Mercoledì 23 agosto, ore 15

PROUDHON E L'IMPERFEZIONE DELLA POLITICA

Incontro con Luciano Pellicani

Modera:

Alberto Savorana.

A. Savorana:

C'è un grande teologo cattolico, forse il più grande della nostra epoca, Henri De Lubac, che ha dedicato un interessante e ponderoso studio alla figura di Proudhon che oggi è al centro di questa comunicazione al Meeting di Rimini; nel presentare la figura di questo utopista, che abbiamo tutti quanti studiato sui manuali della scuola, ha scritto che "ogni fine della storia, ogni stato definitivo di perfezione ideale che farebbe di noi degli dei sembrerebbe a Proudhon pura utopia e se ha rinunciato alla speranza religiosa non è per sognare un paradiso in un avvenire temporale. Diretta inizialmente contro il ciclo delle religioni, la critica di Proudhon finisce per colpire ogni messianismo terreno". Io credo che questa frase possa introdurci alle parole che ascolteremo oggi al Meeting sul paradosso, e perché no, anche sul paradosso della politica e di quella che nel titolo abbiamo indicato come l'imperfezione della politica, vale a dire quella idea non utopica di una azione dell'uomo nell'esercizio del potere. Perché questa è la politica che si attua senza sognare, senza promettere il paradiso in terra e, quindi, nella consapevolezza dei limiti della politica stessa. Qualche tempo fa, ha contribuito a porre il tema dell'imperfezione della politica attraverso una rilettura della figura di Proudhon proprio il segretario del Partito socialista Craxi che, in un suo saggio, ha analizzato e affrontato questo tema. Oggi Luciano Pellicani, docente di Sociologia alla Libera Università di Scienze sociali a Roma, direttore di quella importante rivista che è "Mondo Operaio", membro della direzione socialista, ci aiuterà ad approfondire e riprendere questo tema.

