunità Economica Europea e del Ministero del Lavoro) un campione di 90.000 imprese – bisogna dunque tener presente che manca il settore della pubblica amministrazione e dei lavoratori dipendenti – e chiedendo loro quali sono le posizioni che nei prossimi due anni intendono coprire sul mercato del lavoro, ovvero quali saranno le figure professionali che interessano le imprese, si è riusciti a costruire una banca dati che riguarda circa 2 milioni di posizioni che nei prossimi due anni le imprese intendono coprire. Questa banca dati contiene notizie interessantissime, perché ci dice a cosa guardano le imprese, a quali dimensioni, a quali settori, a quali figure professionali e con quali caratteristiche. Vorrei brevemente sintetizzare ciò che è emerso da questa indagine.

Nei prossimi due anni saranno circa 2 milioni le posizioni che le imprese vogliono riempire. Due milioni è molto: questo significa che in Italia la mobilità c’è. Il numero delle entrate è superiore a quello delle uscite (previste solo in base ai pensionamenti): il che significa che la mobilità non è da lavoro a disoccupazione, ma è da lavoro a lavoro. Tuttavia, è evidente che in questo fenomeno di ricambio, di sostituzione di lavoratori, si prospettano cambiamenti strutturali enormi.

Dal punto di vista imprenditoriale, le regioni che presentano un saldo attivo e quelle che presentano un saldo positivo non sono quelle che noi ci aspetteremmo. Le regioni che presentano il saldo negativo sono il Piemonte, le zone del parastato, della grande impresa privata dipendente dall’aiuto statale. Le regioni che presentano invece tassi positivi sono, oltre il prevedibile Nord-Est, la Basilicata, l’Abruzzo, l’Umbria. Gli stereotipi che abbiamo in mente non sono dunque adeguati: il primo stereotipo è la differenza tra Nord e Sud. La cosa più interessante si scopre però osservando i cambiamenti dimensionali delle imprese: tutti i paesi occidentali hanno una mobilità intorno al 10%, ma l’Italia è un caso particolare, perché la gran parte della mobilità si concentra sulla piccola impresa. La grande impresa – quella di cui parlano i giornali sempre – presenta dei tassi di uscita, ovvero di espulsione o di pensionamento, del 7%, uguali a quelli della piccola impresa; invece i tassi di entrata della piccola impresa sono del 9%, mentre i tassi di entrata della grande impresa sono del 3%. C’è dunque una miopia dell’opinione corrente, secondo la quale c’è espulsione ma non c’è nuova immissione: può essere vero se si considera solo la grande impresa.

L’occupazione della grande impresa diminuisce e diminuirà sempre di più; la media impresa, che di fatto è il tessuto significativamente forte del nostro paese, ha tassi di entrate e uscite bassissimi e sostanzialmente in equilibrio. Questo significa che tutto il peso della mobilità è sopportato dalla piccola e piccolissima impresa

Attraverso questi movimenti avviene un cambiamento radicale: dal punto di vista settoriale, tutte le imprese grandi e piccole e medie si concentrano sul loro core business, sulla loro competenza specifica, e tendono ad affidare ad altri, più competenti di loro, tutto quello che è connesso a questa competenza: i servizi di pubblicità e marketing, i servizi informatici, i servizi amministrativi... Tutte queste attività, indispensabili per gestire una impresa, vengono affidate a piccole società molto competenti. Questa operazione è stata cominciata da tempo dalle grandi imprese, che stanno oggi facendo la medesima operazione anche per la produzione: oggi è possibile far produrre ciò di cui si ha bisogno da chiunque sia in grado di farlo, e si può controllare il sistema senza necessariamente avere sotto il proprio tetto tutte le fasi della produzione. Questo significa che la grande impresa industriale si sta riorganizzando: il fatto che espella lavoratori non significa che è in crisi, significa che si sta riorganizzando. È un bene espellere lavoratori, perché in questo modo l’impresa riesce a concentrarsi, abbandonando la vecchia struttura burocratica, modello della grande impresa e della pubblica amministrazione, assumendo invece un modello molto più agile e flessibile, un modello di unità tecniche autonome capaci di rispondere tempestivamente ai cambiamenti imprevedibili del sistema.