L. Pellicani:

L'idea della azione politica che si trova nelle opere di Proudhon ne fa, effettivamente, l'anti-Marx (…). Il suo pensiero profondo è infatti, sostanzialmente, un pensiero che potremmo definire liberal-socialista; e proprio questo fa sì che Proudhon si presenta nell'ambito del socialismo ottocentesco, prima della conquista dell'egemonia da parte del marxismo sulla sinistra e sul movimento operaio socialista ottocentesco, come l'anti-Marx. Lo stesso Marx, dopo aver risposto violentemente con il famoso pamphlet Miserie della filosofia al libro di Proudhon che portava il sottotitolo Filosofia della miseria, rimase per tutta la vita con la coscienza di non aver replicato in maniera adeguata alle obiezioni puntuali che Proudhon aveva rivolto all'idea comunista; si può dire che Marx sia rimasto ossessionato dalla presenza di Proudhon per tutta la sua vita (…). L'idea che si trova in Proudhon della politica è antitetica a quella di Marx, in questo senso: in Marx c'è la convinzione che la politica possa tutto, che la politica sia in grado di trasformare, trasfigurare l'intera società, creare un prima e un dopo nella storia della umanità: la preistoria, che termina con la rivoluzione e la storia vera e propria, che inizia dopo. La politica rivoluzionaria è da Marx intesa come cesura epocale, che pone fine al regno dell'alienazione e da inizio alla fase della realizzazione della umanità. Marx, nel discorso dell'Aia del 1870, afferma che l'obiettivo del movimento operaio socialista è quello di realizzare il paradiso in terra, la società perfetta, una società nella quale non ci siano più lotte, conflitti, ingiustizie, sfruttamenti e dove la stessa insignificanza della vita umana, gli stessi interrogativi sul senso della vita, spariscano (…). È chiaro che, all'interno di questa visione del socialismo, la politica diventa onnipotente, ciò che ha la capacità di mutare la natura umana, di uccidere il vecchio Adamo, come si esprimerà poi Lukács, e far sorgere l'uomo nuovo. In un certo senso possiamo dire che l'obiettivo finale del marxismo è quello di dare quello che il cristianesimo ha promesso e non ha realizzato, ma darlo sulla terra. Da questo punto di vista aveva ragione Blok, quando diceva che la meta finale del comunismo è un regno di Dio senza Dio, un regno nel quale l'uomo è riuscito a diventare egli stesso dio (…). Si capisce anche, stando così le cose, perché il marxismo abbia annunciato la fine della religione. Il comunismo eliminerà la religione, non già perseguiterà coloro che credono - questa è una versione volgare e che comunque non ha niente a che vedere con gli scritti di Marx e Engels - ma eliminando le radici della religione renderà la religione superflua. In Proudhon c'è invece una concezione della politica diametralmente opposta a questa di Marx: c'è, innanzitutto, la convinzione che la politica non è tutto (...). Esiste una lettura secondo la quale Proudhon addirittura auspicava una società senza politica, una società senza autorità, una società anarchica (…). Negli scritti di Proudhon si trova la distinzione fra anarchia positiva e anarchia negativa: egli intende, per anarchia negativa, il disordine, il caos, la guerra di tutti contro tutti, e con anarchia positiva, che egli auspica, non una società senza il principio di autorità, senza politica, senza conflitti, ma un tipo di società caratterizzato da una molteplicità di organizzazioni di base che, consensualmente si associno e che risolvano i loro problemi, economici, politici, sociali, attraverso un dibattito che non può mai cessare. Proudhon, criticando Engels, dice: "Ma la dialettica non ha mai fine". Per dialettica nel caso specifico, intende il conflitto, il contrasto, la lacerazione, l'opposizione. Egli addirittura arriverà ad enfatizzare gli aspetti positivi della guerra, come la manifestazione più acuta della conflittualità esistente fra gli uomini. (…) Guai, dice Proudhon, se arrivassimo a un tipo di società dove non ci fossero più contraddizioni, non ci fossero più conflitti, in cui tutti gli esseri fossero soddisfatti: verrebbe a mancare l'attenzione verso soluzioni migliori, l'attenzione verso il perfezionamento continuo della società. Proudhon, quindi, è senz'altro un critico del perfettismo, un critico del messianismo rivoluzionario, vale a dire dell'idea che qui ed ora, sulla terra, sia possibile trovare una organizzazione sociale tale per cui tutte le imperfezioni della condizione umana e tutte le imperfezioni della vita in comune siano, quasi magicamente, eliminate. Da questo punto di vista, Proudhon è senz'altro assai poco utopista. È molto più utopista Marx, proprio perché la meta finale di Proudhon e il modello di società che aveva in mente, tutto sommato, era un modello abbastanza realistico, che si basava su due idee fondamentali: 1) il mutualismo e l'autogestione 2) l'idea del federalismo. Il mutualismo di Proudhon è sostanzialmente l'autogestione, o un tipo di impresa nella quale non c'è più la distinzione fra il datore di lavoro e il lavoratore, bensì la comunità dei lavoratori e dei proprietari. È però un tipo di economia che opera secondo le leggi del mercato. È una cosa molto interessante notare che, negli scritti di Proudhon, per quanto in maniera rapsodica, telegrafica, talvolta, c'è una critica della razionalità dell'economia collettivista, dell'economia statalizzata, integralmente statalizzata. (…) Proudhon, dopo aver fatto una critica molto severa della società capitalistica borghese, dopo aver condannato la stessa idea di proprietà privata o quanto meno la proprietà privata capitalistica - "la proprietà è un furto" - si pone l'interrogativo: "Ma quale sarà la organizzazione sociale che dovrà succedere alla organizzazione capitalistico-borghese?" Per capire la risposta bisogna tener presente la differenza da Marx, il quale è convinto di aver individuato le leggi necessitanti che porteranno ineluttabilmente l'umanità verso la società comunista, è convinto, in altre parole che la storia abbia un fine, una meta già precostituita, per così dire, e che spetti al filosofo dialettico il compito di individuare la meta finale, e far vedere come sia l'approdo necessario della storia universale. Proudhon invece non crede assolutamente nella necessità storica, crede anzi che il futuro è problematico, in quanto può assumere configurazioni diverse e che molto dipenderà dalla azione dell'uomo, in definitiva, dalla politica. Quindi, non è che Proudhon arrivi a svalutare completamente, totalmente, la politica, relegandola nel novero delle attività inessenziali, non decisive della società. Proudhon capisce che l'istituzione motrice dell'economia, ciò che rende possibile la stessa idea di economia, è proprio il mercato. E allora si capisce che quando Marx legge La filosofia della miseria di Proudhon, trovando questa critica distruttiva dell'economia collettivistica, vedendo che Proudhon colpisce al cuore l'idea comunista, è preso da un raptus isterico. La miseria della filosofia è un pamphlet violentissimo, pieno di insulti personali a Proudhon (…). L'altra cosa che fa montare su tutte le furie Marx è la critica proudhoniana del giacobismo, che è una critica del rivoluzionalismo. Marx, nei confronti dei giacobini, ha un atteggiamento sostanzialmente ambivalente: per certi versi li critica molto, per altri versi ne è un continuatore. Per esempio, troviamo che una delle idee fondamentali di Marx, la rivoluzione o il comunismo come realizzazione della filosofia, si trova esattamente nel carnet di Robespierre, come pure l'idea di rivoluzione permanente. In un certo senso, Marx si trova nei confronti della tradizione giacobina con una posizione un po’ ambigua, da una parte è critico, dall'altra parte ne è il continuatore storico. Ma, soprattutto, Marx è il continuatore storico dell'idea fondamentale che anima tutta la tradizione giacobina, l'idea cioè che l'azione rivoluzionaria abbia come meta la società perfetta, il regno della virtù di cui parla Robespierre, la società dell'armonia (…). E anche qui l'opposizione con Proudhon è netta, perché Proudhon ritiene l'idea di una società armoniosa, pura utopia, non solo nel senso di cosa irrealizzabile, ma anche perché cercare di realizzare un tale ideale, significa imboccare una strada che porta verso la regressione storica, non già verso il progresso. Proudhon immaginava che tutti i tentativi rivolti a realizzare il principio dell'armonia avrebbero prodotto come conseguenza uno stato burocratico (…). Proudhon definisce il comunismo come una società irregimentata, in cui prevale sostanzialmente il principio della onnipotenza della politica, dove non c'è più distinzione tra società civile e stato. Questa distinzione, fondamentale per la civiltà occidentale, è molto probabilmente la ragione principale della sua straordinaria creatività. Con la società comunista sparisce, perché lo stato - dice Proudhon - si impossessa di tutti i mezzi di produzione, si impossessa di tutte le risorse economiche, diventa l'unico datore di lavoro e crea una burocrazia enorme, gigantesca, immane (…). Si capisce allora perché Marx veda sostanzialmente in Proudhon l'antagonista principale (…). Proudhon fa una distinzione molto netta fra politica e teologia. Dice Proudhon nei suoi Carnét: "Ma perché fino ad oggi tutte le nostre dispute politiche - si riferisce alle dispute all'interno della sinistra dell'epoca - hanno assunto e tendono ad assumere un significato teologico?" La risposta è che si è attribuito alla politica un significato teologico, si è vista, nell'attività politica, la prassi che dovrà soddisfare il bisogno di assoluto dell'uomo. Questa è un'idea insensata, ed è l'idea che troviamo invece in Marx (…). Allora, per concludere, possiamo dire che dopo decenni di esperimenti comunisti, che hanno prodotto risultati che sono sotto lo sguardo di tutti, possiamo dire che bisogna tornare a Proudhon, o comunque a quei pensatori liberali, cattolici, socialisti, che hanno avuto una concezione limitata della politica. Badate, qui non si tratta di sostenere una tesi secondo cui la politica è un danno, un male (…). Tra questo estremismo liberista, e l'estremismo totalitario, l'estremismo che pretende che la politica sia in grado di risolvere anche i problemi che non sono politici, c'è una posizione intermedia, che è rappresentata da tanti pensatori e da tanti movimenti politico-culturali del nostro tempo, una posizione intermedia che attribuisce alla politica un ruolo importante, ma limitato, come tutte le cose umane, d'altra parte (…).