Un dato ancora più interessante è il fatto che soltanto il 25% delle posizioni che le imprese intendono assumere serve per sostituire posizioni di chi lascia il lavoro, il 75% è destinato a nuove figure, ad esempio l’operaio specializzato non deve fare quello che faceva l’operaio specializzato di prima, deve fare altre cose, anche se è ancora operaio specializzato. Le imprese chiamano i lavoratori ad affrontare nuovi compiti a tutti i livelli, e questa è una straordinaria trasformazione. Questi compiti nuovi sono quelli legati al nuovo: le macchine sono capacissime di fare compiti prevedibili e prescrittibili, ma ci sono moltissime cose che le macchine non sanno fare, ed è tutto ciò che ha a che fare con l’imprevisto, col nuovo, per esempio un incidente che avviene nel sistema e che la macchina non aveva previsto, o il bisogno dell’altro che deve essere scoperto perché è sempre nuovo. Il marketing, la progettazione, la ricerca e lo sviluppo, i servizi alle persone crescono perché il bisogno è sempre nuovo. Il lavoro assume la forma di un impegno a trovare nuove risposte a nuovi problemi: le imprese hanno bisogno a tutti i livelli, a tutte le competenze, di gente che è disposta a correre il rischio di cercare nuove soluzioni a nuovi problemi.

Quali sono dunque le conseguenze di questa trasformazione sulle imprese, sui lavoratori e sulle rappresentanze? Un dato chiarissimo è che le imprese hanno un orizzonte previsivo che si è accorciato moltissimo: prima un’impresa poteva anche prevedere come sarebbero andati gli affari e la situazione economica nel giro di cinque anni – la programmazione quinquennale inventata dalle grandi imprese industriali e applicata da Stalin a tutto il sistema economico –, oggi nessuna impresa ha un orizzonte previsivo che vada al di là dei due o tre anni, peraltro faticosamente. L’orizzonte previsivo in un contesto di mercato e di tecnologie così mutevole si è accorciato, e per questo le imprese hanno bisogno di persone che vadano verso l’orizzonte imprenditoriale per scoprire che l’orizzonte si è spostato. Hanno bisogno di gente che partecipi ad una avventura, non di gente che compia disciplinatamente compiti previsti e prescritti.

È interessante osservare che per il 35% di queste posizioni le imprese denunciano difficoltà di reperimento. C’è anche un problema di formazione e di costi legati alla formazione: le imprese che assumono – le piccole e medie imprese – vogliono gente formata, altrimenti non potrebbero assumersi i costi della formazione –; le imprese che hanno strutture formative – le grandi imprese – non assumono. Questo è il paradosso: c’è un sistema formativo di base e di formazione professionale che è stato pensato per la grande impresa, in funzione del lavoratore che entra nell’impresa, affronta la sua carriera deterministica di trentacinque anni con gli scatti di carriera, e che quindi deve avere all’inizio un supporto formativo. Tutto questo non funziona più, e si traduce in tensioni salariali, perché è chiaro che la piccola impresa che deve trovare il lavoratore già formato deve offrirgli un salario più alto del normale, e questo crea tensione salariale e difficoltà di adeguamento tra domanda e offerta.

Per il lavoratore la conseguenza è ancora più evidente: lavorare non può più essere pensato come intraprendere una carriera deterministica tra posti previsti, ma deve essere pensato come un percorso probabilistico tra occasioni. Occasioni che non si possono prevedere all’inizio ma che si profilano man mano che la strada procede. Questo è un modo di concepire il lavoro assolutamente estraneo alla nostra cultura che invece è stata abituata a pensare il lavoro come il trovare il posto sicuro dove il salario, la sicurezza del lavoro e la pensione sono una sorta di diritto. Questo non c’è più!

Ciò significa che nella vita lavorativa, la persona il primo anno lavora in una impresa, dopo si stacca e fa per due anni una piccola società con due amici, poi rientra in un’altra impresa di un altro settore e fa il doppio lavoro, intanto prepara un’altra occasione... questa dinamica non è l’eccezione, è la regola. L’eccezione è il lavoro stabile e fisso della pubblica amministrazione e delle grandi burocrazie. Il lavoro atipico è la forma normale di lavoro del futuro. Quello che noi chiamiamo atipico è il lavoro che non è full-time, che non è a tempo indeterminato e che non è nella grande impresa. Il lavoro cui manca una di queste tre condizioni è il lavoro normale.

Da questo contesto, il grande problema che nasce è quello della rappresentanza. Il sindacato è nato all’interno della grande impresa, ed è presente nelle imprese in generale sottoposte allo Statuto dei lavoratori, con più di 15 dipendenti. Dei potenziali 10 milioni di lavoratori il sindacato ne controlla quattro: gli altri sei non li vede nemmeno. Ma se guardiamo la cosa dal punto di vista dinamico è ancora peggio. Dei due milioni di lavoratori che nei prossimi due anni entreranno e usciranno, i lavoratori nel momento critico, il sindacato ne vede il 10%, vede quelli che passano per le grandi, medie imprese dove normalmente è presente.

Credo che questo spieghi la naturale tendenza del sindacato e della Confindustria a difendere quello che hanno: tanti pensionati, i lavoratori del pubblico impiego, i lavoratori della grande impresa protetta italiana. Un sindacato che non si accorga di questo paradosso è un sindacato destinato a rappresentare i morti, un sindacato che permanga in questa posizione è destinato, come molti fatti dimostrano, ad allearsi con la Confindustria per difendere i propri privilegi nella distribuzione dei fondi per i fondi pensione, o per contribuire alla politica economica generale, che peraltro è sempre meno capace di incidere su questo aspetto dinamico del lavoro.

È possibile modificare la posizione del sindacato? Bisogna trovare nuove forme di tutela del lavoro: è chiaro che il lavoro deve essere tutelato, il lavoratore non può essere lasciato da solo, e queste tutele non sono dinamiche basate sulla difesa del posto, ma una serie di infrastrutture di supporto al percorso probabilistico, supporto informativo, supporto formativo, supporto assicurativo. Da chi verranno queste nuove cose? Non possono venire dalla burocrazia, dagli uffici di collocamento del Ministero del Lavoro: è la grande sfida per il sindacato oggi, ed è significativo che questa sfida venga affrontata dalla CISL insieme alla Compagnia delle Opere.

 

 

Pelanda: Proprio un mese fa nella mia università in Georgia, al di là dell’oceano, ero impegnato in un comitato di valutazione del primo programma triennale per il sostegno informativo alle nuove forme di lavoro. Tre anni fa infatti la mia università aveva deciso di sperimentare le nuove forme di garanzie, le garanzie dinamiche, sostitutive delle garanzie passive come l’assistenzialismo. L’ipotesi era quella che dando ad ogni persona in casa di mattina uno schermo computer dove poteva vedere la domanda e l’offerta di lavoro, l’informazione avrebbe aiutato il circuito e compensato l’instabilità del lavoro stesso. Ai soggetti che lo chiedevano, veniva poi simulata nel circuito informatico una lettura velocissima di ciò che offriva il mercato. Il programma è andato bene: 100.000 persone sono state messe in rete in uno Stato che ha ancora molte sacche di povertà, molte aree etniche assolutamente svantaggiate, e molte persone hanno migliorato moltissimo le loro posizioni economiche attraverso questo tipo di assistenza informativa. L’università, che ha portato avanti questo progetto con i suoi investimenti, lo mette adesso in vendita ad una cifra simbolica ad un sistema di imprese private perché lo gestiscano in maniera più efficiente. Questo programma ha funzionato perché educa le persone a gestire una rete informatica, perché fa risparmiare dei costi, perché è più veloce e dinamico.

Vi sono dunque delle esperienze dove è già messo in atto positivamente quello che qui in Italia sarebbe concepito come la sostituzione di forme di tutela e di garanzia del lavoro, come quelle sindacali o l’assistenzialismo, le cosiddette garanzie passive. È un esempio che certifica quello che già è stato detto.

Il cambiamento in Italia è molto veloce: quando cambiano le cose così velocemente bisogna avere un spirito da bucanieri, muoversi più avanti del mercato ma agire anche con molta prudenza. L’evoluzione del mercato globale comporta una ridefinizione delle garanzie: il mercato globale non ha bisogno del liberismo selvaggio, il mercato ha bisogno di garanzie, non quelle vecchie, ma nuove garanzie. Il mercato globale oggi ha bisogno che la gente sia più ricca e diventi sempre più ricca: il terrore del mercato è proprio che questa enorme crescita globale si rallenti, fermando la ricchezza e il capitalismo di massa. Questo cambia anche alcuni termini filosofici che hanno caratterizzato in Europa il dibattito tra destra e sinistra o la contrapposizione tra liberismo e statalismo.