A. Savorana:

Ringrazio il professor Pellicani per questo suo contributo. Vorrei però abusare ancora un attimo della sua e della vostra pazienza per chiedergli un ulteriore approfondimento. Il Cardinale Ratzinger, Prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede, nel suo libro Chiesa, ecumenismo e politica ha scritto: "La verità è che la moralità politica consiste precisamente nella resistenza alla seduzione delle grandi parole con cui ci si fa gioco dell'umanità, dell'uomo e delle sue possibilità. Non l'assenza di ogni compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale dell'attività politica". Mi piacerebbe una impressione di Pellicani a questa considerazione.

L. Pellicani:

Brevemente, si potrebbe dire che per usare, appunto, la terminologia adoperata da Ratzinger, l'idea che attraversa la tradizione rivoluzionaria è che bisogna arrivare ad una situazione in cui non ci sia più bisogno di compromesso (…). Ma per realizzare un ordine sociale nel quale non ci sia posto per i compromessi, perché tutti i problemi sono stati risolti, per raggiungere quella meta bisogna, per forza di cose, trasformare l'arena politica in una arena militare, e bisogna, per forza di cose, trasformare tutti coloro che non la pensano così in nemici da eliminare (…). Da questo punto di vista si può dire che senz'altro il cuore morale della politica è il compromesso (…).

A. Savorana:

L'ultima curiosità: cosa, in questo recente scritto di Craxi su Proudhon, ha infastidito di più un certo mondo cultural-politico d'Italia?

L. Pellicani:

Il fastidio è nato per tante ragioni, la prima è stata di carattere immediatamente politico, perché fu interpretato quell'intervento come un no al compromesso storico. Inoltre ciò che infastidì molto gli intellettuali fu che l'intelligenza di sinistra, all'epoca filocomunista, considerava culturalmente ormai superate, storicamente superate, idee che venivano riproposte nella loro attualità. Erano gli anni in cui se non manifestava un atteggiamento di rispetto, quanto meno nei confronti di Gramsci, uno non poteva avere diritto ad essere considerato un intellettuale democratico. Non va dimenticato che una delle ragioni, e non certo fra le più piccole, del successo della cultura comunista, è stato il fatto che la cultura comunista ha attivato, ingigantito il senso di colpa, dando ad un tempo la possibilità di lenirlo. Il senso di colpa derivava dal fatto che la società è divisa fra privilegiati e non privilegiati. Tutti coloro che, in qualche maniera, si considerano o sono dei privilegiati, hanno un senso di colpa. Gli intellettuali sono indubbiamente fra le categorie più privilegiate della nostra società, non perché siano fra le più ricche, ma perché svolgono una attività che è di grande privilegio. Il comunismo ha avuto successo fra gli intellettuali, perché ha attivato questo senso di colpa e nello stesso tempo lo ha placato. Bastava militare, ripeto, o essere molto vicini alla idea comunista perché questo senso di colpa si placasse. Erano dei comunisti, o erano convinti di stare già a sinistra, quando sono stati aggrediti dalla contestazione studentesca, sono stati sconvolti: alcuni di questi mi hanno confessato che non hanno dormito per alcune notti. Quindi si sono posti la domanda: "Come si fa a vivere ora con questo senso di colpa?" E alcuni hanno risposto a questa situazione penosa da un punto di vista psicologico, spostandosi ancora più a sinistra, facevano adottare Marcuse come libro di testo, Mao Tze-tung, Che Guevara e cose di questo genere, e questo era un modo, sostanzialmente, per rimettersi in pace con se stessi, con la propria coscienza. Questo meccanismo è saltato perché sono avvenuti nel mondo fatti così enormi, così ciclopici - solo la Rossana Rossanda è in grado di non vederli ancora, e quando dico questo, voglio essere generoso con la Rossana Rossanda, perché se non li vede vuol dire che è onesta, può darsi pure che li veda e li nasconda e allora significa che è in mala fede - per cui non è stato più possibile trovare un espediente terminologico, una teoria, un adattamento che permettesse di salvare quello che è il nucleo essenziale, fondamentale di questa tradizione. Il nucleo fondamentale, ripeto, è l'idea che attraverso un processo rivoluzionario la politica si impossessa di tutte le posizioni di comando della società, quindi il partito, in definitiva, controlla tutto: la scienza, la religione, la famiglia, l'economia, il diritto, qualsiasi cosa diventa cosa del partito, perché in fondo il comunismo è questo, che tutto diventa proprietà del partito, anche gli uomini stessi. Attraverso una operazione molto dolorosa, un'operazione travagliata, un'operazione anche costosissima sul piano umano, si pensava che si sarebbe raggiunta una società moralmente superiore, perché era questa anche l'idea che dominava, per esempio Berlinguer, convinto, anche lui, che la società sovietica avesse tratti liberali. Ora però, dopo che la storia si è incaricata di far sparire tutto questo, possiamo dire che dopo 200 anni dalla rivoluzione francese, il ciclo storico, epocale, durato quasi due secoli, e dominato dalla speranza nella rivoluzione, si è concluso. La politica - oggi è più chiaro a tutti - deve lavorare per creare condizioni nelle quali sia possibile la ricerca della felicità; poi ognuno sarà, come dire, signore autonomo in questa ricerca. Nessuno può avere il diritto di imporre agli altri questa ricerca, però la comunità, e in parte lo stato, hanno il dovere di creare queste condizioni minime di autorealizzazione.

A. Savorana:

Anche a noi piace molto questa idea di una politica limitata, ma che ha un grande compito, come ricordava adesso in conclusione Pellicani, nel suo elogio delle imperfezioni della politica: una preoccupazione, non per se stessa e il proprio automantenimento, ma per la possibilità di garantire una reale democrazia, vale a dire una reale possibilità per i singoli e le loro aggregazioni di esistere, di affrontare i propri bisogni, di tentare di costruire delle risposte in termini sociali, in termini concreti. In questo, io credo, sta il grande compito e la grande dignità della politica e anche il suo limite: non può pretendere, come abbiamo detto più volte, di offrire o di promettere il paradiso. Io ringrazio ancora Luciano Pellicani per la sua interessante e profonda riflessione.