Per questo, i sindacati con una forte vocazione politica appartengono al passato: siamo già oltre, come dimostrano i fatti. Se si guarda all’economia nel mondo, dappertutto c’è una crescita incredibile, c’è lavoro a iosa, aumentano i redditi: paesi che i nostri libri definiscono ancora sottosviluppati stanno costruendo grattacieli alti 600 e 1.000 metri, dando lavoro a tutti: c’è una capitalizzazione di massa. Gli unici luoghi in cui questo non avviene sono i paesi appartenenti all’Islam, per via di problemi culturali, la Russia perché è ancora troppo disordinata e il capitale privato non ha incentivi, e l’Europa occidentale. L’Europa è il disastro economico del mondo: l’Europa occidentale è un ambiente molto capitalizzato, ma non riesce a produrre tutto il profitto e la ricchezza che potrebbe perché la politica, le regole, le tutele sono inefficienti, non permettono alla gente di diventare ricca. Il capitalismo, la ricchezza è una sorta di ossessione di carattere etico, perché si pensa che sacrifichi la dignità umana.

Invece, il mercato vuole occupati che abbiano soldi in tasca, che si divertano e che siano ottimisti: l’ottimismo è alla base della crescita. I miei maestri quando mi insegnavano economia, dicevano che i modelli devono essere fatti, perché costituiscono la parte tecnica dell’economia, ma nella sostanza l’economia si basa su due fattori: psicologia ottimista e senso della crescita. Questo è sempre più vero, dato che – come già si diceva – i modelli ormai non tengono, non si riesce più a chiudere il dato economico, perché la quantità di sorprese e di aleatorietà nel mercato è tale per cui qualsiasi previsione viene falsificata. Si possono fare delle previsioni sul piano finanziario: ma questa si chiama pianificazione per obiettivi, non più previsione o profezia.

Da che cosa è rappresentato in sintesi il grande cambiamento in atto? Dal fatto che il capitale è cresciuto di volume ed ha la libertà di circolazione internazionale: questo è l’evento più importante, collegato alla rivoluzione tecnologica che permette al capitale di muoversi liberamente nel mondo sul piano tecnico. È il meccanismo che viene chiamato globalizzazione: in realtà non esiste ancora un mercato globale, esiste un suo piccolo preliminare che si chiama mobilità internazionale del capitale. Questo è importante perché implica che non esiste più la sovranità economica degli Stati: fino a quindici anni fa il capitale circolava nelle singole nazioni e di conseguenza le nazioni erano sovrane economicamente, facevano una politica di bilancio e potevano decidere alcune dimensioni economiche. Questo oggi non succede più perché il capitale è sovrano: nessuna nazione ha più la possibilità di offrire garanzie ai propri cittadini che vadano contro i requisiti di profitto del capitale. Gli Stati fanno i bilanci, ma non fanno più le politiche economiche.

Il fatto positivo è che nascono nuovi imprenditori, c’è molta attività, ci sono spazi di mercato, la gente lavora di più, ha più soldi e spende di più. Questo crea nuove opportunità: gli imprenditori emergono, le tecnologie producono ogni giorno almeno una decina di nuove categorie tecnologiche, merceologiche o di mercato (non in Europa, purtroppo).

Se si accetta il fatto che c’è la libertà di circolazione internazionale del capitale, deve cambiare di conseguenza il concetto di garanzia che apparteneva al mondo in cui gli Stati nazionali potevano governare di più e con criterio più politico, autonomo, autarchico, la loro economia.

Non si può tentare una previsione sulle nuove forme di lavoro in dettaglio: quello che noi tutti dobbiamo capire è il fatto che il mercato è fonte di ricchezza, che si devono dare delle garanzie, che queste garanzie non possono essere redistributive, devono essere informative, educative, devono costruire un valore di mercato dell’individuo; ci devono anche essere nuove forme di rassicurazione dei singoli individui. Il profitto vuole che tutti lavorino e che tutti diventino sempre più ricchi e facciano circolare più velocemente il capitale. Questo ha un impatto enorme sugli stati intesi come produttori di regole: chi non riesce a fare in tempo questa riforma delle regole, questa trasformazione delle garanzie passive in garanzie attive, chi non entra nell’investimento dell’individuo, chi in pratica non smobilizza velocemente il vecchio stato sociale per passare allo stato della crescita, resterà indietro nella competizione, le alte tasse impediranno al capitale di venire nei territori, gli imprenditori andranno via, la disoccupazione aumenterà o l’occupazione sarà poco remunerativa come sta accadendo in Italia, in Francia e in Germania.

Al problema – che mi sembra abbastanza semplice – può rispondere solo la politica: più il mercato è importante e più la politica diventa drammaticamente importante. Non è più un problema di destre o sinistre, è un problema di scelta tra passato e futuro.

 

 

D’Antoni: Vorrei innanzitutto fare delle valutazioni rispetto a quanto è stato detto.

La prima: il cambiamento è forte, siamo immersi in una fase di grande cambiamento, il problema è che in queste condizioni dobbiamo cambiare tutto. Se il cambiamento è così forte ogni soggetto individuale o collettivo deve cambiare per cercare di governare il cambiamento e per far produrre al cambiamento effetti positivi. In genere, tutti sono bravi nel nostro paese a fare la predica sul cambiamento degli altri, mai ad indicare il proprio cambiamento, che è invece ciò da cui bisogna partire. Pochi spiegano che cosa deve cambiare in sé, che è invece il metodo principale per favorire il cambiamento.

Seconda questione: noi sindacati, la CISL nel mio caso particolare, siamo consapevoli di dover fare un grande cambiamento se vogliamo continuare a rappresentare valori, interessi, capacità di incidenza. Dobbiamo cambiarci per cambiare. Per fare questo abbiamo bisogno di una impostazione generale che favorisca questo tipo di andamento, il che significa avere una visione positiva della globalizzazione. I pessimisti vanno sconfitti, perché portare una visione apocalittica, catastrofica di quello che avverrà è il modo sbagliato per affrontare le questioni.

La globalizzazione comporta un cambiamento radicale ma ha tanti rischi e tante opportunità. L’opportunità anzitutto di far cambiare tanti paesi, di far conoscere lo sviluppo a miliardi di persone che non lo hanno conosciuto, e quindi di aprire una fase veramente nuova nel mondo. Tutto questo produce anche degli effetti positivi sulla parte sviluppata del mondo; il fatto che i paesi sottosviluppati conoscano lo sviluppo è positivo per una ragione utilitaristica, perché conoscere lo sviluppo significa aprire i mercati, significa consumare, e consumare significa dare la possibilità a chi produce di vendere. Si apre dunque una fase totalmente nuova, e per questo bisogna trovare nuove garanzie, quelle vecchie e tradizionali non bastano più. Lo sviluppo da solo infatti non ce la fa a distribuire più equamente la nuova ricchezza prodotta: aumenterebbe il numero degli esclusi, di coloro che non partecipano alla distribuzione della ricchezza.

Il nuovo modello deve individuare le garanzie: è vero, come ha detto il professor Pelanda, che ora ci vuole la politica, perché questo può contribuire ad evitare che ci sia una dispersione diversa, però ci vuole anche una nuova società. O la società è protagonista di questi fenomeni di cambiamento, e fa in modo che essi producano un effetto positivo nella distribuzione del lavoro e della ricchezza, oppure lo Stato da solo non ce la farà, e non facendocela aumenterà la disuguaglianza, i ricchi diventeranno più ricchi e i poveri diventeranno più poveri. Questa è la condizione per cui noi dobbiamo cambiare: la società deve essere protagonista anzitutto nella distribuzione e nella capacità di creare lavoro. Dobbiamo fare i conti con la realtà, e la realtà è quella che ha descritto Martini, non quella che ci viene descritta in termini catastrofici: la realtà è quella di una forte mobilità, della differenza tra grande e piccola impresa. Se c’è una realtà in grande evoluzione, essa ha bisogno di essere governata: cambiano le priorità, e le priorità cambiano in rapporto alle condizioni reali, non alle condizioni supposte.

L’Italia ha raggiunto livelli di eccellenza in molti settori e in molte zone, ed ha raggiunto invece situazioni pesanti in altre: dobbiamo fare i conti con la realtà del Nord che ha un tasso di disoccupazione del 3% (meglio degli Stati Uniti) e alcune zone del Sud in cui c’è il 30% di disoccupazione. Se la politica è uguale, come si spiega questa differenza? Si spiega perché si sono create le condizioni che hanno prodotto tutto questo: per difendere il 3% non si può, come vorrebbe qualcuno, separarlo, l’unica maniera vera per difendere il 3% è affrontare il 30% e dargli una risposta adeguata. La politica assistenziale nel Mezzogiorno finisce per premiare solo le posizioni, egoistiche e separatistiche presenti nelle zone sviluppate. Non si possono fare politiche uguali per punti di partenza disuguali, si deve affrontare questa situazione, selezionare gli interventi fiscali, salariali, di mercato del lavoro in rapporto alla condizione di disoccupazione. La politica uguale per punti di partenza disuguali allunga le distanze e determina la condizione che ha descritto Martini.

Su questo argomento si inserisce la grande questione più volte citata, la sfida ai sindacati di trovare nuove forme di garanzia. Chi deve dare queste forme di garanzia – informazione, formazione, gestione del mercato del lavoro –? Questa è la fase in cui lo Stato deve ritirarsi da questi settori e affidarli alla società, alla società organizzata, alla società che lo può fare, che può interpretare i bisogni e fornire le garanzie ai lavoratori. In questo senso è importante il sindacato, che vuole difendere in maniera adeguata il lavoro tradizionale, e intercettare il lavoro nuovo. Qui c’è la sfida: una sfida non giuridica, non si può subito parlare – come ha fatto la CGIL – di un nuovo statuto dei lavori. Una legge che ingabbia di nuovo tutto sarebbe un errore micidiale. Quello che deve nascere è una cultura dei nuovi lavori, una cultura che produce regole che alla fine possano diventare testi legislativi: se la legge partisse al contrario, se immettesse subito le norme, non potremmo cogliere la vastità e la forza di questo fenomeno.

L’esperienza dell’impresa sociale che ha fatto la Compagnia delle Opere e la nostra esperienza di grande sindacato ricco di tradizioni mostrano in concreto come si conciliano le due esigenze: far andar bene l’impresa sociale, in termini di salario e di previdenza, ed insieme fare un progetto che sia valido per rappresentare e tutelare i lavoratori. Non è una sfida da poco, è una grande sfida, che ha già registrato una involuzione pesante nelle posizioni delle altri organizzazioni sindacali che da una parte reclamano una nuova legge e dall’altra attaccano i soci delle coperative. Il problema della CISL non è quello di difendere le cose come stanno, ma quello di trovare delle forme di flessibilità contrattata affinché la gente non si convinca che può farcela da sola. Non bisogna lasciare mai nessuno solo, e questo è possibile grazie a grandi organizzazioni capaci di rappresentare l’individuo e di tenerlo alto.

Il dibattito sullo stato sociale può sembrare vecchio, ma sarebbe un grande errore se nella conquista di nuovi livelli di tutela di garanzia non si pensasse a tutelare chi c’è già, sebbene in maniera dinamica e non più rigida: noi siamo il sindacato che più di tutti ha rappresentato questo in questi anni, più di tutti ha fatto una operazione dinamica, e se il sindacato in Italia è forte ed è capace è perché ha capito che doveva rinnovarsi. Il nostro sindacato non ha mai preso una posizione massimalista, ha invece capovolto la politica salariale, ha tutelato in maniera diversa il lavoro. Questa posizione è frutto di scelte: abbiamo capito che andava impostata una politica salariale diversa.

È fondamentale – anche questo è già stato detto – una visione positiva e ottimista come quella rappresentata da questo incontro: la sindrome della negatività non produce nulla, e neppure il silenzio assoluto che c’è su queste tematiche. In questo momento sui fenomeni della globalizzazione non c’è nessun dibattito culturale, mentre invece la trasformazione della società da contadina ad industriale innescò in termini culturali, di scienze, di arte, di architettura, un dibattito fecondo ed interessantissimo. L’unica autorità mondiale che dice delle parole forti su questo terreno è Papa Woytjla, che afferma con chiarezza la necessità che in questi grandi cambiamenti nessuno resti ai bordi delle strade.